Quarta puntata
Consideriamo,
ora, il complesso del “Puma Punku” (termine in lingua
“aymara” che significa “Porta del Leone”, denominazione
attribuitale in epoca coloniale, allorquando fu
rinvenuta nei pressi una scultura in pietra di un puma o
leone americano).
Oggi quest'edificio appare come una modesta collinetta
appiattita e si articola su tre piattaforme sovrapposte,
le cui basi sono fatte con blocchi di pietra squadrati.
Sulla cima della piramide, alta circa 15 metri, si nota
una depressione quadrangolare che suggerisce il
possibile sito di una qualche costruzione, peraltro
divelta dalle fondamenta.
Lo studio accurato effettuato sul “Puma Punku” fornisce
la prova che il manufatto è un complesso
architettonicamente di stupefacente progettazione: nelle
tre piattaforme sono dislocati massicci lastroni
d'arenaria, alcuni del peso stimato di ben 130
tonnellate, tenuti insieme da un molto particolare tipo
di malta (quasi un calcestruzzo) e da graffe di metallo
a forma di “I”.
Si è appurato che queste graffe furono realizzate
colando nelle apposite cavità predisposte ai bordi delle
lastre, metallo fuso composto di una lega – resistente,
ma sufficientemente elastica - composta di rame, ferro,
silicio e nikel (quest’ultimo metallo non è presente in
Bolivia ed aree limitrofe; inoltre, per ottenerlo, è
necessario un forno ad elevata temperatura e, pertanto,
la conoscenza di un livello tecnologico di gran lunga
superiore a quanto sin qui ritenuto):
Particolare
intrigante è che l’uso di graffe di connessione in
metallo si è riscontrato nei blocchi di pietra di
costruzioni in altri siti andini, in quello tailandese
di “Angkor Vat” ed in quello egizio di “Dendera”, a
riprova del diffuso utilizzo di una tecnologia
proveniente dalla probabile civiltà anteriore a quelle
conosciute.
Un altro interessante monumento, intorno al quale sono
dislocati quasi tutti gli altri descritti in queste
pagine, è quello
chiamato “Akapana” (termine in lingua “quechua” che
significa “uragano”), oggi un cumulo quasi informe di
terra e pietrame, che copre un perimetro di circa 800
metri, ha un’altezza di 18 metri e alla cui sommità è
presente una enorme buca, frutto del lavoro devastante
di cercatori di tesori.
Originariamente, al posto di questa grande buca,
esisteva un bacino per la raccolta dell’acqua piovana,
con un pozzo centrale a forma di croce che, secondo gli
archeologi, alimentava una serie di canali interni,
attraverso i quali l’acqua raggiungeva i vari livelli
del manufatto; un complesso sistema di tubazioni faceva
scendere l’acqua lungo i fianchi con effetti che
dovevano essere spettacolari.
I sette terrazzamenti della sopra elevazione erano
sostenuti da mura di contenimento ad ogni livello e
l’insieme del manufatto si presentava in origine a forma
di “T”, come appare nella ricostruzione grafica qui a
lato.
Osservando, con la visione odierna, non possiamo
trascurare la considerazione di base che, in una piana
oggi spettrale, si trovano tutte queste opere
straordinarie, muta testimonianza della grandezza
dell’evoluta civiltà che le produsse.
Gli incredibili portali, scolpiti in un unico blocco di
pietra, i cui pesi sono stati stimati varianti tra le
100 e le 400 tonnellate ognuno, si ergono nella più
assoluta desolazione.
Lastroni e blocchi di pietra minori giacciono sparsi nel
più totale disordine, scagliati gli uni sugli altri
dalle forze titaniche della natura, accatastati nelle
posizioni più strane dal cataclisma che travolse la
città ed i suoi abitanti.
Come già
accennato, la grande e progredita Tiahuanaco fu
annientata e sommersa da metri di limo argilloso e di
pietrisco; tuttavia, è grazie a questo sarcofago
naturale, in cui trovarono la morte migliaia d’esseri
umani e di animali, che sono state conservate le
vestigia di questa antichissima civiltà, poiché pietre,
manufatti e reperti diversi sono stati protetti per
millenni dall’erosione e dall’insensata opera dell’uomo.
Anche se solo un 2% del sito è stato ad oggi
investigato, tuttavia quanto sin qui emerso e quanto era
rimasto in superficie sono più che sufficienti per
affermare che, su quest'altopiano, la civiltà riprese il
suo cammino e ben prima dell’epoca che gli storici si
ostinano ad indicare.
Indipendentemente dalla sua collocazione nel tempo, la
questione determinante che caratterizza la cultura di
Tiahuanaco e sulla quale sarebbe indispensabile
soffermarsi, è su ”cosa” questa civiltà ha prodotto e,
soprattutto, sul “come” l’ha potuto produrre.
Malgrado siano stati rinvenuti attrezzi di resistenti
leghe metalliche in un Continente che, secondo gli
storici, conosceva solo i citati tre metalli teneri
(rame, oro ed argento allo stato naturale), ciò che
sbalordisce sono le dimensioni dei blocchi di pietra
utilizzati, è il tessuto urbano della città, sono i
sistemi di convogliamento delle acque e così via.
Nessuno ha sin qui potuto fornire una spiegazione di
queste meraviglie, tuttavia esse sono lì sotto i nostri
occhi e nessuno può dire che siano fantasie.
Su coloro che produssero queste stupefacenti opere
corrono molte leggende tra le genti d'etnia “aymara” o
“quechua” dell’altopiano andino. Forse la più
interessante è quella nella quale si racconta che …”dopo
un grande cataclisma che aveva distrutto ogni cosa sulla
Terra, l’umanità era qui rinata ed aveva ripopolato il
luogo e costruito la città, prima di essere sterminata
da un immane diluvio che aveva sepolto ogni cosa”.
Sono parole che coincidono, forse non a caso, con quanto
descritto in queste pagine e che ci danno una chiara
indicazione del percorso della civiltà umana.
Peraltro, se vogliamo prendere in seria considerazione
quanto descritto in questa leggenda, allora, con
pazienza certosina ed umiltà d’intenti, dobbiamo unire
le forze per fare il possibile per ricostruire il
“puzzle” della storia dell’uomo; diversamente resteremo
schiavi dei pregiudizi e dell’ottusità di una visione
semplicistica e di comodo del nostro passato.
Fine
quarta puntata
- continua |