VIRUS
sesta parte Da LABIRINTI di
Fortuna Della Porta
Intanto
doveva sbrigarsi. Avrebbe raggiunto Clara e Daniele e si
sarebbe accampato sulla strada davanti all'ospedale,
fino a che era necessario. Non li avrebbe lasciati un
istante. L'accesa sensibilità di sua moglie avrebbe
percepito in qualche molto la sua presenza così contigua
e se ne sarebbe giovata. Forse era addirittura possibile
farle giungere in due righe tutto il suo affetto e la
sua disperazione.
Non aveva ancora considerato che Clara potesse stare
tanto male da essere a sua volta staccata dal mondo. E
poi vide
anche lei, diafana e abbandonata, come una bambola, in
un letto troppo grande, col cuscino occupato dalla massa
di capelli.
Trattenne un singhiozzo mentre si accingeva a percorre
mentalmente la strada per l'ospedale.
I distributori di benzina dopo la fuga collettiva erano
rimasti a secco e quelli che ancora conservavano scorte
erano presidiati dalle forze dell'ordine. Tutta la
benzina era stata dirottata sulle emergenze e la sua
macchina, parcheggiata nel rettangolo numero 12 del
posteggio condominiale, non si sarebbe mossa col
serbatoio vuoto. Il giorno prima aveva adocchiato una
macchina abbandonata con lo sportello aperto, chiavi nel
cruscotto, accanto alle prime baracche in lamiera del
mercato. Si era seduto speranzoso al posto di guida con
l'impulso di portarla via, ma quella aveva solo
gracchiato e poi la mattina successiva era sparita.
Numerose erano le auto abbandonate nei posti più
inconsueti, persino in mezzo alla strada, tutte
purtroppo inutilizzabili.
Pensare di andare fino al S. Pietro senza mezzi di
trasporto gli diede di nuovo voglia di piangere, quando
gli venne in mente che sul soppalco della loro cantina,
accanto al garage, giaceva nella custodia di cellophane,
quasi dimenticata, la sua bicicletta da corsa e accanto
c'era la mountain bike di Clara che andava anche meglio
per muoversi sull'asfalto rattoppato. Dalla gravidanza
non l'aveva più portata sulla pista ciclabile.
La domenica, se non pioveva, un tempo facevano insieme
un giro di dieci km. Entravano dall'altra parte della
strada, accanto alla torretta a cavallo del ponte, sul
nastro di asfalto color ocra e poi veloci verso Saxa
Rubra, dopo i circoli del golf, il galoppatoio, i campi
da tennis, da calcio e calcetto, il laghetto del parco,
con l'erba rasa, gli alberelli in allungamento e i viali
intasati di cani e bambini.
Di tanto in tanto Clara gli aveva chiesto di portare a
casa un cane. Uno di taglia contenuta, quelle piccole
belve, a suo parere, che si attaccano alle caviglie,
striano di urina i pavimenti e dormono più volentieri di
giorno.
Niente cane, Clara, per favore.
Dopo la nascita di Daniele, Clara non ne aveva parlato
più.
Di nuovo avvertì un groppo allo stomaco e l'ombra di un
cagnetto, un batuffolo beige e marrone, attraversò il
suo campo visivo sparendo nel nulla, in una sorta di
senso di colpa.
Prima di rimettersi nell'ascensore si farcì un panino
con una fetta di prosciutto e s'impose di mandarlo giù.
Dal frigorifero quasi vuoto, con solo parecchi vasetti
di omogeneizzati per il bimbo, trasse una bottiglia di
birra e ne infilò il collo nel cavatappi applicato alle
piastrelle e la ingollò tutta. Riprese a respirare.
Risollevato dal cibo, poco dopo azionò il congegno
elettrico della saracinesca e salì sul soppalco facendo
discendere sui pioli davanti a sé poco dopo la
bicicletta di Clara.
Nel giro di dieci minuti, dopo aver sbirciato
superficialmente le ruote e i freni, che sembravano aver
tenuto, passò sotto l'arco di Corso Francia e svoltò
sulla salita zigzagando per lo sforzo. Gli venne
incontro il vialone reso spettrale dal vuoto umano e
dalle altissime luci.
Era passata da un pezzo la mezzanotte.
Pedalando adagio controvento, intravide una sagoma umana
rasentare il muro scendendo per via Flaminia Vecchia
come se si nascondesse.
Nonostante le luci gli pareva di scorgere dietro le
tende delle finestre, dietro i vetri scuri dei balconi,
ombre segrete, frutto ancora della sua immaginazione,
sebbene le bande di predatori scorrazzassero davvero
nelle abitazioni lasciate dai padroni di casa in fretta
e furia.
Non badò ai semafori che continuavano a scambiarsi senza
scopo. Le serrande dei negozi erano sollevate o chiuse,
ma sempre sul buio.
Balconi e finestre quasi tutti con gli avvolgibili in
alto conservavano di vivo solo la corona di piante e
soprattutto di ciclamini, data la stagione, composti i
vasi sospesi sia in monocromia sia talora con colori
sfumati o contrastanti.
I vetri neri parevano occhiaie.
Vigna Stelluti scendeva in giù alla stessa maniera,
ovvero senza l'incrudelire del traffico e sembrava
altro. Fabio non sapeva enumerare quante volte era
rimasto appiccicato alla salita col motore imballato,
quando doveva andare verso la Camilluccia e la Balduina.
In quelle occasioni sacramentava a diritto e a rovescio:
- Divento pazzo prima o poi con questo traffico, me lo
sento.
Era sempre giunto a destinazione come un fiore e senza
che mai si configurassero circostanze capaci realmente
di nuocergli. Ora sì che toccava con mano come si
potesse impazzire, farfugliò ingoiando a vuoto.
Sebbene gli sembrasse di cadere ad ogni pedalata per i
crampi che ora gli attanagliavano i polpacci, giunse
quasi senza accorgersene al S. Pietro e si fermò ad una
certa distanza sul ciglio della strada. Strinse le dita
sul manubrio sentendole tremare ma subito la sua
attenzione si spostò in avanti. Senza lasciare la sella,
mise il piede destro sull'asfalto e mormorò:
- Ma cosa fanno?
Una folla si azzuffava. La strada era piena da parte a
parte. Alcuni più giovani e vigorosi sovrastavano gli
altri spostandosi con la massa, come se quest'ultima
fosse un corpo unico, quasi un campo di spighe
ondeggiante.
Le urla arrivavano indistinguibili fino a lui e per un
istante rimase soprappensiero.
Invece di domandarsi se stessero accapigliandosi per un
posto letto, un medicinale o perché impediti di entrare
a visitare un parente, si stupì che nonostante le
apparenze la città non fosse affatto disabitata.
Fabio sapeva che i disordini erano frequenti soprattutto
nelle borgate più popolate, ma un parapiglia di tanto in
tanto scoppiava davanti ai presidi sanitari per la
penuria di vaccini e antivirali. Uno scandalo, pensò.
Ora il gruppo vacillava compatto, sovrastato dalle
braccia come una fiamma culminante in lingue di fuoco,
prima verso destra e poi a sinistra. Da questa parte
sbucò un bimbo coi capelli a caschetto, il giubbino col
cappuccio e si accovacciò nella sua traiettoria sulle
ginocchia. Portò i pugnetti agli occhi e quasi
certamente si mise a piangere.