Business and soups - affari e minestre
Capitolo sesto - L’organizzazione

 

Diventate vedove Maria Concetta e Giuseppina Rosaria, chiusero i rispettivi appartamenti per ritornare a vivere in famiglia sotto l’ala protettiva di mamma Alfonsa.
Ogni mattina, di buon ora, erano loro le prime ad alzarsi per preparare il caffè, che doveva essere bello scuro e fumante.
Serviva per aprire lo stomaco, e fugare ogni residuo di sonno.
Poi veniva servita in tavola una ricca e sostanziosa colazione all’ americana per tutti.
Dopo di loro raggiungeva la cucina, a quell’ora già colma di odori di frittelle, uova strapazzate e bacon cotto sulla piastra, Alfonsa.
Da lì a pochi minuti sarebbe stata la volta del capo famiglia, indi di Carola con il marito che occupavano il secondo piano della palazzina dove abitavano papà e mamma, che distava un centinaio di metri dal ristorante in Mulberry Street.
La tavola poteva considerarsi così completata dato che la assenza della piccola Consolata, a quell’ora della mattina, era data per scontata da tutti.
Tra un boccone di bacon, e una cucchiaiata di fagioli al sugo, Don Vito iniziava a passare in rassegna i suoi familiari.
E ne aveva per tutti; a Maria Concetta, per esempio diceva:
“Concettina mettiti un po’ di trucco in faccia che mi sembri un cadavere!”
A Giuseppina Rosaria:”Vedi di mangiare un po’ meno che ogni giorno che passa ti stai allargando e arriverà il momento che non passerai più dalla porta!”
Alla sua dolce mogliettina, invece, non aveva che parole dolci, come si conviene ad un eterno innamorato:
“Come sta la mia mogliettina, cuore del mio cuore?”
Mentre a Carola, dopo averla baciata sulla guancia destra (lei era l’unica che baciava ogni mattina, in quanto era la sola che si avvicinava al padre per essere baciata) chiedeva:
“Come sta il mio adorato maschiaccio?” e al sorriso di Carola avuto in risposta, aggiungeva, rivolgendosi al marito Alfredo:
“Tutto ok?……. In gamba, mi raccomando!”
Poi nel silenzio più assoluto, ignorando di proposito la faccia schifata di Concettina, e il piagnucolio silenzioso della obesa Giuseppina Rosaria, si ributtava sul piatto con famelica ingordigia.
Terminata la colazione, apriva il giornale per dare una scorsa rapida ai titoli della prima pagina, fino a quando, alle otto in punto, giungeva lo scampanellio della porta d‘ingresso.
Erano il fedele Al Ventura, con Addolorata e il marito Mark, che ogni mattina con una precisione quasi svizzera si univano al gruppo.
E con l’arrivo del resto della truppa , dopo che Alfonsa assieme alle donne di casa, aveva sparecchiato la tavola e riordinato la cucina, si dirigevano tutti quanti verso il ristorante.
Al loro passaggio la gente si fermava per ossequiarli.
I proprietari delle bancarelle di frutta e verdura correvano loro in contro per regalare, specie alle ragazze, arance succose e frutti di stagione.
Don Vito a tutta quella dimostrazione spontanea di affetto, contraccambiava elargendo larghi gesti di benedizione alla folla, come fa un Papa ai fedeli in visita pastorale.
Sorrideva e benediceva, sorrideva e diceva accompagnandosi con ampi gesti delle mani:
“Dio ve ne renda merito…….. Grazie amici…..Grazie!”
Alla mattina non entravano mai nel ristorante dalla porta principale, bensì da quella laterale.
Lì c’erano già gli uomini di Don Vito ad aspettarli.
Tutti insieme poi, una volta entrati, si sparpagliavano per la sala per rimettere in ordine tavoli e sedie per l’ora di pranzo.
Alfonsa con le sue ragazze prendeva possesso della cucina, e con loro iniziava a decidere sul menù.
Don Vito con la sua ombra, Al Ventura, invece, si accomodava sulla poltrona dietro la scrivania posta nell’ufficio situato in fondo alla sala.
Una volta assiso su una montagna di cuscini, chè altrimenti sarebbe sprofondato sotto il livello della sua imponente scrivania di mogano, e acceso il primo sigaro Avana della giornata, iniziava a chiamare ad uno ad uno i propri uomini per impartire loro gli ordini del giorno.
Al Ventura durante questa operazione si posizionava alle spalle del boss tenendo le braccia conserte, e assumendo quell’aria truce che faceva venire i brividi a tutti, soprattutto a chi aveva la coscienza sporca.
Per l’acquisto della merce necessaria alla conduzione del ristorante c’erano Tommy e Angelo Soncino ad occuparsene ogni giorno, ed erano alle dirette dipendenze di Alfonsa.
Comunque, ogni mattina, anche loro, prima di attendere gli ordini dalla moglie del capo, si sentivano in dovere di andare ad ossequiarlo come contemplava il protocollo, e questo era molto apprezzato.
“Tutto bene, capo” dicevano”Noi andiamo….”e non finivano mai la frase perché era scontata la risposta di Don Vito
“A fare una minchia tutto il santo giorno…..a sfruguliare fagioli e pisellini….bravi picciotti siete…!” e rideva guardando Al Ventura che alle spalle anche lui ridacchiava, mai stanco di quella battuta che il capo ripeteva ogni santo giorno.
Per la carne ci pensava Mark dato che veniva portata a domicilio dai camions degli Esposito due volte alla settimana, di martedì e giovedì.
Per il pesce, le aragoste, e le ostriche andava direttamente George Canfora al mercato all’ingrosso perché doveva appurare di persona che la merce fosse sempre freschissima e di prima qualità.
Poi, terminate le necessità del ristorante che aveva la priorità assoluta, c’erano altri lavori altrettanto importanti da portare a termine, come il rifornimento della cantina.
A questa incombenza provvedeva Alfredo aiutato dai fratelli Sandy e Tom Capocciano, originari di Castellammare, sempre con la sigaretta in bocca, e la coppola conficcata in testa.
Si trattava ogni volta di raggiungere il loro nascondiglio segreto - un vecchio magazzino abbandonato giù al molo 27 - presidiato giorno e notte dagli uomini del Capo della Polizia, certo Mac Donnel , scozzese di pochi scrupoli, dove venivamo riposte le casse di vini francesi e italiani, champagne e liquori di ogni marca, tutti assolutamente di contrabbando, e per questo motivo di gran valore.
Mac Donnel era uomo corpulento con una faccia da schiaffi.
Chi avesse avuto la sfortuna di conoscerlo, giura che solo la divisa che portava lo differenziava da un gangester della peggiore specie.
Avido, velenoso peggio di un cobra, era riuscito in pochi anni, e con metodi alquanto discutibili, ad essere nominato Capo della Polizia.
Una volta raggiunto quel posto di comando, cercò in tutti i modi di trarne tutti i vantaggi possibili e immaginabili, ricattando chi poteva ricattare, pretendendo mazzette a commercianti, funzionari statali, allibratori, e puttane.
In cambio dava la “sua” di protezione.
E anche con il nostro Don Vito fece come con tutti gli altri.
Gli accordi furono presi di comune intesa una sera, davanti ad una bella bottiglia di “Oldmoore Major Scotch Whisky” invecchiato dodici anni, dopo che entrambi capirono che farsi la guerra in nome di determinati e sciocchi principi era inutile.
Il nostro avido scozzese disse dunque che era pronto a sostenere e appoggiare tutte le iniziative di Don Vito, in virtù della sua posizione, ma solo se ne avesse ricavato un giusto tornaconto.
Nessuno avrebbe avuto il coraggio di mettersi contro un intero corpo di polizia, dentro il quale aveva i suoi uomini di fiducia, i quali, a loro volta avevano sottoposti pronti a tutto pur di racimolare un paio di bigliettoni da aggiungere al magro stipendio settimanale.
E così quando fu quantificato il “giusto tornaconto”, a guardia del deposito segreto di Don Vito, (la sua cassaforte come amava chiamarla visto il valore della merce che vi si trovava ben stipata e catalogata), furono messi gli uomini (in divisa) più fidati.
I poliziotti, normalmente due di giorno e ben quattro la notte, dovevano sorvegliare all’esterno del magazzino, mentre gli uomini di Don Vito sarebbero stati all’interno, armati fino ai denti.
Quando si rendeva necessario rimpinguare la cantina, i guardiani dentro e fuori dal magazzino venivano avvisati con una telefonata in codice come: “Il merlo è pronto” .
E solo per queste occasioni Alfredo con i suoi uomini tirava fuori il vecchio furgone acquistato a peso d’oro dalla polizia, e con quello andava a caricare la merce.
Naturalmente prima di muoversi si doveva coinvolgere il Capo della Polizia che, puntualmente, si faceva trovare in loco per dirigere le operazioni, e incassare la giusta mazzetta.
Poi era lo stesso Mac Donnel a fare da scorta al convoglio pieno di ogni ben d’Iddio fino al ristorante per intascare la seconda fetta della sua parte di torta e, con l‘occasione, farsi dare da Don Vito una scatola di costosi sigari Cubani.





Fine della sesta puntata (continua)

 

 

 

 

 

 

Piazza Scala - gennaio 2011