da: La collana di gelsomini - di Mariella
Di Pasquale
seconda puntata
Un giorno, dopo aver raccolto nel nostro giardino tanti boccioli di gelsomini ancora chiusi e venati solo un po’ di rosa, li ho cuciti pazientemente l’uno all’altro con ago e filo bianco attraverso il piccolo stelo umido e sottile, attenta a non spezzarlo, quasi mi pareva potessi fargli male trafiggendolo. Così si sono raccolti i candidi boccioli stretti lungo il filo, formando via via una collana lunga, da girare all’indomani due volte intorno al collo, trionfo sbocciato e odoroso, fresco di linfa palpitante. Il giorno dopo, a scuola, Suor Colomba, la mia maestra, ammirò molto la collana di gelsomini, però subito dopo mi disse di ripetere la poesia che ci aveva assegnato il giorno prima. Non sbagliai neanche un verso:
Le ochette del pantano la stessa parola
vanno piano piano piano una è nell’acqua
tutte in fila come fanti come una barchetta
una indietro e l’altra avanti. fatta di un foglio
Una si pettina di un libro di scuola.
l’altra balbetta
Suor Colomba ci faceva imparare a memoria tante poesie e leggende musicate e poi ci faceva cantare inni sacri ma anche “Fratelli d’Italia” e il “Va pensiero”. Ricordo in particolare solo pochi versi di una leggenda musicata che parlava di Breus, un cavaliere antico che alla bella contadinella, che prendeva acqua alla fonte, così cantava:
- Mi daresti, mi daresti , un bicchier d’acqua? - Monta sul mio cavallo, ti porterò al castel
mi daresti, mi daresti un bicchier d’acqua? monta sul mio cavallo,
- Non ho tazze né chicchere e bicchier, ti porterò al castel.
per dare a bere a voi cavalier.
Naturalmente sognavo sempre un bel cavaliere come Breus che avrebbe portato un giorno anche me a cavallo nel suo castello.
Quando la suora, in piedi appoggiata al mio banco, gridava: “Silenzio!” a qualcuno che chiacchierava, le vene del collo, quel po’ di collo che si vedeva uscire dalle bende bianche, per lo sforzo le si gonfiavano. Dal basso lo notavo bene però spesso ero costretta a ripararmi il viso, con la mano a visiera, dai suoi spruzzetti di saliva. Tutti dovevamo stare attenti a ripararci quando suor Colomba ci parlava da vicino e c’era sempre qualcuno che ogni volta piano, sottovoce, mormorava a cantilena:
In classe Suor Colomba
sputacchia ed è racchia-a
per chi le sta vicino
è proprio una pacchia-a!
Sul Corso Garibaldi, la strada del passeggio, cominciarono a riaprirsi vari negozi rimasti chiusi durante i bombardamenti. Così ad esempio quello delle sorelle La Motta, rinomate modiste. Zitella una e vedova l’altra, crocchie di capelli bianchi e sguardo furbo di commercianti di antica esperienza, erano tornate subito, dopo lo sfollamento, a rivendere pizzi e merletti, acconciature per sposa e cappelli neri per il lutto con la famosa “veletta”.
Anche la signorina Nanna, nel suo angusto negozietto dalle parti del Duomo, tranquillamente ricominciò a fare i buttuni ‘i stoffa, cioè bottoni ricoperti con i pezzi di stoffa che le clienti le portavano per ottenere bottoni uguali al tessuto del vestito o del cappotto o del tailleur. Nanna poggiava sull’apertura di un piccolo cilindro di acciaio un pezzetto di quel tessuto e poi, con una leva, faceva scendere giù di colpo una specie di pistone che premendo attaccava la stoffa all’anima del bottone. Era brava ‘a signurina Nanna a fari i buttuni ‘i stoffa.
In Piazza Duomo, nella loro profumeria, le Sorelle Matamé tornarono a vendere creme, profumi e belletti. Non era quello il loro cognome ma papà chiamava così qualsiasi coppia di donne (due sorelle, mamma e figlia, due amiche) che avesse qualcosa di buffo. Le sorelle Matamè in effetti portavano i capelli pettinati in modo strano: anticipando quella che poi, negli anni 60, si chiamò “cotonatura”, avevano infatti due teste arruffatissime di capelli tinti male, una rossiccia e l’altra biondo-platino giallastro. Io le chiamavo le Capillere!
Pina la grassa, rammagliatrice provetta, riprese a svolgere il suo lavoro nella sua casa in Piazza Carmine. Rimetteva a posto le calze “sfilate” delle clienti, quelle velate che non si trovavano facilmente. Già, le calze si rammagliavano, si riprendevano le maglie, non si buttavano come adesso, tempo di consumismo. Pina ogni tanto, per riposare la vista, si affacciava alla finestra e, guardando con occhi stanchi e arrossati le bancarelle dei fruttivendoli odorose di origano e basilico, cantava per distrarre la sua bambina:
C’era una volta un piccolo naviglio,
c’era una volta un piccolo naviglio,
c’era una volta un piccolo naviglio,
che non sapeva, non sapeva navigar.
E dopo una due tre quattro cinque sei sette settimane,
e dopo una due tre quattro cinque sei sette settimane,
e dopo una due tre quattro cinque sei sette settimane, il naviglio
s’affondò.
Fine seconda puntata (continua)
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