da: La collana di gelsomini - di Mariella Di Pasquale

 

quarta puntata

 

Nei vari caffè (non era ancora tanto in uso chiamarli bar) si ricominciò a fare i gelati preparati freschi ogni giorno. Più tardi, dotati ormai i bar di frigoriferi, si cominciò a trovare anche gelati confezionati sempre dagli stessi gestori, come il pinguino, un gelato di crema ricoperta di cioccolato retto da un’asticciola di legno; o la banana, cioè gelato a forma e sapore di banana, retto sempre da un’asticciola di legno. Ottima anche la brioche (quella, morbida, col cappelletto rotondo sopra) ripiena di gelato.

Lu mastru pittinaru
cu’ la catina d’oru,
lu mastru pittinaru
cu’ la catina d’oru

‘nci dissiru chi u n ghiornu

si ‘ndi fuju so’ soru

parapò, paraponzi paponzi pò

 

Così cantava il gelataio mentre preparava i gelati che piacevano tanto a Suor Colomba, ormai anziana e molto malandata in salute, per tanti anni trascorsi in Egitto missionaria. Con piacere spesso, nel pomeriggio, io e mamma le portavamo una coppa di gelato e lei, ringraziandomi, mi regalava, porgendomele con le sue mani stanche, delle immaginette sacre incollate ognuna al centro di un cartoncino bianco il cui margine la suora aveva adornato incollandovi varie tesserine musive, ritagliate dalla carta stagnola dei cioccolatini, variamente colorate. Un giorno tutte le immaginette le attaccai, chi’ ppunta-balia, anzi con spille nutrice come diceva mamma, ai fiori pastosi dell’oleandro rosa, così dondolarono tutta la notte, fra bagliori strani di madreperla, alla luce dei lampioni.
Un certo Paladino, simpatico siciliano, vi attaccò anche la fotografia del figlio: - Accussì resti ‘n cumpagnia - disse - e cuntaccillu e’ santi comu t’ammazzaru.
Mamma chiamava Paladino detenuto a scelta, perché continuamente entrava e usciva dal carcere. Diceva che in fondo in carcere stava meglio che fuori, mangiava bene e aveva tanti amici sia fra i detenuti che fra gli agenti di custodia. Perciò a volte provocava addirittura qualche rissa così lo rimettevano dentro di nuovo. E subito dietro le sbarre tutto allegro cantava:
Vorrebbo avere un lapiso
un lapiso di fabiro
per asculpire
lo tuo ritratto.
Ma non mi diri lariu
ma non mi diri bruttu
mi spinnu tuttu
tuttu mi spinnerò.


Non serviva più, meno male, la tessera, però la gente aspettava ancora con ansia i pacchi dell’UNRA e inoltre molte donne cercavano di accaparrarsi, appena possibile, la seta dei paracaduti per poter cucire una camicetta.
“Se potessi avere 1000 lire al mese…” si cantava negli anni ’30, ma subito dopo la guerra, con la forte svalutazione della Lira, ormai con 1000 lire compravi ben poco. Una liquirizia San Giacomo, un tondino di liquirizia incartata, come una piccola Golia di oggi, già costava una lira. Con tre lire compravi una carruba sulla bancarella all’angolo subito dopo il Ponte San Pietro. Le dolci carrube! Normalmente, lo sappiamo, cibo per cavalli! Ma ai bambini piacevano tanto.
Con crescente desiderio di vita normale i reggini cercarono di tornare subito ai propri usi e alle tradizioni antiche. Significava sentirsi ancora vivi fra le macerie intorno. Ed ecco che subito si decise di organizzare ‘a Festa ‘i Maronna, da secoli grande, gioiosa tradizione riggitana. Con la celebrazione della festa tutti volevano ringraziare la Madonna per la fine della guerra, come sempre era stato fatto nei secoli passati, secondo promessa antica,  per avere avuto protezione in occasione di tante disgrazie: guerre, carestie, pestilenze, terremoti,  invasioni nemiche.

 Dalla collina del Santuario dell’Eremo infatti,  come ogni anno, anche in quel settembre del ‘43 venne portata giù in città, sulle spalle dei portatori, la Vara con il venerato quadro della Madonna della Consolazione.

Per i reggini, ieri come oggi, il quadro non rappresenta semplicemente l’immagine dipinta della Vergine:  il quadro É la Madonna.

- « Arrivau, arrivau! », «Vinìti, vinìti tutti,  stannu purtandu ‘a Maronna! », « A Maronna sta arrivandu!»,  si sentiva gridare con gioia di qua e di là. Così anche noi, ci recammo sul Corso per seguire la processione.

Alla fine di Via Cardinale Portanova (nella cosiddetta piazza della Consegna) il quadro, come ogni anno, dai frati Cappuccini venne consegnato al clero del Duomo di Reggio. Una lunga processione quindi, che comprendeva  larga parte del clero e autorità comunali e centinaia di devoti, superato il Museo di Piazza De Nava, cominciò  a snodarsi lungo il Corso Garibaldi per avviarsi lentamente, con  la banda al gran completo, verso la Cattedrale dove il quadro sarebbe rimasto esposto all’adorazione dei reggini fino a novembre. Dietro la banda, forse incuriositi dalla gran massa di gente,  seguivano la processione anche tanti militari americani o inglesi o afro-americani che allegramente distribuivano ai bambini gallette e chewing-gum.   

Un simpatico americano, rivolto a me e a mia sorella, ci chiese. “Sisters?”. Dapprima non capivamo. E  ancora: “Sssisters?”. “Yes, yes” risposi e lui sorrise tutto contento di aver indovinato. Tanti militari stranieri si vedevano in quei giorni in giro per la città, spesso a passeggiare con belle ragazze reggine. Mamma  commentava: “Poveri figghiceddi ‘i mamma, accussì luntani da so’ terra. E me figghiu Ezio aund’è?” . Non avevamo  più notizie di mio fratello Ezio. Ormai l’Italia era stata divisa in due dalla famigerata linea gotica, perciò Ezio, rimasto  a La Spezia come marinaio, non poteva scendere al sud. Riuscì invece, attraversando a piedi la campagna tosco-emiliana, generosamente aiutato da varie famiglie contadine, a raggiungere Medicina, vicino Bologna, dove si era trasferita Zina, moglie di mio fratello Giovanni che aveva preferito mandare la moglie incinta presso dei parenti nel nord Italia, pensando che così sarebbe stata più al sicuro dato che sembrava imminente lo sbarco degli alleati in

Sicilia. Zina, saggiamente, subito  fece nascondere Ezio nello scantinato perché disertore come tanti altri sbandati militari italiani. Solo dopo due lunghi anni, nel ’45, finita la guerra,  Ezio, e Zina,  sani e salvi,  riuscirono a tornare a Reggio viaggiando su un carro bestiame.

Impressionante la folla che invase il Corso e  la piazza del Duomo. E si accalcava intorno alle bancarelle che allora venivano schierate sia sui marciapiedi del Corso che ai lati della piazza davanti alla Cattedrale, tutte piene di svariate cose in vendita, come a voler scongiurare, con l’abbondanza della merce, la miseria patita durante la guerra.  Che piacevole profumo di torrone! E anche di mandorle tostate dolci e salate, di stomatico e di ‘nzuddi di Soriano o di Seminara, quella sorta di biscotti,  fatti con farina vino cotto e miele, dalle svariate forme strane, ornati con pezzettini di stagnola colorata, tutti ben sistemati in basse madie di legno.

- ‘A calia cotta, ‘a calia cotta!” - bandiava in piazza Camagna il venditore di ceci tostati, ma anche di lupini a moddu ‘ntall’acqua dentro le bagnarole, e di simenza nei sacchi, i semi quelli grossi e leggermente salati della zucca gialla.

In mezzo alla gente, che dalle varie traverse continuava a riversarsi sul Corso pressando da tutti i lati, passava intanto in precario equilibrio il quadro santo, come traballando, perché i Portatori facevano un’immensa fatica a camminare reggendo sulle spalle  le poderose travi,  pesante ognuna circa 12 quintali, su cui poggia la Vara che nel suo insieme pesa anch’essa enormemente, solo il piedistallo  8 quintali.  Emilio Tomasello, detto Lillo,  era la voce storica dei Portatori: “E griramula tutti cu cori! Oggi e sempre Viva Maria!!!”, così varie volte urlava Lillo durante la processione.  In quel tempo i Portatori per tradizione erano sempre tutti pescatori. Dopo il terremoto del 1908, per ringraziare la Madonna che aveva protetto la  loro vita e li aveva aiutati a riavere una casa, tutti i pescatori avevano  fatto voto di portare la Vara ogni anno in processione. Caritatevoli stranieri, accorsi in Calabria da diverse nazioni in aiuto dei terremotati, si erano infatti molto adoperati all’epoca per ricostruire  le case dei pescatori  andate in rovina durante il terribile sisma, così nacque appunto “U Riuni pescatori”. I vari appartamenti unifamiliari,  piuttosto lontani dalla tradizione abitativa dei reggini, pur facendo parte  dello stesso blocco,  erano strategicamente disposti in maniera indipendente l’uno dall’altro: al piano terra  un grande ambiente soggiorno con angolo cottura e veranda, al piano di sopra la parte notte raggiungibile attraverso una scala interna con i gradini che pare fossero di marmo. Però i pescatori, che

certo vivevano in condizioni economiche un po’ grame,  ogni tanto si sfogavano:  “ ‘Ndi ficiru ‘i scalini ‘i marmu e intantu murimu ‘i fami!”.  Anche Teresa, una mia compagna di scuola,  abitava in un appartamento simile dove si entrava direttamente in un grande soggiorno con angolo cottura e zona pranzo.   Faceva parte di un  palazzo, architettura fascista,  che  dava sul  Ponte S. Pietro.  In alto, sulla facciata,  c’era scritto a lettere enormi:

 

             DIAMO ARIA LUCE E SOLE AL POPOLO                       

 

Teresa stranamente riusciva a  muovere le orecchie, soprattutto quando si emozionava, infatti muoveva sempre le orecchie quando era interrogata.  Studiava poco e sembrava tanto timida, però, qualche anno dopo,  fu la prima delle mie compagne di scuola a fidanzarsi a soli tredici anni. Mi raccontò che un ragazzo, suo vicino di casa, una volta le chiese in prestito  il vocabolario di latino. Quando glielo riportò Teresa trovò fra le pagine un biglietto dove lui aveva scritto che le voleva bene. Ho sperato tanto che pure Gianni, il ragazzo mio vicino, mi avrebbe scritto un biglietto quando gli ho prestato il vocabolario d’italiano, ma purtroppo quando me l’ha riportato fra le pagine del vocabolario non c’era niente…

Durante la processione i Portatori-pescatori avanzavano dunque sopportando coscienziosamente la fatica, ma  non certo in silenzio. Addirittura, forse per le spinte o perché inciampavano, a volte volava anche qualche parolaccia...

- Na lira, ‘na lira ‘nu bicchieri! - gridava  per strada il venditore d’acqua fresca reggendo con una mano ’u bumbulu trasudante, poggiato su una spalla. E ce n’era bisogno! Non esisteva la gran quantità di bar che oggi sono sparsi quasi in ogni via della città.

- Grira comu unu d’ ‘a vucciria ‘i Palermu - mormorò qualcuno. Dai tratti somatici in verità quell’uomo poteva sembrare anche un venditore d’acqua di Marrakesh.

Sempre sbuffando sotto il peso della Vara e ansimando per il caldo afoso, a volte i Portatori,  al suono del campanello, agitato con fervore come comando del Capo, si fermavano per riposare un po’ e subito la banda suonava con più fierezza mentre  frequenti balenii di luce degli ottoni risplendenti accarezzavano i muri delle case e le preziose coperte damascate  stese in bella vista sulle ringhiere  dei balconi. Al nuovo suono del campanello si risollevava la Vara  e la processione proseguiva verso

piazza Duomo.  Come per smorzare le smanie della folla da delirio paganeggiante, i sacerdoti  sollecitavano ancor più, al canto sacro,  le pie donne al seguito le cui voci subito si levavano stridule nell’aria:

 

                                                                      Miira il tuo popolo

                                                                      o beella Signoora                       

                                                                      che pieen di giubilo…

 

Ma ad un tratto, ecco una musica ad alto volume proveniente da una radio attraverso qualche finestra aperta. Era un booghi- wooghi, ballo molto in voga portato in Italia dagli americani, e subito i militari stranieri si misero a ballare per strada. Solo loro conoscevano bene quel ballo dal ritmo incalzante che ormai si stava diffondendo dovunque e tutti intorno battevano le mani a ritmo di swing.

 

 




 

 

Fine quarta puntata (continua)

 

 

 

 

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Piazza Scala - giugno 2014