Terza puntata
Tutto ciò
premesso, entriamo nel vivo di questo lavoro, iniziando
dalla descrizione di quanto è oggi possibile vedere e
valutare.
Anzitutto è bene precisare che non sappiamo il vero nome
di questo luogo e la lingua che parlava la sua gente,
forse cancellati per sempre dal tempo e dagli eventi
accaduti; l’unico dato certo che possediamo riguarda una
recente indagine compiuta su di un campione di diciotto
scheletri umani, rinvenuti nel sito, che hanno offerto
un quadro sconcertante sull’origine etnica degli
abitanti di Tiahuanaco.
Dei diciotto resti analizzati con i più moderni sistemi,
tredici risultarono possedere marcatori compatibili con
quelli di gruppi etnici di tipo amerindio, mentre cinque
risultarono avere marcatori non attestati tra i gruppi
etnici originari del Nuovo Mondo (un mistero in più da
risolvere!).
Questo aspetto potrebbe suggerire un’origine diversa da
quella degli attuali amerindi, oppure l’appartenenza ad
un ceppo etnico poi estinto.
Il nome attualmente attribuito al sito urbano è un
termine in lingua aymara che significa “la città degli
dei” (e questi “dei” sono un concetto recepito anche dai
mesoamericani, dai sumeri, dagli egizi e da altre genti
che, probabilmente, videro nei superstiti della civiltà
preistorica delle creature celesti, tanto grande era il
loro sapere, rispetto a quello delle popolazioni con cui
entravano in contatto).
Esso si estende, ricoperto da uno strato compatto di
limo argilloso e pietrisco che varia dai due ai venti
metri d'altezza, su di un’area di oltre 450 ettari e,
nei punti sin qui scavati ed investigati, presenta negli
strati più profondi tracce di almeno cinque
stratificazioni sovrapposte che lasciano supporre più
interventi ricostruttivi nel corso dei millenni (più o
meno, per fare un esempio, quanto accertato per Troia,
solo che nel caso di Tiahuanaco le successive
distruzioni furono quasi certamente provocate da eventi
sismici).
Quanto al lago Titicaca, situato a 3.812 metri sul
livello del mare, esso è oggi lungo circa 220
chilometri, largo più di cento nel massimo punto e
profondo 300 metri nei fondali centrali.
Nella sponda meridionale dello stesso, a ridosso
dell’attuale linea costiera, ispezioni subacque del 1967
hanno rilevato l’esistenza di un grande porto, oggi
sommerso da 1 a 30 metri d’acqua e fango per una gran
parte e per una porzione più ridotta (in corso di scavo)
ubicato sulla terraferma nel sud del bacino lacustre;
questa situazione è stata determinata, molto
probabilmente, dal sommovimento tellurico che ha
inclinato l’intero altopiano, determinando così la
repentina fuoriuscita di milioni di metri cubi di
liquido e di fango dei fondali, che investirono la città
e la distrussero per sempre, determinando altresì una
parziale riduzione della superficie lacustre.
Nell’area portuale sono state individuate cinque grandi
muraglie, costruite con enormi blocchi squadrati di
pietra, moli d’attracco per le imbarcazioni, dighe di
contenimento dei flutti, strade lastricate e le
fondamenta di una costruzione a forma di mezzaluna,
anch’essa fatta di grandi blocchi di pietra squadrati e
perfettamente combacianti.
Una zona portuale costruita, alla stessa guisa di quanto
osservabile nella monumentalistica della città, con
blocchi di pietra talmente grandi e pesanti (stimati tra
le 100 e le 200 tonnellate, in alcuni casi addirittura
più di 400, e, si noti, prima di essere squadrati il
loro peso era anche maggiore) da far seriamente
riflettere sul come possano essere stati tagliati,
squadrati e trasportati per la posa in opera,
considerato che le cave più vicine distano più di 60
chilometri e tenendo altresì conto che, come
ufficialmente si afferma, nelle Americhe erano
conosciuti soltanto i metalli teneri (oro, argento e
rame allo stato naturale) e sconosciuto l’uso della
ruota.
Accettando questa tesi, non si potrebbe spiegare, però,
come nei condotti per le acque e nei canali di scarico
della città, sinora investigati, siano stati rinvenuti
attrezzi di dure leghe metalliche (quali scalpelli,
punzoni, asce, seghe e fili abrasivi per il taglio della
pietra, aghi di varie dimensioni, stampi per fusione, ma
anche tazze, bicchieri, posate, piatti e molte graffe
per connessione dei blocchi di cui parleremo più avanti)
che abbiano permesso a queste genti di lavorare pietre
ed altri materiali, con un alto grado di perfezione.
Nel corso degli scavi vennero alla luce residui di flora
lacustre, mescolata a scheletri umani frantumati dalla
violenza del cataclisma e resti di “Orestias”, un pesce
della famiglia del “Bogas”che ora popola i laghi
dell’area, a dimostrazione del fenomeno
sismico/alluvionale che interessò la piana.
Si noti, anche, che il sistema di costruzione degli
edifici (perlomeno quelli rimasti, poiché per molti di
essi è proseguito, a partire dal ‘500 e quasi sino ai
giorni nostri, un continuo saccheggio da parte dei
locali costruttori, eccezion fatta per i blocchi più
grandi proprio per l’impossibilità di trasportarli) era
talmente accurato che il terremoto del 1650 d.c. non
produsse danni alle antiche strutture, mentre gran parte
di quelle d’epoca coloniale crollarono o subirono danni
rilevanti.
I geologi, che stanno investigando da una sessantina
d’anni l’area, considerano che la catastrofe che la
colpì sia stata causata, come detto, da un rilevante
fenomeno sismico che innestò anche una serie d'eruzioni
dei vulcani presenti nei dintorni, determinando, per
effetto dell’inclinazione repentina dell’altopiano, la
tracimazione del Titicaca, nel quale si riversarono, per
di più, le acque dei laghi situati a maggiori altezze
più a nord, moltiplicando così l’ampiezza del fenomeno
distruttivo.
Abbiamo già riferito che l’acqua è oggi particolarmente
scarsa nella zona, eppure il sottosuolo è solcato da una
rete di condotte idriche d'incredibile fattura, alcune
con portata di centinaia di litri il secondo, tanto
ampie da permettere il passaggio di un uomo.
Quanto precede riguarda le varie zone sin qui
investigate, ma tutto lascia presumere che la rete di
tali opere idriche interessi l’intera estensione
dell’area urbana che resta da scavare (il 98% del
tutto!).
Una città ed una forma di civilizzazione che,
probabilmente resteranno per sempre un mistero, ma che
attestano senza ombra di dubbio che qui l’uomo riprese
il suo cammino dopo il disastro avvenuto intorno al
7.500 a.c., come riferito nel precedente lavoro
intitolato “Indizi di una Civiltà Preistorica”.
Vediamo ora come reagirono i “conquistadores” spagnoli
intorno alla metà del ‘500, quando si presentò ai loro
occhi la visione delle opere in superficie:
“…in un titanico palazzo vi era una sala lunga 14 metri
e larga 7, con grandi portali e molte finestre, che gli
indigeni dicono essere stato la residenza di Viracocha,
il creatore del mondo...” (Pedro Ciesa de Leon);
“…tra le costruzioni di Tiahuanaco c’è una piazza di 24
metri per ognuno dei quattro lati e su uno di essi si
stende una sala coperta lunga 14 metri: la sala e la
piazza consistono in un unico pezzo e questo capolavoro
è stato scolpito nella viva roccia ed è contornato da
una serie di statue, di uomini e di donne in diversi
atteggiamenti, così perfette da crederle vive…” e “…c’è
un palazzo che è l’ottava meraviglia del mondo,
costruito con pietre lunghe 11 metri e larghe 5,
lavorate in modo da incastrarsi l’una nell’altra, senza
che se ne veda la connessione…” (Diego de Alcobado);
“…ci sono figure gigantesche scolpite nella
pietra…queste sono molto consumate, dimostrando che sono
antichissime…ci sono resti di strane costruzioni, tra
cui le più eccezionali sembrano dei portali e sono
tagliati in un unico pezzo di roccia…questi poggiano su
basamenti lunghi 39 piedi, larghi 15 e spessi 5…in che
modo e con quali strumenti o arnesi sia stato possibile
realizzare opere di queste dimensioni sono domande alle
quali non siamo in grado di rispondere…né si riesce ad
immaginare come sia stato possibile trasportare pietre
così enormi…” (Garcilaso de la Vega).
Torniamo, però, all’archeologia ufficiale, premettendo
che, nelle campagne di scavo sin qui compiute nel corso
del novecento, sono stati rinvenuti anche simboli e
figure, sia sui monumenti, sia sugli oggetti recuperati
nella rete di canalizzazioni idriche dissotterrate.
Il grande archeologo Julio Tello scoprì nel 1920 alcuni
vasi con raffigurati lama aventi zampe a cinque dita,
animali vissuti per la scienza zoologica in una remota
preistoria.
Su quella che fu chiamata “Porta del Sole” sono
raffigurati un “toxodonte” ed un proboscidato che
ricorda il “cuvieronius”, estinti entrambi da almeno
12.000 anni. Il prof. Arthur Posnansky (che dedicò più
di trent’anni della sua vita nello studio di Tiahuanaco)
notò che due precisi punti del “Kalasasaya”, in cui fu
eretta l’anzidetta Porta del Sole, indicavano i solstizi
d’estate e d’inverno; servendosi di una tavola
astronomica, dedusse dai suoi calcoli che la costruzione
poteva risalire al 15.000 a.c. (di tutti i monumenti,
indicati in questo lavoro, riportiamo nelle schede in
allegato l’immagine e le caratteristiche principali; nel
corso del testo, invece, le ricostruzioni grafiche dei
più importanti):
In seguito,
alcuni autorevoli scienziati (tra cui Hans Ludendorff e
Ralph Muller dell’Istituto Astrofisico di Postdam,
Friedrich Becker della Specula Vaticana, Arnold
Kohlschutter dell’Università di Bonn e l’astronomo Nel
Stende) rielaborarono i calcoli di Posnansky e
convennero, autonomamente, che la datazione più
probabile potesse essere il 4.000 a.c. Ricordiamo che
gli storici più conservatori affermano che la prima
forma di civilizzazione umana fu quella sumera (stimata
agli inizi del quarto millennio a.c. e sulla scorta dei
ritrovamenti raccolti nei primi cinquant’anni del ’900;
ma tale teoria va oggi rivista sulla base di quanto
emerso successivamente). La civiltà di Tiahuanaco
affonda,
però, le sue radici in epoche ben anteriori, se già nel
4000 a.c. era così evoluta da produrre quanto descritto
in queste pagine.
Fine
terza puntata
- continua |