Business and soups - affari e minestre
Capitolo secondo - La "trasformazione"

 

Il ristorante di Don Vito, dunque, di giorno era il ritrovo degli amici di famiglia, di quelli che si sentivano legati al boss per favori ricevuti, o per impegni presi con lo stesso.
I quali poi, in tanti anni di assidua frequentazione, si sentivano, a giusto diritto, parti della famiglia di Don Vito e di Alfonsa, tanto era il loro rispetto verso il boss e l’imponente moglie.
Le loro figlie le avevano viste crescere, prese in braccio piccoline, e fatte dondolare sulle ginocchia.
Carola, di tutte, era quella con la quale erano più in confidenza anche perché era lei, con il marito Alfredo, a girare per i tavoli a prendere le ordinazioni, e a servire.
I due, ormai col tempo, conoscevano a memoria le preferenze di questo e di quello.
Sapevano che a Tom Angelo piacevano i timballi di maccheroni, che Jimmi Santo si leccava i baffi assaggiando gli arancini che preparava Alfonsa, e che al tavolo di Jim Colella e degli allibratori dovevi servire pasta con i ceci per primo, e braciolettine di agnello tenero arrostite per secondo.
Il tutto veniva accompagnato da vino italiano fatto arrivare apposta dalle colline del Chianti.
Si respirava un’aria familiare al ristorante di Don Vito mentre il vecchio giradischi suonava canzonette napoletane con la voce del noto tenore Caruso.
Fino alle due e trenta del pomeriggio potevi sederti al ristorante Vito‘s a consumare un bel pasto caldo italiano, e bere un buon bicchiere di vino rosso.
Nessuno avrebbe detto nulla, e men che meno la polizia visto che il capo zona, di nome Frankie Cicero, era il primo a sedersi con i suoi uomini alla tavola di Don Vito ogni santo giorno all‘esatto scoccare delle dodici e trenta.
Immancabilmente alle tre del pomeriggio di ogni giorno, sette giorni alla settimana, Alfonsa e le sue cinque figlie, dopo aver spento i fornelli, pulita a specchio la cucina, rassettata la sala, smontavano.
Il ristorante chiudeva i battenti a doppia mandata.
Ma mentre Don Vito girava la chiave della porta che dava sulla strada principale - ancora a quell’ora brulicante di gente e bancarelle - dalla porticina che si apriva sul lato destro della palazzina nel vicolo accanto, faceva il suo ingresso Jean Pierre con la sua squadra di chef e camerieri (una quindicina in tutto).
Dalle tre fino alle sei del pomeriggio, ogni giorno, sette giorni su sette, avevano il tempo per preparare il locale per la sera.
Perché alla sera, sette sere su sette, si spegneva l’insegna Spaghetti per fare posto alla più grande e luminosa Vito‘s.
E per l’ora di cena non si sarebbero più servite pietanze tipiche italiane, bensì piatti raffinati, ostriche francesi, caviale russo, e versati fiumi di champagne di marca, cognac e liquori di ogni genere e delle migliori annate.
Il salone che di giorno ospitava gli amici di famiglia veniva letteralmente stravolto e trasformato.
La trasformazione avveniva grazie ad un complesso e sofisticato meccanismo che veniva azionato dal nostro chef parigino. Era una metamorfosi totale, quasi magica.
Mentre le pareti mobili giravano silenziose su perni di centottantagradi, e il soffitto dell’ampio salone si apriva lasciando spazio ad una cupola a mosaico a carattere orientaleggiante, ai quattro lati spuntavano gli archi da cui una fontana (per ognuno dei quattro archi) mandava zampilli di acqua.
Alle pareti apparivano dipinti, e arabeschi, indi grandi specchi luminosi dalle cornici dorate, e poi ancora luci gialle, rosse, a cascata.
Il vecchio giradischi veniva sostituito dalla Love Band di Marlowe, un complessino di quattro elementi che puntualmente ogni sera all’orario di apertura, cioè verso le sette, si piazzava all‘angolo sulla destra in fondo alla sala per suonare musica jazz.
Poi, e solo alla sera, veniva spalancata l’ampia vetrata che conduceva a una scala di marmo che saliva fino al piano di sopra dove c’erano i tavoli verdi per giocare a poker, e fare qualche puntata alla roulette.
Se poi qualche cliente desiderava spassarsela con qualche bella fanciulla, non doveva fare altro che infilare l’altra vetrata sulla destra, e salire al secondo piano, dove avrebbe trovato cinque signorine che gli avrebbero reso la serata molto piacevole.
Virginia la rossa, Annie la francese, Silvie la dolce, Maria la formosa e Florance la Cubana erano le cinque ragazze cinque che si mettevano a disposizione dei clienti per tutto il tempo che volevano.
Figuravano nel libro paga di Don Vito come cameriere, ma, evidentemente, assolvevano altro incarico.
Oltre allo stipendio avevano una buona percentuale sulle bottiglie di champagne e liquori che facevano consumare ai clienti.
Se poi accettavano di andare oltre la semplice compagnia, questi erano fatti loro.
Don Vito non voleva entrare in tutto questo.
Preferiva far finta di non sapere.
Di loro, che considerava quasi come figlie e, quindi, non avrebbe mai toccato neanche con un dito, desiderava essere messo al corrente con chi andavano a letto, e con quale frequenza.
Ma non tanto per una curiosità morbosa, ma per conoscere meglio la sua distinta clientela e, un domani, avere una carta in più in mano da giocare quando le cose avessero preso una brutta piega.
Ma fino a prova contraria tutto quello che si faceva nelle camere da letto doveva essere fatto in maniera elegante.
Tutto doveva scivolare via liscio come olio.
Niente imbrogli, e tutto sulla fiducia.
Le ragazze sapevano che non dovevano barare con Don Vito, di per sé già molto generoso con loro. Sapevano che se avessero sgarrato avrebbero fatto i conti con Al Ventura, e la cosa non sarebbe stata certo piacevole.
La clientela, alla sera, era fatta di tutt’altra pasta: raffinata ed elegante in abiti decisamente chic. C’erano banchieri, finanzieri, belle donne accompagnate da uomini importanti e facoltosi.
Anche politici, che passavo il loro tempo a bere champagne, a degustare aragoste, e rimpinzarsi di caviale e ostriche crude.
Il tutto in un ambiente ritenuto sicuro, sotto l’attento controllo della polizia locale a libro paga della famiglia.
C’era chi frequentava il locale solamente per passare il suo tempo al tavolo verde sotto l’occhio vigile degli uomini di Don Vito, tutti rigidamente in abito scuro, ma armati di pistola che tenevano ben nascosta sotto la loro bella divisa.
Ma c’erano anche mariti infelici che desideravano solamente appartarsi con le signorine dell’ultimo piano.
Bastava salissero la scala che portava al terzo piano della palazzina dove c’erano le camere da letto.
Qui il servizio era controllato attentamente dalla cara vecchia e adorabile Collie, coadiuvata dalle sue due grasse sorelline Annette e Giselle (in tre superavano abbondantemente i trecento chili).
Don Vito con il fidato e inseparabile Al Ventura nel grande salone era il primo ad accogliere i clienti con un largo sorriso.
Ormai li conosceva bene tutti, e di tutti sapeva pregi e difetti.
Rimaneva nel locale fino alle dieci, poi, preso dal sonno e dalla nostalgia della sua cara mogliettina, lasciava la baracca nelle mani della figlia Carola, la quale di tutte era quella che aveva ereditato il pallino degli affari, ed era certamente la più sveglia.
Al suo fianco, inseparabile, c’era quel bel ragazzo di suo marito Alfredo che quando indossava l’abito scuro era ancora più affascinante.
Le donne che frequentavano il locale impazzivano per lui.
Lui lo sapeva, e vedeva che anche la moglie si rendeva conto del fascino che emanava; ma ben sapendo quello che gli sarebbe potuto capitare se avesse tradito Carola (e con lei la fiducia della famiglia), faceva di tutto per tenere ben dentro i pantaloni il suo armamentario, e di stare a debita distanza dalle belle donne.
Quando Don Vito lasciava il locale per tornarsene a casa, c’era sempre la sua ombra, Al Ventura, ad accompagnarlo e a proteggerlo.
Lo stesso che, dopo che Don Vito si era chiuso la porta di casa alle spalle, faceva rientro nel locale dove avrebbe passato tutta la notte seduto alla scrivania del capo in vigile attesa, pronto ad intervenire al minimo allarme.
E con lui rimaneva fino all’ora di chiusura a controllare il ristorante la figlia Carola col marito.
Ed era quella stessa Carola - che a pranzo dava l’idea di uno scricciolo trasandato - quella che la sera si trasformava completamente, e quasi irriconoscibile volteggiava con fare disinvolto tra i tavoli, tutta fasciata ed elegante nei suoi abiti da sera (che cambiava ogni volta), generosamente scollati sul davanti e sulla schiena , e che mettevano in mostra un corpo decisamente ben modellato.
Al collo usava portare collane lunghissime di perle vere (costate una fortuna) , mentre tra le labbra stringeva il suo bocchino d’avorio ed oro con la sigaretta accesa.
In cucina si faceva vedere raramente, perché Jan Pierre non amava subire controlli di ogni genere, né aveva bisogno di suggerimenti dato che, ormai, conosceva i desideri (culinari) di tutta la clientela.
E così la nostra Carola, ora in abito da sera lungo fino alle caviglie luccicante di strass, ora in un abitino corto di seta, girava fra la gente, sorridendo a questo e a quello avvertendo, al pari del marito, di non passare inosservata, ma di suscitare negli uomini una certa attrazione.
Anche lei sapeva di avere i suoi ammiratori.
Ma era in grado di tenerli ben distanti, perché gli affari sono affari (come diceva il padre), e non si devono mescolare ai piaceri..
Per quelli gli bastava l’uomo che aveva sposato.
Quell’Alfredo Caruso dal sangue bollente che sotto le coperte di seta la faceva impazzire e godere.
Quindi non cercava avventure che avrebbero portato solo guai alla famiglia.

Fine della seconda puntata (continua)

 

 

 

 

 

 

Piazza Scala - novembre 2010