da: La collana di gelsomini - di Mariella Di Pasquale

 

prima puntata

 

Tornati a Reggio dopo l’armistizio, tante macerie per le strade ancora lì a imputridire aspettando la ricostruzione. Presto cominciammo a non farci caso, né più colpivano quei palazzi sventrati, i lunghi ferri che spuntavano dalle pareti aperte, spettrali ossa nere di scheletri danzanti fra tappezzerie sbiadite di stanze scoperchiate, impunemente intraviste nella loro intimità senza segreti.

La guerra? Poco tempo era passato per dimenticare i morti da piangere, ma  abbastanza per rialzarsi e ricominciare a camminare anche se dentro ti risuonava ancora la sirena che annunciava un bombardamento. Con tono basso quel lugubre suono  cominciava lento e proseguiva come trascinandosi in salita, prendendo però via via maggior velocità e saliva, saliva rapidamente acuto verso l’alto, sempre più penetrante.  D’improvviso restava sospeso sulla stessa nota stridula, continua, interminabile, per poi cominciare  a decrescere scendendo  velocemente  verso note sempre più basse, fino a zittirsi di colpo in un silenzio di tragedia. Pochi attimi ed ecco il rombo pauroso degli aerei. Giù nel rifugio si stava ansanti e immobili,  gli occhi rivolti verso l’alto nel terrore dello squarcio orribile.  Per distrarre tutti mamma spesso  cantava:

 

       Chitarratella, sveglia ‘o core,  chitarratella,                 è tardi, si è avviato il calessino

          é tardi, è tramontata già la luna                                   ho aperto il cancelletto del giardino …                   

 

Quella volta l’interruppi urlando: “Mamma devo fare pipì”.  Quando avevo paura mi veniva sempre di fare pipì.  “Chi camurria! T’a teni! - gridò mamma - ‘A sintisti ‘a sirena o no? Bisogna aspettare. Quando ricomincia a suonare  allora tutti possiamo uscire dal  rifugio e ti porto a fare pipì. Perciò ora sta’ zitta, cataplasma!”.  Qualcuno, per smorzare la paura, disse :  “Noi uomini possiamo farla nel vespasiano, ah ah, voi donne nooo”.  E papà aggiunse ridendo: “ Giustu! E tu Maruzzedda, a sintisti bonu a to’ mamma? Perciò non  devi cèdere  ma mettiti a sédere e basta così”. Quasi me la stavo facendo addosso per il gran ridere però subito sussultai:  sopra di noi  frastuoni e scoppi terribili e gridi e invocazioni di aiuto.

Maru a ccu mori dicono i reggini,  i vivi si riprendono.  E infatti,  a Reggio, bene o male, si riprese ad andare avanti, lentamente,  ma in maniera continua.  Si ricominciò a ricostruire le case, spesso  nello stesso posto dove stavano prima.  Si sarebbe potuto  cambiare posto, se non altro per scaramanzia, ma gli uomini  rimangono attaccati alla propria fetta di terra e non vogliono cambiare, continuano a ricostruire  anche a ridosso di un vulcano che  ha già spazzato via altre volte le  loro case, o là dove sono  state distrutte da un terremoto, o  dove una frana o una tempesta ha trascinato via tutto. Del terremoto del 1908 mamma mi raccontava tante cose: “Le case ondeggiavano,  le ho viste  crollare,  afflosciarsi per terra. Terrore negli occhi di tutti e un senso d’impotenza di fronte a una forza così immane e misteriosa. E il mare si alzò, fino alle Via Marina arrivarono le ondate gigantesche! Io ero uscita con mamma la sera prima del terremoto, per passeggiare in Via Marina dove incontrai la mia cara amica Giulia ‘a Pennestrì con sua madre che le concesse di proseguire con noi la passeggiata, dopo l’avremmo accompagnata a casa. Ci fermammo vicino agli scavi antichi, quelli pieni di pietre greche, poi attraversammo  la strada per affacciarci alla balaustra in ferro, al di qua dei binari della ferrovia, a respirare il mare. Improvvisamente Giulia, di scatto, si girò a guardare dietro, oltre la strada, gridando: - “Guarda, guarda Catuzza, guarda là sull’albero, a destra, là, là, sulla magnolia, la vedi?”. Non vedevo proprio niente.  Giulia era pallida, gli occhi sbarrati  pieni di terrore. “Ế lì, è lì, seduta su un ramo, là in alto. È mia nonna, la vedi? Mia nonna è morta tanti anni fa. Mi dice vieni, mi chiama, mi fa cenno anche con la mano. Brutto segno Signore mio!”. E scoppiò a piangere.  Per lei era una premonizione di qualcosa di terribile. Non voleva tornare a casa sua, voleva restare con me, ma andò via lo stesso, il padre  non le avrebbe mai permesso di restare a dormire da un’amica. L’indomani la sua casa cadde per il terremoto e lei morì sotto le macerie con tutta la famiglia. Che disastro, che dolore!  Però da tutte le nazioni subito vennero ad aiutarci, in una gara di generosità bellissima. Gli svizzeri ad esempio subito  costruirono  sulla collina del Trabocchetto, delle belle casette in legno con il terrazzino, come chalet di montagna, così,  nacque  ‘u riuni de’ villini svizzeri. Proprio da quelle parti incontrai per la prima volta tuo padre, bello, in divisa  da ufficiale  con le spalline dorate e la lunga sciabola al fianco.  Dopo qualche giorno, rivedendomi a passeggio sul Corso, trovò il coraggio di avvicinarsi  per darmi una cartolina dove c’era scritto:
 

                                                              Amor le chieggo o vaga fanciulla

                                                              né mi far sperare invano.

 

  Era sempre allegro papà e per far ridere a volte cantava  famose canzonette italiane cambiando le parole:

               

                                                         Laggiù nell’Arizona,  terra di sogni e di chimere

                                                         un pianoforte suona ed è  to’ mamma chi ‘ndi stona…                                   

 

oppure  recitava famose poesie trasformandole:

                                   

                                                       La donzelletta vien dalla campagna      

                                                       in sul ca                                                       

                                                       lar del sole

                                                       io in sul-co, tu in sul-chi, egli in sul-ca…        

 e ancora:

 

                                                     L’albero a cui tendevi

                                                     la pargoletta mano

                                                    subito terrorizzato  si tirò indietro              

                                                    temendo che un ladro sciagurato

                                                    riuscisse a cogliere il verde melograno… 

                                                 

Però  davvero amava molto i poeti italiani, soprattutto Dante.  Sulla sua scrivania infatti c’era sempre il librone della Divina Commedia con le illustrazioni  di Doré.  Mi  piaceva tanto guardarle e  sfogliavo le pagine così spesso che già avevo  imparato  a  memoria  i pochi  versi  scritti  sotto le illustrazioni.  La desolante nudità delle  anime terrorizzate sulla barca del possente e muscoloso nocchier de la livida palude mi impietosiva e invece m’impressionavano tanto le orribili teste strette nella morsa di Cocito:

 

                                              …dicere udi’mi: guarda come passi                      

                                                                     va sì che tu non calchi con le piante

                                                                     le teste deì fratei miseri lassi…

 

E quanto stupendi ancora Paolo e Francesca teneramente vicini,  avvolti i corpi nudi da veli morbidi ondeggianti nel vuoto oscuro:    

 

                                                                 …poeta volentier parlerei

                                                                 a quei due che ‘nsieme vanno

                                                                

 

 

 

e paion sì al vento esser leggeri…

 

  Spesso di notte mi appariva in sogno quell’anima dannata che con la mano teneva stretta per i capelli la sua stessa testa mozzata dal collo sanguinante:

 

                                                            …e il capo tronco tenea per le chiome

                                                            pesol con mano a guisa di lanterna…

 

Si riaprirono le scuole e ogni giorno andavo dalle suore con la cartella di cuoio. Molti bambini, non potendo comprarla, si accontentavano di mettere libri e quaderni nella mezza manica nera che gli impiegati usavano per salvaguardare le maniche della giacca. E già, i cosiddetti uomini dalle mezze maniche!

 

Fine prima puntata (continua)

 

 

 

 

◊  ◊  ◊  ◊  ◊  ◊  ◊  ◊

 

 

 

Segnala questa pagina ad un amico




 

 

 

Piazza Scala - ottobre 2013