Business and soups - affari e minestre
Capitolo primo - Mulberry Street

 

La vita giunge sempre a una brutta fine ( Marcel Aymè)

 

Il ristorante di Don Vito aveva due grandi insegne luminose dai colori sgargianti.
La prima Spaghetti restava accesa solo di giorno e cambiava dal rosso al blu e dal blu al rosso.
La seconda Vito‘s - opposta alla prima, appena più grande - era di un giallo fluorescente e rimaneva illuminata tutta la notte.
La gente lo conosceva come il ristorante di Don Vito - Vito’s appunto - e occupava in tutta la sua larghezza e altezza una palazzina di tre piani, la terza sul lato destro, proprio all’inizio di Mulberry Street, giusto all‘ingresso di Little Italy.
La facciata era decisamente in Stile Liberty, di color giallo paglierino, con balconcini in ferro battuto bruno, che si affacciavano civettuoli sul fronte strada, pavoneggiandosi nei disegni d’epoca.
L’artista, un abruzzese corpulento, li aveva scolpiti con cura, e la brava padrona di casa li aveva, successivamente, impreziositi con fiori multicolori che spuntavano a cascata tra le fessure.
Di tutte le case e palazzine era senz’altro la più elegante del quartiere.
Mulberry Street, agli inizi del novecento, era la strada più famosa di Little Italy.
Certamente era la più popolata da italiani.
Ci trovavi calabresi, napoletani, siciliani soprattutto.
Al confine con Chinatown, era allora un brulicare di bancarelle, di negozi e ristoranti, per il novanta per cento a conduzione familiare, di proprietà di italo americani.
Sentivi di quella gente il sudore della quotidianità e della fatica.
Vedevi i colori delle terre da cui erano scappati in cerca della Fortuna e, dalle finestre spalancate, uscivano gli odori di una cucina tradizionale, lontana, ma non dimenticata.
E il parlare, era quello inconfondibile: un po‘ americano, e, molto, italiano imbastardito.
Ma più che italiano era un miscuglio di dialetti riportati dai vecchi, che la nuova generazione, quella attuale, usava abitualmente.
Si parlava un “broccolino” tra i denti, che poi era un simpatico miscuglio di parole in dialetto siculo, campano, calabrese a seconda della provenienza cocktailizzato con lo slang dei sobborghi di N.Y.
Il nostro Don Vito Gambini era arrivato in America all’età di dieci anni.
Fu costretto a scappare dal paese di Lercara Friddi, vicino a Palermo, assieme agli zii paterni in seguito all’omicidio del padre, freddato dalla mafia locale per uno sgarbo fatto a Don Ciccillo Macaluso.
Era un ragazzino minuto e vispo, sempre in movimento, ed affamato.
“Con gli anni crescerà” diceva la vecchia Collie (la tata di colore) a chi le faceva notare la bassa statura del ragazzino che le era stato consegnato con l’ incarico di farlo crescere.
“Vedrete come diventerà alto, grande e grosso” diceva “Basta avere pazienza.
“Vedrete quando sarà nell’età della crescenza!”
Ma contrariamente alle aspettative il nostro Vito, nonostante avesse superato già da un pezzo l’età della crescita, non riuscì mai a superare il metro e cinquanta di statura.
La vecchia Collie cercò in tutti i modi di allungarlo tirandolo sia per il collo che per le gambe.
Nella speranza di farlo diventare alto grande e grosso, cambiò l’alimentazione più e più volte, consultando anche vecchie comari esperte del ramo che dispensavano saggezza a piene mani in cambio di torte alla crema di cui Collie era la meravigliosa artefice.
Ma niente, Vito rimase sempre piccolo e, anzi, a causa della alimentazione superproteica si allargò facendo del proprio corpo un qualche cosa di indefinito, ma sicuramente poco aggraziato.
Poi a diciotto anni una progressiva alopecia gli fece perdere i capelli.
Per i ragazzi di quell‘età poteva essere un dramma; invece la cosa al diretto interessato non creò grossi problemi, perché il fatto di non doversi pettinare alla mattina gli faceva risparmiare tempo e denaro, cosa questa, per un tipo come lui, di gran vantaggio.
E neppure della sua bassa statura si dispiaceva, perché anche in quella aveva trovato il suo lato positivo “Risparmio nella stoffa” diceva..
Don Vito aveva gli occhi neri penetranti, le mani piccole e tozze, una faccia tonda come una pagnotta.
Per rendere meglio l’idea di come fosse, ecco, si potrebbe senz’altro affermare che fosse la esatta copia del famoso attore Danny De Vito.
Bene, e se a questo personaggio mettete indosso un abito scuro(che portava d’inverno), e un bell’abito di lino bianco (che portava d’estate), e sotto entrambi dei gilet dalle fantasie assurde che cambiava ogni giorno, si avrà l’identikit completo del nostro eroe.
Se poi dalle tasche dei gilet ci aggiungete una grossa catena d’oro alla quale teneva allacciato un voluminoso cipollotto da capo macchinista di treni, abbiamo completato la descrizione del personaggio di Don Vito Gambini.
Il cipollotto era un orologio d’oro. Un autentico Cortébert che era appartenuto a suo padre, e prima di lui al nonno Vincenzo ( anche lui morto ammazzato da una rosa di pallettoni esplosi da una carabina a canne mozze di proprietà del nonno Rosario di Don Ciccillo Macaluso, più noto come ‘O Picciotto).
A diciotto anni il nostro Don Vito Gambini capì che per farsi strada in America avrebbe dovuto tirar fuori tutto l’ingegno di cui madre natura lo aveva dotato, nonché una buona dose di cattivo cinismo.
Qualcuno dice e pensa, che l’uomo rimane come nasce.
Se nasce buono, da grande sarà senz’altro buono.
Se nasce cattivo, da grande sarà senz’altro cattivo.
E così via: cornuti, si nasce, non si diventa.
Si è predestinati e, quindi, inevitabilmente un giorno si sceglierà una donna che lo farà cornuto anche se all‘inizio a lui sembrerà una santa donna, e madre adorata dei suoi figli santissimi.
E sarà cornuto anche se non lo verrà a sapere. C’è gente infatti che vive al fianco di una donna per anni senza mai accorgersi di essere cornificato.
Si è cornuti perché si nasce cornuti.
E’ il destino, e sulle leggi della natura non si può discutere!
Così si può dire anche per la gente onesta.
Galantuomo, si nasce, non si diventa. Se non ce l’hai nel sangue non lo diventi.
Come i reali che sono tutti di sangue blu perché tali nascono per discendenza. Anche loro predestinati.
E’ segnato tutto nel Grande Libro del Destino.
Però in tutte le cose, ci sono delle eccezioni, come in natura.
A volte uno diventa cattivo, perché lo portano ed essere tale i fatti della vita che sono capaci di stravolgere il destino degli uomini.
Perciò una persona, uomo o donna, si ingegna ad essere furbo (o furba) perché se non lo fa il lupo se lo mangia ( questa del lupo era una vecchia storia che gli raccontava spesso la Collie quando lo imboccava).
E il nostro eroe si fece cattivo e furbo per necessità; per non farsi mangiare dal lupo, che nel caso specifico era la vita.
Ma Don Vito era un cattivo sui generis.
Un cattivo buono, possiamo affermare senza paura di smentite da chicchessia.
A parole era cattivo perché era lui a prendere le decisioni più importanti che, a volte, volevano dire: vita o morte per chi gli sbarrava la strada, o gli faceva uno sgarro.
Ma a prendere certe decisioni non era mai solo, perché per talune, diciamo così un poco spiacevoli, chiedeva l’ausilio del caro amico Al Ventura ( suo coetaneo e, come lui, povero orfanello, tirato su dai nonni di Don Vito).
In questo modo gli sembrava di sgravarsi la coscienza al cinquanta per cento non sentendosi l‘unico giudice (o giustiziere, se volete), ma compartecipe della sentenza.
Così quando si decise di far fuori certo Angelino ‘O Pazzariello, che prestava denaro ad usura oltre che opprimere e spremere i commercianti del quartiere, la mente fu di Don Vito, ma le braccia furono quelle di Al.
Costui, al contrario del suo fratellino di latte Vito era una montagna umana, tutto muscoli e poco cervello.
Non per questo si deve intendere che l’uomo fosse ritardato, anzi, per sistemare certe cose mostrava di avere una certa genialità, oltre che predisposizione.
Per quelle - ma solo per le faccende dove ci voleva una buona dose di crudeltà e assenza totale di umanità - era un vero specialista.
Invece per le cose correnti il buon Al aveva bisogno della balia, di chi gli dicesse cosa fare e come fare, e a queste ci avrebbe pensato, fin dalla tenera età, il fratellino Don Vito.
Il quale, dunque, dopo aver fatto fuori ’O Pazzariello, ne prese il posto quando ancora non era stato cristianamente sepolto, imponendo la sua legge alla comunità di Little Italy.
Il cambio venne fatto gradatamente e con una certa classe, dispensando protezione con il sorriso sempre sulle labbra, prestando soldi non con gli interessi a strozzo del suo predecessore, ma in modo tale che chi ricorreva a lui, si sentisse in qualche maniera beneficiato e non oppresso.
Don Vito non era, si badi bene, il capo del quartiere, come molto spesso si vede nei film, tutto prepotenza.
Affatto, il nostro uomo era, a suo modo, un tipo sensibile, romantico, affettuoso verso la sua famiglia, e umanamente protettivo .
Con tutti, e quando si dice tutti si intende tutti, comprendendo anche gli uomini della propria gang che considerava figli suoi, e con loro faceva la parte del buon padre di famiglia.
E così chi aveva la fortuna di stargli accanto, lo poteva vedere commuoversi sia allo sbocciare di un fiore, sia di fronte alla dipartita di un farabutto che aveva appena cercato di fargli le scarpe.
E la commozione era sinceramente identica!
E non c’era da meravigliarsi se lo si vedeva intenerirsi davanti ad un tramonto, o spendere una lacrima al battesimo di un bimbo, o, ancora, mentre ascoltava una vecchia canzone napoletana.
Per questo dico che la vita ( ndr il famoso e già citato lupo) spesso spinge l’uomo a nascondere la propria indole, e per la dura e inflessibile legge di sopravvivenza, ad infilarsi una maschera che non potrà mai più togliersi .
E Don Vito Gambini per sopravvivere indossò quella del duro, celando in tal modo ai più un cuore grande come una casa.
Solo negli affari non guardava in faccia nessuno, perché gli affari sono affari e non si può cedere ai sentimentalismi.
Per quelli, gli affari si intende, Don Vito aveva un suo codice non scritto, ma che era legge.
E la legge, si sa, è uguale per tutti.
Se lui diceva che si doveva fare in certo modo, non potevi contraddirlo, assolutamente!
Fu lui ad inventarsi la famosa frase, più tardi ripresa da un altro e ben più noto Don Vito (Corleone) reso celebre dalle cronache del tempo.
Ricordate la frase?
Quando c’era qualcosa che non andava per il verso giusto (per Don Vito), o qualcuno non faceva esattamente quello che la famiglia voleva si facesse, lui diceva:
“Ragionerò con lui. Gli farò una proposta che non potrà rifiutare!”
E chi si sedeva attorno al tavolo per ragionare con Don Vito, sapeva, fin dall’inizio, che non avrebbe avuto scampo se non avesse accettato quello che gli veniva proposto.
Ma non era tanto quella frase ad incutere terrore, né la figura di Don Vito Gambini che certo non aveva il fisico per far tremare di paura la gente, bensì la presenza immensa e possente di Al Ventura, di quel suo strano sorriso che gli si stampava sulle labbra sottili, e da quella luce trasversale che emanava dagli occhi grandi e neri sporgenti sotto folte ciglia nere.
Il nostro Don Vito non amava gli spargimenti di sangue; anzi, la vista del sangue lo faceva star male.
Così, per sistemare certe faccende, dava incarico al solito Al Ventura, il quale per liquidare il caso aveva carta bianca.
Per queste cose, come è stato detto, non aveva rivali, dato che nel regolare certi conti aveva una predisposizione naturale, nonché una invidiabile fantasia.
Ogni volta che si richiedeva il suo intervento, inventava qualche cosa di nuovo e stupefacente.
Così quando dovette far fuori tal Frankie Carbone, che aveva avuto la pretesa di mettere in piedi una bisca clandestina all’insaputa di Don Vito ( e proprio in un vecchio scantinato a pochi metri dall‘abitazione di questi), fece in modo che cascasse - casualmente s‘intende - in una enorme cisterna di catrame bollente.
L’incidente avvenne lontano da Little Italy mentre il poveretto stava passeggiando con aria spensierata dopo aver dato il primo (e ultimo) morso ad un fumante hot dog.
Un’altra volta, a certo Tom Ascarone, che si era reso colpevole di aver fatto pesanti apprezzamenti sulla futura mogliettina di Don Vito, Alfonsa, il nostro Al riservò un trattamento tutto particolare.
Dicono che una domenica mattina del mese di settembre, prima che iniziassero i festeggiamenti per la festa di San Gennaro, fu visto volare dal tetto di casa sua completamente nudo e con due ali di piume bianche incollate alle spalle.
Chi lo vide volare e atterrare pesantemente sul selciato sprizzando cervella e sangue, pensò che fosse uscito pazzo.
Ci fu chi commentò: “Credeva d’essere diventato angelo e provò a volare…...da lassù”indicando con la mano il tetto da cui si era lanciato, poi il volo del poveretto”e poi giù…..come un sacco di patate….!”

Quanto detto, avrà permesso ai più di farsi una certa idea dei primi due personaggi di spicco di questa storia.
Ma veniamo ai giorni in cui la storia si svolge.
Siamo al tempo del proibizionismo, fenomeno questo che diede linfa vitale al cosiddetto gangsterismo.
Don Vito Gambini si fece un certo nome a quell’epoca, e rafforzò la propria posizione già invidiabile in Little Italy, grazie soprattutto all’amicizia con certi personaggi arcinoti e famosi che rispondevano al nome di Frankie Yale e Al Capone.
Di questi due celebri gangester italo-americani si sono scritte pagine e pagine di storia.
Si sa che il primo nacque in Calabria nel 1901 giungendo con la sua famiglia negli Stati Uniti, e che giovanissimo entrò nella Five Points gang di Johnny Torio.
Quando quest’ultimo partì per Chicago, Frankie Yale divenne il capo della banda, nella quale fece il suo ingresso il giovane Al Capone, noto Scarface.
I due, in quel periodo, erano i capi indiscussi di tutto il commercio - proibito - di alcolici, nonché del mondo delle scommesse clandestine, e di tutti i traffici illeciti possibili e immaginabili.
Nell’ambiente della malavita si disse che, un certo giorno, tra questi due big sorsero dei dissidi sul traffico degli alcolici.
E tanto litigarono che si separarono.
La causa della loro separazione fu il sospetto - insinuatosi nella testa di Al Capone - che fosse proprio il socio Yale l’artefice delle rapine ai suoi camions prima che questi lasciassero New York per portare migliaia e migliaia di bottiglie di liquori in tutti gli States.
Non sarebbe bugia, invece, se qualcuno affermasse che fu il nostro Don Vito a metterci lo zampino in tutto questo, e non Yale come avevano pensato quelli che trafficavano nell’ambiente del contrabbando.
Fonti sicure giurano che fu Don Vito, con la sua banda, a sottrarre con abilità ed astuzia le migliaia di bottiglie di gin e whiskey alla banda Yale-Al Capone, facendo credere che fossero proprio gli uomini di Yale a farle sparire.
Fatto sta che dopo questi incidenti, e questi sospetti, il sopraddetto sodalizio si spaccò e Al Capone fu spedito a Chicago.
Così Yale rimase tutto solo con la sua gang nella tana di Brooklyn fino al 1° luglio 1928, quando fu attirato fuori dal suo bar con una trappola, e venne massacrato a colpi di pistola appena salì a bordo della sua macchina nuova fiammante.
E anche su questo ultimo fatto c’è chi giura di aver visto il nostro affezionato Al Ventura dileguarsi a passo veloce dalla zona incriminata, cosicché a qualcuno venne in mente che anche in questa storia ci fosse lo zampino di Don Vito.
Ma non riuscì a dire nulla di quello che aveva pensato perché non ne ebbe il tempo, visto e considerato, che la bocca che poteva parlare fu chiusa per sempre. .
Sta di fatto che, sparito dalla scena Yale, nella zona di Mulberry Street in Little Italy la famiglia di Don Vito Gambini prosperò nella più assoluta e indiscussa libertà, senza dover più render conto a nessuno.
Nel suo bel ristorante, Don Vito, ebbe dunque la possibilità di condurre tutte le sue attività coadiuvato dai suoi fedelissimi, dalla sua adorata moglie Alfonsa, nonché dalle cinque figlie delle sei avute dal matrimonio.
Nel suo locale, all’ora di pranzo, non trovavi posto se non eri un cliente abituale.
E clienti di tutti i giorni erano i soliti: piccoli commercianti, commessi viaggiatori, scommettitori incalliti, allibratori, piccoli boss cresciuti all’ombra di Don Vito e con la sua personale benedizione.
Nel locale, all’ora di pranzo, si potevano gustare tutte le specialità della casa, e cioè piatti tipici della terra di origine del nostro anfitrione, come la caponata, le melanzane, il tonno a sfinciuni, la pizzaiola al forno, la trippa e tante altre leccornie che le abili mani di donna Alfonsa & figlie sapevano cucinare.
Alfonsa aveva conosciuto il suo Vito da ragazzina, e da subito fu grande amore.
Lei così alta e formosa, lui così piccolino e tondo, formavano una strana coppia.
Amandosi ancora come il primo giorno, non badavano a quanto la gente andava dicendo, alle battute di scherno di cui erano vittime ( e qui, data la suscettibilità del personaggio, chi le faceva, le doveva fare lontano da orecchie indiscrete se non voleva trovarsi morto ammazzato).
Vito e Alfonsa erano come quegli uccellini che si vendono ai mercati nelle gabbiette: inseparabili.
La mattina quando andavano al lavoro, e nel primo pomeriggio quando chiudevano bottega per fare rientro a casa, si tenevano teneramente mano nella mano, sempre scortati da quella montagna umana che rispondeva al nome di Al Ventura.
Dal loro amore nacquero sei femmine.
Sei ne avevano fatte nella speranza, ogni volta, di avere il tanto sospirato e desiderato figlio maschio, quello che avrebbe continuato la stirpe dei Gambini, e che avrebbe ereditato le fortune della famiglia.
La più grande, avuta esattamente dopo nove mesi dal matrimonio, la chiamarono Maria Concetta, più nota come “Concettina”.
Era bella come la sua mamma: stesso fisico imponente, grandi occhi azzurri e una chioma fluente di colore nero corvino.
Sposata con Santino Gambino, meglio noto come ‘O Verziere , in quanto la sua famiglia aveva un ingrosso di orto-frutta, aiutava la mamma in cucina.
Le sue specialità erano le pastasciutte , le lasagne con ragù e ricotta, e i timballi di maccheroni.
La secondogenita la chiamarono Giuseppina Rosaria, la dolce.
Nacque dodici mesi dopo la prima.
Aveva il fisico del padre, e la robustezza della madre.
Nonostante fosse, come dire, fisicamente parlando, una femmina da schifiu, aveva un viso grazioso, e uno sguardo dolcissimo.
Anche lei aiutava la famiglia ai fornelli (settore dolci) e anche lei aveva sposato un Gambino, fratello gemello di Santino, che di nome faceva Rosario.
Terza figlia era Addolorata.
Bella, anzi bellissima, alta, bionda, un fisico e una voce da soprano.
Come le due sorelle più grandi, si era sposata giovanissima con un certo Mark Esposito, di origini napoletane, la cui famiglia era proprietaria di una importante catena di macellerie.
Addolorata in cucina era abilissima nel preparare le carni, tutte provenienti - neanche a dirlo - dalle macellerie della famiglia del marito, e i pesci sempre freschissimi, appena pescati.
Il suo piatto forte era la testa di maiale soppesata, e le sarde fritte.
Tre anni dopo la nascita di Addolorata, ecco venire al mondo le due gemelline Carola e Santuzza.
A detta di tutti: non belle, ma simpatiche.
Si somigliavano come due gocce d’acqua, tant’è che da piccoline anche alla loro mamma capitava di confonderle.
Il padre, Don Vito, le confondeva spesso, chiamando Carola Santuzza, e Santuzza Carola.
Così per la pace di tutti, la famiglia decise un bel giorno di separarle.
Ma mentre Carola rimase in famiglia ad aiutare nel ristorante ( lei si occupava principalmente della cassa e delle ordinazioni), Santuzza venne mandata in collegio a studiare.
Così la nostra Carola ebbe modo di incontrare e sposare il suo bel moro Alfredo Caruso, di origine siciliana; mentre la più debole delle due, appunto Santuzza - dopo una laurea sofferta ad Harvard - si unì in matrimonio con il borioso e allampanato Robert Brady figlio di irlandesi.
Ultima della covata arrivò come fulmine a ciel sereno la piccola e capricciosa Consolata.
Nacque ben dieci anni dopo le gemelle, quando ormai i genitori avevano abbandonato l’idea di concepire il tanto desiderato figlio masculo, e già dalla culla si mostrò una ribelle scambiando il giorno per la notte, la qual cosa portò scompiglio fra le tranquille quattro mura domestiche della famiglia.

Fine della prima puntata (continua)

 

 

 

 

 

 

Piazza Scala - novembre 2010