Business and soups - affari e minestre
Capitolo quindicesimo - Al Ventura

 


Questa è la storia di Don Vito Gambini.
Chi l’ ha raccontata è Al Ventura, il suo vecchio amico, colui che aveva il compito di guardargli le spalle, ma che, alla fine, non seppe proteggere se stesso.
I proiettili che mi hanno messo in corpo non mi hanno ammazzato, ma mi hanno arrecato danni permanenti.
Ho una spalla più bassa dell’altra, e con il freddo dell’inverno ho delle fitte di dolore che solo la morfina allentano.
Un braccio è rimasto più corto, e faccio fatica ad allacciarmi le stringhe delle scarpe anche per colpa di una pancia prominente.
Detto questo, a completamento della storia, continuo parlando in prima persona.
Ho voluto raccontare del mio boss perché qualcuno, nel tempo, si ricordasse di lui e della nostra famiglia.
Ho raccontato di lui affinché la gente sapesse che uomo era, e per rendergli il giusto onore.
Quello che non gli fu dato quando morì, qualche anno dopo.
Dimenticato da tutti, anche da quelli che quando era Don Vito, lo ossequiavano, e gli chiedevano i piaceri baciandogli la mano.
Ricordo che un giorno mi disse, ripetendo le frasi di suo nonno, che gli uomini bisogna conoscerli e saperli classificare, prima di frequentarli.
Il nonno gli aveva detto che lui aveva incontrato uomini che erano uomini, mezzi uomini, gli ominicchi, i pigliainculo e i quaqquaraqua.
Queste cinque categorie non se le era inventate lui, ma le aveva lette da qualche parte, forse, o gliele aveva dette un’altra persona, là, in Sicilia.
Uno che non sapeva scrivere ma che contava.
E l’aveva fatta propria perché aveva potuto constatare che in effetti, gli uomini, erano classificabili nelle categorie menzionate.
Ma agli uomini, ai mezzi uomini, agli ominicchi, i pigliainculo e i quaqquaraqua, Don Vito avrebbe aggiunto i “Giuda” e i “San Tommaso” ché il mondo, diceva, era pieno.
Di traditori, tanti, che prima ti baciano e poi per trenta danari ti tradiscono.
E di “San Tommaso”, quelli che non credono se non vedono, paragonabili - diceva Don Vito - a quelli che nulla fanno per nulla.
Che prima di fare, e di credere vogliono vedere.
Vedere cosa? I denari, e che altro?
Magari qualcuno, più istruito di noi, li chiamerebbe diversamente, ma per Don Vito erano “San Tommaso”…….Sono quelli che fanno solo con le tasche piene…..
Prima di morire nel suo letto, Don Vito era stato anche lui oggetto di un agguato che, fortunatamente, e grazie all’intervento di Frankie Cicero, non si concluse tragicamente.
Accadde quattro mesi prima che fosse ricoverato in ospedale per asportargli un tumore alla prostata che due sicari assoldati dai Battaglia cercarono di fargli la pelle davanti al ristorante.
Si erano travestiti da garzoni del latte, con tanto di furgone, dopo che lo avevano posteggiato proprio davanti alla porta.
Dio volle, però, che Frankie Cicero passasse lì proprio mentre uno dei due stava estraendo la pistola per far fuoco su Don Vito, il quale, incoscientemente, aveva loro aperto la porta senza nessuna precauzione.
Fu Frankie, fortunatamente a pochi metri da loro, a sparare per primo, e a freddarli sotto lo sguardo attonito del boss.
E per avergli salvato la vita, Don Vito gli espresse riconoscenza eterna.
La notte che morì, a piangerlo eravamo rimasti in pochi.
C‘era la moglie Alfonsa, le figlie Maria Concetta, Giuseppina Rosaria, Addolorata con il marito Mark e il piccolo Vito jr., Carola con la gemella Santuzza ed Alfredo, e, infine Consolata che aveva finalmente messo la testa a posto.
Poi oltre al sottoscritto, c’era lo stesso Frankie Cicero, con il vecchio Calogero.
Don Vito aveva paura di morire. Di morire di malattia, intendo.
Temeva il dolore fisico, e il cancro che se lo stava portando via, lo fece soffrire a lungo e molto.
Avrebbe preferito, e questo me lo aveva detto più volte, una pallottola nella testa, “bang” un colpo, una morte immediata, piuttosto di una lenta agonia.
“Ma non ti puoi, caro fratello mio, scegliere la morte….. Puoi sceglierti gli amici, la moglie, un cane,…… ma la morte è lei che ti piglia, quando vuole…… lei”mi disse stringendomi forte la mano.
“E tu stammi vicino, ché con te mi sento sicuro!”
E io rimasi con lui a stringergli la mano finché non strabuzzò gli occhi in una ultima smorfia di dolore.
Dopo la cerimonia, ho preso i miei quattro stracci, ho abbracciate la cara amica Alfonsa e le sue figlie una ad una, ho baciato il piccolo Vito jr. , e stretto la mano di Mark, quella di Alfredo, e me ne sono andato, lontano.
Sono tornato in Italia, nel mio vecchio paese.
Ed è qui, da qualche anno ormai, che vivo in questo monastero, in questo angolo dimenticato dal tempo.
Le ferite mi avevano già indebolito. Poi la vecchiaia sta facendo il resto: respiro a fatica perché ho un polmone fuori uso per colpa, non dei proiettili, ma del fumo.
La gamba destra invece, a causa di quel famoso incidente, non riesco più a piegarla bene.
Quando poi cala la notte sono assillato da mille pensieri, da mille ricordi, e da centomila diavoli che mi promettono l’Inferno.
Quello che mi resta da vivere, ho voluto passarlo qui tra le pie suore di Santa Lucia, che la sorella di mia madre, povera anima, mi aveva tanto, ma tanto tempo addietro, descritto come sante.
Qua faccio il giardiniere.
Coltivo il mio orto fatto di pomodori, alberi di limoni, e insalate.
Mi posso considerare come un vecchio pensionato, ma non inutile.
Qui tutte le suore, che considero come le mie sorelline, hanno bisogno di uno come me pronto ad aggiustare: oggi un mobile traballante, domani mettere un chiodo al muro,o riparare le tubature dal tempo consunte.
E, soprattutto, avevano bisogno di uno che curasse anche l’orticello.
Queste cose io prima di adesso non le avevo mai fatte. Ma ho detto che le sapevo fare e, giorno dopo giorno, ho imparato…...
Loro, le sorelle, se ne erano accorte fin da subito che non ero capace, e che non sapevo distinguere, faccio per dire s’intende, un cetriolo da una melanzana.
Vedendomi all’opera, imbranato e maldestro, ridacchiavano abbassando il capo facendo finta di non vedere.
Ora innaffio, poto le piante, raccolgo i frutti, e bado anche alla incolumità dei loro corpi, perché all’anima ci pensa il Signore.
Sono lontani i tempi quando davo una sistematina alle faccende di famiglia.
Spero tanto che il buon Dio, nella sua infinita bontà, possa e voglia perdonare quest’uomo che si è pentito delle sue cattive azioni.
Ma allora, quando facevo quelle cose, non mi sembravano cattive azioni perché le facevo per la famiglia, non per me.
Certo ci mettevo del mio…… Ero bravo, allora………. Ma erano altri tempi.
L’ultima cosa che ho fatto in ordine di tempo - di sistemazione intendo - l‘ho fatta proprio qui, in questo mio orticello, proprio sotto quest’albero di limoni.
E questa ultima volta nessuno me la ha ordinata di fare.
Mi è venuta d’istinto, per dovere.
E’ stato quando ho dovuto necessariamente prendere severi provvedimenti contro il prete di questo monastero - certo Don Cicero - che stava approfittando di Suor Annunziatina.
L’ho scoperto proprio mentre le stava mettendo le mani addosso, quello sconsiderato, e non era la prima volta.
Quell’infame, e pure prete, approfittava della sua visita domenicale (quando era chiamato per dire Messa), per chiamare con una scusa qualsiasi la povera Suor Annunziatina, una minuscola e graziosa sorella avventizia, in disparte.
E una volta appartatisi, si prendeva delle libertà che un prete non si può, e non si deve prendere!
Io lo avevo visto all’opera già un paio di volte con altre sorelle, e rimasi sbigottito, mai immaginando che si potessero concepire sotto quelle vesti sacre certi atti così osceni.
In un primo momento pensai di non intervenire perché non erano fatti miei, ma poi vedendo che le pecorelle non volevano lasciarsi mangiare dal lupo cattivo, dato che alcune - non tutte, per la verità - prima di essere prese si ribellavano, mi dissi che dovevo fare qualcosa.
Prendere dei provvedimenti, insomma.
Così una domenica, prima che Don Cicero chiamasse a se qualche sventurata sorella, lo convinsi a venire a vedere come era bello il mio giardino, e che gli avevo messo da parte un cesto di limoni, pomodori, cetrioli e melanzane.
Poi, quando fummo arrivati sotto l’albero di limoni, e lui mi diede le spalle, gli strinsi così forte il collo che stramazzò al suolo senza proferire neanche un gemito.
Ora giace sotto questo albero alle cui radici fa da buon concime.
Le mie sorelline ancora non riescono a capacitarsi che fine abbia fatto quel prete.
Lo avevano visto arrivare di buon ora quella domenica mattina e poi, verso le dieci, prima della funzione, non l’hanno visto più.
Qualcuna dice che è stato colto da un forte dolore di pancia, a causa della sua ingordigia (era solito durante le sue visite mangiarsi diversi biscotti alle mandorle preparate per la circostanza dalle sorelle) e che, pertanto, aveva dovuto lasciare il monastero in fretta e furia per fare ritorno alla sua parrocchia. Ma alla sua parrocchia nessuno lo vide perché non ci arrivò mai.
Era come sparito nel nulla!.
Altre dicono - ma lo asseriscono solo le pecorelle che non hanno mai soggiaciuto alle voglie di quel marrano - che il sant’uomo era stato preso dagli Angeli (io dico dal Diavolo) e portato direttamente in Paradiso.
In paese la polizia aveva indagato senza trovare nulla….e ancora adesso sta brancolando nel buio pesto.
Nessuno sa, nessuno parla, perché nessuno ha visto, e anche se avessero visto, non direbbero una parola, perché l‘omertà in questi luoghi è sempre sacra.
In questo monastero di culto e di preghiera, nemmeno ci arriverà la polizia.
La verità la conosco solo io e, adesso, chi si prenderà la voglia di leggere questa mia storia.
Della famiglia,o almeno di ciò che resta, mi tiene al corrente il vecchio Frankie.
Ultimamente mi ha scritto che Alfonsa non si occupa più della cucina del ristorante.
Di quello, al quale hanno cambiato nome in Bella Italia, si occupano Carola con il marito Alfredo assieme alla gemella Santuzza che veleggia sempre in un mondo tutto suo, alternando momenti di abulia a momenti di euforica pazzia.
Mark e Addolorata si sono separati.
Lei ha preso a cantare e, pare, stia riscuotendo molto successo.
Attualmente è in turnée in un locale alla moda in un’altra città.
Qualcuno ha anche detto che abbia un altro uomo, un biscazziere di Las Vegas.
Mark si è sposato per la seconda volta, e adesso lavora a San Francisco, ma non si sa esattamente cosa faccia.
Il piccolo Vito jr. è diventato ormai un uomo.
Si è laureato in legge e fa il procuratore distrettuale a Los Angeles. Non è sposato.
Maria Concetta è morta un anno fa, e Giuseppina Rosaria è rimasta nella vecchia casa paterna a badare alla madre che non si muove più dal letto.
L’amico Frankie mi scrive che i Macaluso e i Battaglia a un certo punto, per avere la supremazia l’uno sull’altro del mercato dei narcotici, si sono fatti la guerra.
Ci sono stati tanti morti ammazzati sia da una parte che dall’altra, e alla fine l’hanno spuntata i Battaglia.
Ma il loro predominio è durato poco perché poi altre famiglie come i Gatto e i Costanza hanno preso il sopravvento, dopo altre guerre e altri morti.
Sono alla fine ormai della mia storia.
Per scriverla, fino al penultimo episodio, mi sono fatto aiutare da Suor Cesira, perché io sono ignorante e non so usare la penna come chi ha studiato.
Le ho dettato le parole ad una ad una mentre lei scriveva, correggendomi quando dicevo qualche inesattezza, e suggerendomi i termini esatti quando avevo difficoltà a esprimere quello che volevo dire.
E’ stata tanto paziente Suor Cesira ad aiutarmi a raccontare questa storia, e tengo a ringraziarla pubblicamente.
Mi ha aiutato fino al penultimo capitolo, poi l’ultimo, questo ultimo, l’ho scritto da solo perché se no avrebbe saputo che fine ha fatto il prete, e chi sono io in realtà.
Questo racconto tanto non lo leggerà mai, e casomai lo facesse, sarà dopo la mia morte.
Adesso penso che sia bello lasciarle credere che il prete sia volato in cielo (lei è una delle poche anime pure che non hanno subito le oscenità di Don Cicero), e che il sottoscritto sia stato mandato in loro aiuto dal Signore.
Che male c’è a pensare bene delle persone in questo mondo così avaro di galantuomini?
Del sottoscritto - che chiede umilmente scusa per la sua ignoranza e che non sa esprimersi compiutamente senza l’ausilio di Suor Cesira - penserete quello che è giusto pensiate.
Alla fine di questa storia voglio dire con forza e convinzione che, per un trovatello come me, la famiglia e Don Vito sono stati tutto: la mia casa, il mio mondo.
Quello che ho avuto in tutti questi anni l’ho avuto grazie a loro.
Anche i proiettili che mi hanno conficcato in corpo.
Ma non ho rimpianti per quella vita che mi hanno offerto.
Pentimenti si, ma solo adesso, quando penso alla morte che è prossima a prendermi.
Ed è per ingraziarmi il Signore che ogni sera, prima di coricarmi, mi faccio il segno della croce e dico le mie preghiere.
Per chiedere perdono, come in una confessione, ma non ai preti, per i quali, visto e considerato come si è comportato Don Cicero, non ho una buona considerazione.
Ho raccontato questa storia, che è anche la mia vita, come in una confessione.
Ho vuotato il sacco senza nascondere nulla, sperando che Dio creda nella sincerità delle mie parole e, dunque, mi dia la assoluzione, se non proprio completa, a metà - io mi accontento - e non mi tenga spalancate le porte dell’Inferno, ma almeno socchiuse quelle del Purgatorio.
Amen!

F I N E


Riveduto e corretto in data 15 aprile 2010

 

 

 

 

 

 

Piazza Scala - gennaio 2012