Il Paese delle donne, Milano - Libera Università delle Donne, Milano
Anna Maria Imperioso
Il voto, tema di appassionate battaglie di donne legate a schieramenti diversi
nel primo decennio del secolo, torna, a guerra finita, a coagulare le
rivendicazioni delle varie
componenti
del movimento femminile. Si compatta immediatamente anche l'ostilità del mondo
maschile: il voto alle donne fa paura, scardina l'ordine familiare e sociale ed
è una grossa incognita elettorale1.
Nel 1925, con l'approssimarsi del dibattito parlamentare sul disegno di legge
per l'ammissione delle donne all'elettorato amministrativo, il tema del
suffragio femminile mette d'accordo puntualmente tutte le testate satiriche, dal
rivoluzionario «Il Becco giallo» al conservatore «Guerin Meschino», e uniforma
il dileggio dei disegnatori umoristici: masse indistinte e minacciose di
suffragiste si accalcano nelle sale, sulle strade, reclamando il voto con
vistosi cartelli; tribune di madri alla Camera sorvegliano la discussione sul
voto allattando i pupi o affidandoli ad attoniti padri.
Come è noto, il voto viene "elargito" nel 1925 solo a determinate categorie di
donne. Varie associazioni femminili si mobilitano per aiutare queste ad
iscriversi nelle liste elettorali, ma con un esito molto deludente. Sul «Popolo
d'Italia» del 9.3.1926 si legge, infatti, che le domande raccolte a Milano erano
circa 6000, «il 5% delle aventi diritto». Puntuale la satira sul «Guerin
Meschino» del 14.3.1926:
Eravate uno stuolo altoparlante contro il furor maschile che negava le schede
sacrosante... Oh meraviglia: le pugnaci file, nel giorno del cimento, si son
ridotte appena... al tre per cento!
L'abolizione del suffragio infrange le residue illusioni del movimento
femminile. Molte rappresentanti dei gruppi emancipazionisti si ritirano dalla
vita pubblica, altre invece, attraverso forme e strategie diverse, riescono con
progressivi adattamenti alla politica del regime a salvaguardare la loro
posizione e a difendere in qualche modo l'identità e i diritti delle donne,
soprattutto nel campo del lavoro.
Se l'ideologia dominante dell'Italia fascista colloca la donna all'interno della
famiglia, la modernizzazione sociale ed economica attuata dal regime richiede
una donna attiva ed
emancipata: tra queste contraddizioni, nonostante le pesanti restrizioni imposte
alle lavoratrici dagli interventi legislativi del 1934 e del 1938, avviene
l'ingresso nella sfera pubblica di masse sempre più numerose di donne. Lo
sguardo che le rappresenta nella satira registra puntualmente l'enorme
scompiglio portato nelle tradizionali categorie sociali da questo evento: la
donna che tenta la scalata alle professioni tipicamente borghesi viene derisa
con pungente sarcasmo, strizzando l'occhio al mondo maschile che sente
minacciato il suo monopolio.
L'insegnamento, «prezioso strumento per la promozione capillare del consenso» e
tradizionale terreno di attività della donna, viene risparmiato, mentre è
pesantemente beffeggiata la figura della donna medico, avvocato, intellettuale,
e della segretaria "sexy". Dalla fine degli anni '20 a tutti gli anni '30,
mentre si sviluppa una copiosa letteratura romantica sulla figura della
"dattilografa", sognatrice o avventuriera6, fiorisce il filone delle barzellette
(Molino, Boccasile, Vera d'Angara) su segretarie e dattilografe compiacenti coi
commendatori"».
Frequenti le prediche morali dalle pagine dei periodici femminili sulla donna
che si "mascolinizza" scegliendo le professioni e rinunciando alla «sua vera,
naturale, sublime mis-sione», e contro la moda sconsiderata che vuole una donna
senza curve, antiprolifica, la cosiddetta "donna crisi" che la rivista femminile
«Sovrana» nel settembre 1932 tratteggia con molta ironia:
Donna crisi: donna che tiene lontane le tentazioni, che grado grado induce
alle astinenze, che riduce a far a meno di questo e di quello. Donna, insomma,
fatta... in economia, per l'economia.
Sui rotocalchi appaiono «i volti eccentrici e stravaganti delle dive di
Hollywood», accendendo la fantasia delle ragazze italiane. Per boicottare la
produzione americana che contribuisce a divulgare modelli di comportamento
considerati dal regime antieducativi, i responsabili del Ministero della Cultura
Popolare impartiscono quasi quotidianamente, attraverso le famose "veline",
precise direttive ai giornali che si occupano di cinema:
20.2.1933. È stato raccomandato ai giornali di non pubblicare articoli su
Hollywood e soprattutto sul peso delle dive dello schermo, perché in Italia c'è
una industria cinematografica nazionale da valorizzare e perché il peso delle
dive è quello delle donne crisi, che l'Italia vuole abolire (Polverelli,
rapporto Us: in Asm, b. 69, f. IX, sf. 2).
25.2.1938. Non esagerare con Greta Garbo (Mcp: in Pnf, b. 247, f. 4/3. 2;
cfr. Asm, b. 70, f. IX, sf.2).
11.3.1938. Smetterla con Greta Garbo (Mcp: in Asm, b. 70, f. IX, sf. 2; Pnf,
247, f. 4/3.2).
15. «Il Travaso delle Idee», Roma, a. XXXIII, n. 37, 11 settembre 1932.
Illustratrice: Vera d'Angara (Vera Natansen Nankoski).
12.3.1938. Si conferma la disposizione di non occuparsi di Greta Garbo (Mcp:
in Flora, p. 84).
Contemporaneamente fioriscono sulle riviste umoristiche personaggi femminili
ripugnanti per l'estetica maschile: "le donne di Attalo, le sue cameriere, le
sue donne di servizio coi sederoni spampanati, le braccia forti, i ciuffi di
peli sotto le ascelle, erano le donne romane che vedevamo in tram, al mercato e
che seguivamo col batticuore" racconta Federico Felllnl. E fra tutte, campeggia
la grottesca "Genoveffa la racchia", vittima protagonista di
beffe crudeli, disegnala da Attalo per "Marc'Aurelio".
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