I MAYA: UN POPOLO DALLE ROBUSTE RADICI
di Giorgio Nobis

 

   quarta ed ultima puntata: conclusioni   
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Una menzione particolare meritano le loro conoscenze mediche: utilizzavano una gran quantità di
piante ed erbe per curare svariate patologie, ma erano anche molto abili nelle cure dentarie (con
smaltature ed otturazioni di notevole perfezione), nella conoscenza degli emisferi cerebrali al punto da usare la ricomorfazione della scatola cranica perchè questa non facesse pressione sulla parte del cervello che si desiderava sviluppare, nell’osteologia utilizzando succhi di particolari radici per saldare in poche settimane ossa fratturate.
Resta infine da accennare alle credenze religiose ed alla concezione della vita di queste genti.
Anche loro si diedero una spiegazione sull’origine del mondo, visto come un succedersi continuo
d’ere, ognuna della durata compresa tra i cinque ed i sei mila anni. L’universo maya era travagliato
dalla perenne lotta tra le forze del bene e del male. Il bene portava la pioggia, la fertilità e
l’abbondanza; il male portava la siccità, gli uragani, i terremoti e le guerre. Sopra la terra esistevano
tredici cieli di beatitudine e dietro di essi nove cieli d’inferno, nei quali lo spirito di ogni uomo accedeva a seconda del proprio agire nel corso della vita.
I Maya erano (e sono tuttora) un popolo molto religioso e con regole morali molto seguite; nel paradiso finale non esistevano più né dolore né povertà, ma solo beatitudine e gioia. Nel loro inferno finale c’erano fame, freddo e miseria.
Essi credevano in una nutrita rosa di divinità, visti come intermediari con lo Spirito Creatore, suprema divinità pantocratica, staccata dal mondo e dalla vita di tutti gli esseri. In conseguenza avevano un dio per ogni necessità, per ogni emergenza, per ogni periodo di tempo. La divinità, alla
quale il contadino maya si rivolgeva con più devozione, era CHAAC, il dio della pioggia, la cui benevolenza arrecava vita e felicità e la cui ira era portatrice di carestia e di morte.
Per queste genti gli dei si manifestavano secondo le circostanze, sia mediante fenomeni naturali, sia attraverso animali, sia nei simulacri eretti dagli uomini che permettevano la materializzazione delle energie sacre nel corso dei rituali.
Facciamo ora un salto di circa mille anni e chiediamoci: oggi come vivono, che cosa pensano, in
cosa credono i sei milioni di Maya sparsi nell’area sopra indicata?
Generalmente si è portati a credere che questo popolo, dopo secoli di soprusi, di sfruttamento, di
stragi ripetute, abbia perduto per sempre la nozione del suo gran passato e che sopravviva inaridito
e rassegnato in un mondo totalmente mutato.
Al contrario, è gente tenace che non si è mai fatta assimilare dagli invasori spagnoli, i quali –pur detenendo il potere e le ricchezze – non sono tuttavia riusciti, anche dopo cinque secoli, a far svanire la profonda spiritualità di questo popolo (ben diversa da come noi l’intendiamo), a cancellare le loro ricche tradizioni, a costringerli a adottare le nostre usanze.
Il Maya odierno, anzitutto, ha conservato un’intima venerazione per il cielo, per il Sole quale dispensatore di vita, per la pianta del mais, per i molti laghi del territorio, per i fiumi e persino per i
33 vulcani che costellano il paesaggio guatemalteco, in quanto concepiti come esseri provvisti di
un’anima, capaci di intendere e di esaudire le preghiere degli uomini.
É gente cordiale, dotata di grande immaginazione ed inventiva, che si veste con un’orgia di colori, che arricchisce la propria vita con innumerevoli credenze, danze e rituali, producendo altresì un artigianato vario e raffinato e vivendo un’esistenza imbevuta del senso del magico e del sacro.
La conversione al Cristianesimo non ha, però, dissolto le antiche credenze, tant’è che queste sovente convivono con esso in una sincretica visione fideistica del destino dell’uomo.
Terminiamo questo scritto tornando all’argomento accennato in apertura, vale a dire l’ipotizzata
profezia maya sulla fine del ciclo attuale, iniziato nel 3114 a.C. e che dovrebbe finire il 21 dicembre
2012, sempre che le correlazioni con il nostro calendario gregoriano siano correttamente interpretate e che i Maya abbiano usato nell’indicare la data d’inizio del ciclo l’anno vago (Haab) e non quello sacro (Tzolkin).
L’unico riferimento a questa data appare su di una stele (vds. a destra e sotto) rinvenuta nel 1958 nella località di Tortuguero nello stato messicano del Tabasco e che riporta questa iscrizione:
“Alla fine del 13° Baktun, il 4 Ahau 3 K’anki’n ……”
“….. (resto illeggibile, salvo il rigo finale)…………. ”
“..….……… avviene quando Bolon Yoktè discende.”
Come già riferito nel corso del testo, i Maya avevano una visione ciclica del mondo, dove ogni cosa
che è già stata nel passato ritornerà nel futuro, ma nel caso in questione, così come in alcuni passi
dei libri di Chilam Balan, il riferimento indica solo la “fine del tempo e l’inizio di quello nuovo”. Il personaggio Bolon Yoktè era una figura mitologica, legata alla guerra ed al mondo sotterraneo, ma anche alla creazione.
La suesposta data calendariale maya, quindi, nulla suggerisce su previsioni catastrofiche di fine del
mondo; la credenza in una tale catastrofe è puramente occidentale, diffusa anche grazie a “liberi ricercatori” che hanno attribuito a queste genti predizioni e frasi mai pronunciate
 
Giorgio Nobis

 

 

 

 

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Piazza Scala - luglio 2013