da: La collana di gelsomini - di Mariella Di Pasquale

 

quinta e ultima puntata

 

Nell’affollatissima piazza della Cattedrale, dove noi, attraverso scorciatoie eravamo già arrivati precedendo la processione,  era difficile trovare passaggio tra la gente in attesa che pigiava di qua e di là lasciando che i bambini si accalcassero gioiosi sulle scale del sagrato o accanto alle bancarelle dei  giocattoli oppure  intorno al pentolone da cui fuoriuscivano le bianche nuvole  dello zucchero filato. Dalla traversa a destra della piazza arrivava a zaffate un forte odore di carne di maiale, frittole e curcuci che ribollivano nei grandi calderoni fumanti con sotto un allegro fuoco ardente, acceso proprio là, sui marciapiedi, davanti alle macellerie.  Ormai la processione stava  arrivando  al  Duomo. Ed ecco che dal Corso, svoltato l’angolo, per prime apparvero le bambine vestite da prima comunione che, in fila per due, con gli occhietti vispi, iniziarono ad attraversare  Piazza Duomo. Al rullo del tamburo della banda, tutte contente, sembrava a volte volessero accennare, secondo la cadenza ritmica di quei colpi, qualche passo di danza subito bloccato dalle vigili occhiate disapprovanti delle suore.  I portatori invece, all’inizio della piazza,  si fermarono per quasi un minuto e poi, benché stremati per la stanchezza, quasi trattenendo il respiro per meglio immagazzinare l’aria,  si prepararono alla corsa  finale. Al comando, ecco l’impetuosa, affannosa, “volata” della Vara dal fascino apocalitticoPrecipitosamente i portatori,  mentre il quadro ondeggiava tanto  che la gente per paura si scansava, attraversarono di corsa la piazza urlando: “Viva Maria! Viva Maria!”. Si bloccarono ansanti sotto le scale del sagrato, fecero un giro completo su se stessi e, indietreggiando, salirono lentamente  i gradini.  Entrati  in chiesa attraverso la grande porta centrale spalancata,  sempre indietreggiando,  portarono la Vara fino  in fondo nel transetto.  La Madonna finalmente era arrivata, tutti  i fedeli adesso
potevano andare a trovarla ogni giorno fino a novembre per averne consolazione.              
Sulla destra della piazza intanto, sotto l’ombra dei pruni marini così ricchi di foglie che non c’era stacco fra una chioma e l’altra, si poteva assistere alla danza di rito: ‘a viddanedda, (‘a tarantella) ballo popolare antico legato forse a certe manifestazioni rituali del periodo della Magna Grecia in occasione di festività agresti, vendemmia o trebbiatura, o festività religiose.   Ci unimmo al cerchio di gente ammassata che stava in piedi lì, da buoni spettatori, a guardare e a battere le mani a tempo.

Al centro un uomo e una donna, generalmente contadini di Cardeto con i tipici costumi della festa, al suono dell’organetto e dei tamburelli dai sonagli tintinnanti agitati da vari suonatori, si muovevano immedesimati in una danza liberatoria dalla cui varia simbologia, che caratterizzava la cosiddetta fase di corteggiamento, scaturiva  una coreografia affascinante.  La donna  a volte sollevava con le mani un po’ le sottane, appena appena, come se il gesto facesse semplicemente parte della danza.  In effetti, pur  rimanendo perfettamente seria per dimostrare resistenza alle attenzioni maschili, quello svolazzare della gonna che faceva intravedere le caviglie, poteva sottintendere nascostamente un cenno di consenso. Anche l’uomo si muoveva serio nell’ansia della conquista, come con circospetta cautela e necessaria prudenza, ma a tratti, con piglio deciso, a braccia larghe, schioccava le dita  come per dare un ordine. Dalle movenze dei corpi, da certi sguardi fulminanti o da cenni inequivocabili, traspariva  una forte e volitiva sensualità.  Era  evidente la voglia di piacersi o forse di destare gelosie,  o di stimolare intimi piaceri.

 Dunque i due danzavano frenetici nei movimenti antichi, ma sempre dignitosamente sostenuta la donna,  con gli occhi per lo più rivolti verso il basso a maggior dimostrazione di un distacco riservato. La ricca gonna, lunga e pieghettata, ondeggiava  morbida sui piedi scalzi e il seno saltava su e giù come volesse venir fuori dal corpetto un po’ scollato e già scurito dal sudore sotto le ascelle.  In quei volti senza sorriso non si leggeva  la normale lietezza della danza  ma qualcosa di più, molto di più: un’intensa intima gioia, sensazioni inconsce di insperata libertà. Uomini e donne insieme, a volte senza conoscersi e senza ipocriti pudori, in una vicinanza fisica inusuale, finalmente potevano danzare liberi di guardarsi, di sfiorarsi come inavvertitamente, percependo il calore dell’altro o avvertendone il respiro pesante. Il piacere assaporato era perciò  così intimamente e violentemente intenso che non permetteva loro di sorridere.

Ad un certo punto al grido: - Fora ‘u primu! - di chi soprintendeva alla danza, il cosiddetto “mastru ‘i ballu” che dettava le entrate  e le uscite,  uno dei due ballerini era obbligato a “uscire”, a ritirarsi indietreggiando lentamente. Toccò alla donna che, con le spalle ben diritte adesso e la testa orgogliosamente alta (la sua onestà apparentemente non era stata scalfita!), cominciò ubbidiente  a indietreggiare, le mani incrociate dietro la schiena, sempre ritmando i passi al suono dei tamburelli. Lo sguardo fiero ma come assente, fisso in avanti verso un punto inesistente, sembrava celare insofferenza o desiderio inappagato. Dal cerchio degli spettatori  contemporaneamente,  secondo l’ordine di scelta d’ ‘u mastru ‘i ballu, subito un’altra donna,  con un mezzo sorriso enigmatico da cui traspariva l’ansia della seduzione, iniziò l’entrata. Ancheggiando avanzava a testa alta, orgogliosa della sua femminilità. Arrivata al centro del cerchio, sempre muovendosi seguendo il ritmo dei tamburi,  solo allora pudicamente abbassò gli occhi come fulminata dallo sguardo acceso del suo partner e  cominciò a danzare lasciando che lui le sfiorasse i fianchi.   Date le giornaliere fatiche nei campi e a casa, stupiva particolarmente l’incedere altero delle contadine calabresi, spalle diritte e testa alta! Assaporando nel ballo la possibilità di dominio sull’uomo, le donne forse sentivano una maggior consapevolezza della propria forza, una decisa affermazione di se stesse! E questo a prescindere naturalmente dall’essere costrette spessissimo a  portare sulla testa, poggiati sopra ‘na cuddura ‘i pezza (sorta di ciambella di stoffa che attutiva l’attrito sulla cute), considerevoli pesi (quartarii cocciu piene d’acqua presa alla fonte o grandi ceste stracolme di verdure), abitudine che certamente avrà contribuito parecchio  a dare alle contadine calabresi quella tendenza al portamento  elegante,  da mannequin di campagna!   Gli uomini portavano spesso dei calzari con lacci legati intorno alle gambe che  ricordavano quelli dei briganti.  “Io ho visto una volta un brigante - mi aveva raccontato un giorno mamma - quando con mio padre siamo andati al Santuario di Polsi, detto da’ Maronna d’a Muntagna. Centinaia di pellegrini vi si recavano per devozione o per voto facendo tutto il cammino a piedi. Quell’anno  mio padre decise di portare anche me a Polsi, così in tanti partimmo da Reggio a notte alta su dei camion, preparati ad affrontare  poi a piedi  un percorso di parecchi chilometri.  Buio pesto d’intorno, periodo di novilunio, si vedevano solo le stelle dove non c’erano nuvole. Mentre io e papà  stavamo riposando seduti su un muretto, vedemmo avanzare due ombre avvolte in lunghi mantelli neri. L’ombra più alta e imponente, appena rischiarato il suo viso dal lume che portava, quando avvicinandosi illuminò il viso di mio padre, subito s’inchinò  bisbigliando: - Basciolemà, Voscenza binirica - e continuò il suo cammino. - Hai visto Catuzza? - mi disse mio padre -  quello era il brigante Musolino, mi avrà riconosciuto perché è parente di un mio colono.    Capiscisti Maruzzedda? – continuò mamma -  Il brigante dunque rispettava in tuo nonno il buon padrone della terra. Proprio così, i briganti avevano ancora  il senso del rispetto e dell’onore, soprattutto Musolino che cercò di aiutare i poveri come Robin Hood.  Nel 1898 cinque falsi testimoni fecero condannare Musolino a 21 anni di carcere, pur essendo piccola lo ricordo ancora bene. Tutti i reggini però sapevano che Musolino era innocente perciò, quando morì, fu fatto un  funerale solenne con la banda e centinaia di persone parteciparono. Nel suo ultimo viaggio al cimitero del suo paese, S. Stefano d’Aspromonte, tutti i compaesani - concluse mamma - gli tributarono solenni onoranze.  

Per venerare la Madonna e fare spese nelle varie bancarelle, anche da Bagnara arrivarono  tante  donne indossando quelle loro tipiche gonne ricchissime e molto arricciate in vita. Era risaputo che le bagnarote fossero donne non solo molto forti e determinate, ma anche particolarmente orgogliose e vogliose d’indipendenza e soprattutto grandi lavoratrici in casa e fuori  casa. Abituate a star sole per molto tempo in quanto i loro mariti o padri o fratelli, in alcuni mesi dell’anno, tutto il giorno si dedicavano alla pesca del pescespada, oltre che badare alla casa e ai figli,  dovevano affrontare anche il lavoro nei campi,  nelle vigne e cuocere nei forni a legna una gran quantità di pane che doveva  bastare almeno per una settimana. Non si stancavano mai e non avevano paura di niente. Gestivano da sole inoltre,  in questo proprio specializzate,  la vendita di contrabbando del sale di Sicilia dove non esisteva monopolio. In un andirivieni continuo fra Villa S. Giovanni e  Messina,  portavano sul ferry-boat  pacchi di sale di Sicilia nascosti (chi li avrebbe mai perquisite) sotto le lunghe e ricche gonne, per poi venderli  in Calabria a un prezzo minore di quello corrente del monopolio.

Il giovedì era giorno di colloquio con i detenuti perciò dalle colline vicine scesero in città tanti contadini  che, oltre ad onorare la Madonna, speravano di vendere bene i loro ortaggi e di potersi recare anche al carcere per parlare con qualche parente in prigione. Gli uomini camminavano a piedi tirando per la cavezza l’asino in groppa al quale, carico anche di due ceste pendenti ai lati piene di frutta e verdura, le donne  avevano un atteggiamento superbo che sembrava nascondere chissà quali segreti e misteri di altere amazzoni di una Calabria antica. In un angolo appartato della Villa Comunale ho visto però una di queste amazzoni… che faceva pipì in piedi: da sotto la sua lunga, ricca gonna, un rivolo cominciò a serpeggiare allungandosi per terra.  Evidentemente non portava mutande! Quindi, sull’asinello, quelle donne certo non potevano avere l’aspetto di focose guerriere,  tuttavia nello sguardo si notava davvero un’aria battagliera, fatta di sicurezza in se stesse, di chi non teme e non si vergogna di niente.  Non traspariva mai stanchezza o malinconia da quello sguardo fiero, piuttosto orgoglio ma anche rassegnazione. Lo strapazzo di giornata e il carcere facevano parte della loro vita, come il terremoto o lo scirocco arido o l’acqua vorticosa d’ ‘a χiumara che spesso straripando distruggeva i loro campi.

 - Aaaah, arrà, arrà, sicarro! - gridava l’uomo all’asino per farlo camminare più svelto, battendolo forte  con un bastone.

- Arrà, arrà -  e il povero asino dolorante, continuando esausto a  trotterellare, tirava fuori un forte raglio come un pianto. 

- Gnursì, è veru - mi aveva detto una volta a San Basile un vecchio colono - I scecchi ciangiunu, poviri scecchi, gira e firrìa faticanu e puru bastunati!

 Forse quel raglio all’inizio era il grido disperato di un ribelle, ma poi, per consapevole debolezza, adagio adagio andava scemando in un singhiozzo doloroso di sconforto e di sopportazione: ih oh, ih oh, hi ho… 

Aveva la faccia butterata quel colono di San Basile,  se ne vedevano ancora di poveretti che per grazia di Dio avevano superato il vaiolo.

- Cu dda faccia bucata e ddi quattru pila in testa, quant’è lariu e allampanatu -  diceva di lui papà – pari  ‘a morti ‘n vacanza,  non mu vulissi ‘nsunnari stanotti! -. Però era molto saggio e fra tanti analfabeti era uno dei pochi contadini che sapeva leggere e scrivere e con pazienza mi raccontava sempre la storia di “Guerrino il Meschino” generoso e coraggioso che combatteva nelle terre lontane dell’Oriente misterioso.

 - Mi cunti nu fattu? - gli chiedevo.  - Ti dissi che non è fattu, è cruru!!! - E rideva sdentato.

Il suo era uno strano lavoro: Scrivano autonomo. Piazzato ogni giorno accanto all’ingresso del Municipio di Motta,  stava lì seduto, con un tavolino davanti, ad aspettare  clienti  analfabeti. Ce n’erano tanti in quel tempo e  naturalmente avevano spesso  bisogno che qualcuno  scrivesse  per loro o una domanda al Comune intestata all’Illustrissimo Sindaco, o una lettera a un parente che stava in America o anche una lettera all’innamorata. A San Basile era forse l’unico contadino che, durante qualche anno trascorso in prigione, aveva imparato a leggere e a scrivere.

A Festa ‘i Maronna  non potevano mancare ‘U Giganti e ‘a Gigantissa.  Non era Festa senza i Giganti.
Personaggi mitici di un’antica leggenda popolare, simboli di un grande amore, Mata e Grifone erano due enormi pupazzi di
cartapesta, alti più di tre metri:  la Gigantessa bianca e il Gigante moro.                                                         
 

A Messina viveva Marta (in dialetto Matta o Mata) una bellissima ragazza virtuosa e fervente cristiana. Pare che verso il 910 d.C. un moro di nome Ibn-Hammar sbarcò a Messina e con i suoi compagni depredò la città. Poi vide la bella Mata, se ne innamorò e le chiese di sposarlo. Ma la bella rifiutò. Il moro allora divenne più crudele. E Mata resisteva dedicandosi alla preghiera finché il moro si convertì e cambiò il suo nome in Grifo che per l’imponente statura dell’uomo divenne Grifone. Egli dunque diventò un vero cristiano e alla fine Mata se ne innamorò. Grifone celebra sempre ancora oggi il suo grande amore per Mata con il leggendario ballo, anche questo di corteggiamento, insieme alla sua amata.  In altri racconti popolari Grifone è un turco e Mata è calabrese.

A testimonianza di un’antica  e comune matrice culturale, i Giganti si ritrovano anche nella cultura popolare di altre nazioni: oltre che in Italia e Grecia anche in Spagna e ancora  in Belgio e a Malta.

“Secondo una storia popolare re Murat nell’ottobre del 1815 sarebbe dovuto sbarcare a Briatico dove però quel giorno era festa  e le grida che provenivano dal paese  e i tam tam della grancassa  ma soprattutto la vista dei Giganti… spaventarono i francesi che decisero di sbarcare a Pizzo. I Giganti, in quel momento stavano cambiando la storia… (da: Armoni Centro Studi umanistici e scientifici).

Esemplari dei Giganti, vere e proprie opere d’arte popolare, troviamo in Calabria a Taurianova, a Polistena, Palmi, Bellantoni di Laureana di Borrello, a San Leo,  Mesiano, Briatico, Ionadi, Sciconi, Papaglionti di Zungri, Dasà. 

 

Nascosti sotto le lunghe tuniche di seta e raso di vari colori,  indossate dai due enormi fantocci, due uomini li sostenevano, se ne intravedeva appena il luccichio degli occhi attraverso due buchi nelle leggere vesti all’altezza dello stomaco dei giganti. Malgrado il peso  considerevole, al ritmo dei tamburi,  i due portatori riuscivano a farli agilmente danzare nel “ballo del corteggiamento”.

Grifone avanzava imponente col suo elmo e i grossi baffi neri,  Mata, appariscente nelle forme, fianchi e seno prorompenti, sembrava volersi fare ammirare con i suoi pomelli colorati di rosso e le collane variopinte e i voluminosi orecchini.  Testoni rigidi,  occhi fissi senz’ anima, i due Giganti avanzavano perciò seguendo il ritmo, con giravolte e piroette e mezzi inchini, in un frenetico antico ballo rituale carico di simbolismi. Ad ogni giro su se stessi le lunghe leggere braccia di pezza senza vita si allargavano come ali per ricadere subito sbattendo mosce lungo i fianchi, mentre la gonna di Mata, svolazzando, accarezzava le teste dei bambini timorosi e imbambolati là a guardare con il mento alzato e un dito in bocca. La forte emozione collettiva esorcizzava l’infantile paura innata. “Scindìti, scindìti! Arrivaru i Giganti!” gridavano i suonatori di tamburo e tutti, anche quelli affacciati alle finestre o ai balconi vestiti a festa, battevano a tempo le mani e gettavano monetine.

A mezzanotte i primi spari. E subito cominciarono a salire verso il cielo mille stelle luminose, jochi ‘i focu scintillanti, per la gioia dei bambini. Grande frastuono, ventagli di luci colorate nel cielo stellato e gridi e scoppi e risate. Infine di seguito quattro spari finali distanziati di cui l’ultimo, staccato di qualche secondo ma più forte e assordante,  avvisò tutti che la festa era finita.  Le strade cominciarono a svuotarsi lentamente. Prima l’una poi l’altra si spensero  le luci delle bancarelle. I tamburi si zittirono  e  sparirono i Giganti.  Suoni smorzati adesso, bisbigli qua e là.  Nel silenzio quasi improvviso  solo il pianto di un bimbo si percepiva laggiù, in fondo alla piazza quasi vuota: sgomento il piccolo,  trattenuto per mano dalla mamma, con gli occhi lacrimosi rivolti verso l’alto, seguiva  alla luce di un lampione,   il desiderato palloncino a lui sfuggito che saliva, saliva sempre più in alto, fino a superare la luce della lampada, sempre più su, verso il mistero della notte.

 

Mariella Di Pasquale (Roma)

 

 

 

 

 

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Piazza Scala - luglio 2014