da: La collana di gelsomini - di Mariella Di Pasquale

 

terza puntata

 

Ricominciò a funzionare il Cine-Teatro Siracusa, più cine ormai che teatro. Di fronte, all’aperto, sotto un pergolato, ci si poteva sedere al Caffè Siracusa e ascoltare piacevolmente un’orchestrina formata tutta ‘i fimmini. Mia nonna Saveria abitava proprio di fronte al Siracusa e stavamo spesso affacciate al balcone a guardare il passeggio. Quel balcone era molto importante per nonna Saveria: seduta di giorno lì, accanto ai vetri per vederci meglio, rammendava o ricamava e ogni tanto mi chiamava: “ Veni ccà, ‘nfilami ‘sta ugghia”.
Da quel balcone un giorno, almeno così la nonna mi raccontò, aveva ascoltato Beniamino Gigli che cantava al Teatro Siracusa. Dagli altoparlanti, piazzati sulla strada dal Comune, tutta la gente rimasta fuori dal teatro, all’interno ormai posti esauriti, almeno poté sentire il grande tenore.
Al Siracusa davano un bel film del ’42 quel giorno: «Fuga a due voci», e un ragazzo, guardando i grandi cartelloni appoggiati al muro vicino all'ingresso del cinema, cominciò a fischiettare le canzoni, motivi conduttori del film, cantate da Gino Bechi:

La strada nel bosco
Vieni, c’è una strada nel bosco
Il suo nome conosco
Vuoi conoscerlo tu…

 

Soli soli nella notte

Con te, soli soli nella notte
Con te fischiettando una canzone
Con te sotto il raggio della luna…

I “cartelloni” erano dei grandi e rigidi cartoni sempre poggiati alle pareti di ogni cinema, accanto all’entrata, per attirare il pubblico. Di solito rappresentavano una scena del film, dipinta da qualche pittore squattrinato che così riusciva a guadagnare qualcosa. La nonna, quel giorno, indicandomi dal balcone i cartelloni, mi disse: - Ddi cartelluni i pittau ‘u maritu d’ ‘a cummari Angelina. Iddu si senti un bravu pitturi, però pi’ campari faci stu lavuru, u maru, pitta cartelluni e canta: O mia Angelina, Angelina del mio cuore… Forsi prestu, maritu e mugghieri emigreranno in Argentina -.
Verso la fine degli anni ’40 si cominciò a sostituire i cartelloni con i manifesti su cui apparivano il titolo del film, le foto e i nomi degli attori e del regista. In genere venivano incollati sia sulle pareti esterne del cinema intorno all’ingresso, sia sui muri della città. Per il film “Giorni perduti” (lo davano al Cinema Moderno) che parlava di alcolismo (protagonista Ray Milland – premio Oscar) la città fu tappezzata, per la prima volta, di tanti manifesti con il titolo del film scritto a grandi lettere di colore rosso su sfondo bianco. Ma si diffusero anche tanti altri tipi di manifesti che pubblicizzavano vari prodotti come il BRILL, uno dei primi e più famosi esempi di pubblicità attraverso l’immagine.
In Via Sbarre, superato il Ponte S. Pietro e il vialetto del carcere, nel suo negozietto il carbonaio riprese a vendere il carbone che serviva a tutti per la cucina a carbone e per il braciere. Tutto in quel bugigattolo era sporco di nero: le pareti, il pavimento, i sacchi pieni di carbone, l’aria che respiravi. Lo stesso carbonaio aveva grossi segni neri sul viso e sulle mani. Uscivi da lì col pacchetto pieno di carbone e le tue mani erano già nere! Accanto al carbonaio il negozio della vecchietta che vendeva biscotti ‘i granu, buoni nel latte al mattino mescolati con biscotti dolci fatti in casa, o per merenda ammorbiditi con un po’ d’acqua e poi cunzati con fette di pomodoro, sale, olio e basilico. Di fronte, oltre la strada, riaprì pure ‘a putia di don Peppino, testa pelata, detto u tignusu, che vendeva alimentari ma nessuno lo pagava, per lo meno non subito, tutti a credito: - Signàti don Peppinu, poi facìmu u cuntu - Si pagava a fine mese, quando arrivava il famoso ventisette!
Ai piedi della scalinata del Teatro Comunale, accanto ad un basso pilastro, si piazzò “u bumbulunaru” il quale, man mano che, dall’apposita impastatrice poggiata su un muretto, quella pasta per caramelle, molle ed elastica, fuoriusciva tutta colorata, striscia lunga e morbida, larga tre o quattro centimetri, lui l’arrotolava pazientemente e poi la tagliava a pezzetti per formare via via i bumbuluni, quella delizia di caramellone panciute tutte a righe colorate. Li sistemava a montagnetta sul piano di marmo del basso pilastro e li vendeva senza incartarli. Quando li mettevi in bocca te la riempivano tutta. Un po’ come le «bombe americane», quei primi tipi di chewing-gum a palla grossa, cingomme le chiamavamo in un inglese italianizzato. Tenendo ben tesa, con la lingua tra i denti, quella pasta gommosa, bastava un bel soffio e venivano fuori dei grossi palloncini che scoppiavano davanti alla bocca e il velo di gomma ti si appiccicava come fuliggine nera sul mento, sulle labbra e sul naso!
Poteva mancare ‘u cogghi muzzuni? Pure lui tornò a raccogliere le cicche di sigaretta buttate a terra, per strada, da vari fumatori. Era un uomo anziano, un vagabondo, una specie di clochard, gran fumatore. Quando non aveva soldi per comprare le sigarette allora percorreva tutto il Corso Garibaldi cercando muzzuni che di solito trovava proprio sotto il gradino dei marciapiedi, spinti lì dai piedi dei passanti o dal vento. Per non stancarsi a stare sempre chino, usava un bastone munito di punta (un chiodo ficcato capovolto nel legno del bastone), con il quale infilzava le cicche che poi metteva in un sacchetto. Quando era stanco si sedeva sui gradini del teatro Comunale, o sui gradini della chiesa di S. Giorgio e, pazientemente, scartava tutti ‘ì muzzuni. Con quel tabacco incatramato riempiva delle leggere, quasi velate, cartine bianche che poi arrotolava e incollava leccandone gli orli con la lingua, formando così delle sigarette strapiene di nicotina, catrame e monossido di carbonio!
I mezzi pubblici naturalmente lasciavano molto a desiderare, specialmente le lente e malandate corriere, (quando funzionavano…) che andavano o venivano da fuori città. Spesso i contadini delle campagne vicine, per portare in città gli ortaggi o la frutta da vendere, erano costretti ad alzarsi dal letto ancora a notte alta per fare tutto il cammino o sulla groppa dell’asino già carico di ceste o anche lentamente a piedi per alleggerire la povera bestia. In città in compenso circolavano molte carrozze, taxi d’altri tempi. Il trasporto delle merci avveniva o per nave via mare, o in treno sui cosiddetti carri bestiame che perciò non portavano solo animali come si può pensare, ma tutta una gran varietà di merci che spesso venivano scaricate proprio in città davanti all’ingresso di qualche negozio o anche davanti al portone di qualche casa privata, se si trattava di un trasloco. Proprio così, uno dei vagoni del treno, trascinato da un camion, entrava direttamente in città. Non c’era il traffico caotico di oggi!
Mezzi privati ce n’erano pochi. Ancora circolava qualche vecchia Balilla! Come utilitaria circolava invece la Topolino, ma dopo furoreggiò la 500 e più tardi la “giardinetta” che colpì molto per quelle eleganti rifiniture in legno. Di moto ce n’erano diverse: la Gilera, la Guzzi, la Benelli, la Mondial e più tardi la mitica Vespa seguita qualche anno dopo dalla Lambretta.
 

 

Fine terza puntata (continua)

 

 

 

 

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Piazza Scala - aprile 2014