VIRUS
quinta parte Da LABIRINTI di
Fortuna Della Porta
Rientrò dalla terrazza trascinando i
passi, si tolse finalmente il giaccone double face, entrò in cucina dove
trovò la macchinetta
ancora piena dei resti della mattina. In pochi minuti la crema bruna
sormontata da mezzo centimetro buono di schiuma, perché raccolse solo le
prime gocce, senza zucchero, raggiunse il suo stomaco vuoto mettendolo
ancor più sottosopra.
Automaticamente sollevò il coperchio della biscottiera e ne trasse uno
dei biscotti del bimbo e cominciò a sgranocchiare senza accorgersene.
Ancora incredulo, di tanto in tanto mormorava:
- Ma dove sono andati?
Accese la televisione per sentire le novità, quella, magari, che
spiegasse l'assenza del bimbo e della moglie. Immaginò che Clara avesse
preso in parola un'esortazione delle autorità o che qualcosa l'avesse
spaventata. Sua moglie era fragile. Lo era diventata da quando era nato
il bimbo. Si era modificato persino il ritmo e la profondità del sonno,
oltre la sua personalità, un tempo segnata da un sorriso contagioso.
Dal parto non la riconosceva quasi più. Aveva smesso di fare la moglie
per assumere il ruolo esclusivo di madre, spesso in vestaglia, coi
capelli per aria, senza trucco e nella voce un continuo lamento di
commiserazione. Continuava a dimagrire a vista d'occhio, da quando aveva
svezzato il bimbo i seni le pendevano flosci come due vesciche, ma
l'amava con la stessa intensità di prima. L'epidemia le aveva assestato
il colpo di grazia. Si tormentata per Daniele. Non si dava pace.
- Ti amo, Clara, mormorò
Finalmente cessò di arzigogolare e ammise con se stesso di essere tanto
stanco da non turbarsi a sufficienza per l'assenza. Gli germogliavano in
testa solo spiegazioni rassicuranti quasi che il suo organismo si
rifiutasse di allarmarsi secernendo gli opportuni ormoni dello stress.
Eppure la sua famiglia era sparita, il suo bimbo dagli occhi blu e
quello scricciolo di sua moglie si erano come volatilizzati.
Accese una sigaretta. Spirali di fumo si mossero nella direzione del
lume e a questo punto valutò che dalla televisione non avrebbe ricevuto
alcun aiuto perché qualche ultimo volenteroso stava solo facendo girare
un film, datato per di più.
Vide distintamente un tale dai capelli bianchi, in uno sgabuzzino a
manipolare le scatole metalliche delle pellicole e poi sorrise perché
gli sorse il dubbio che ora i registi usassero supporti più maneggevoli
e sofisticati per raccontare le loro storie. Il progresso doveva essere
arrivato anche per loro. O si sbagliava?
Ancora divagava come se non riuscisse a spaventarsi. Si mise a
gironzolare tirandosi in basso il maglione antracite nel lungo
corridoio. La camera del bimbo e quella sua e di Clara spiccavano per
l'ordine. Nella culla bianca del bimbo era appoggiato al cuscino Pit, il
suo orsacchiotto di pelo.
Nella loro camera la vestaglia di Clara toccava il pavimento dalla
poltrona su cui era stata sistemata di traverso. Gli parve di sentire
nell'aria profumo di gelsomini, come se Clara prima di andarsene si
fosse spruzzata di colonia. Ebbe la nausea.
Riaccostò la porta della camera e girando a destra si trovò nel salone
da cui era partito. La luna era posata al sommo della finestra e striava
di sbieco l'acqua del fiume. Il fischio del vento giungeva all'interno
dell'appartamento, soffiava dagli interstizi sulle tende.
Dopo un istante Fabio era seduto al tavolo tondo e si passava le dita
tra i capelli. Le gambe larghe. Il caffè non aveva avuto alcun effetto
ed era più stordito di prima. Gli occhi si chiudevano. Le azioni erano
lente e farraginose, gli pesava il corpo, sbattevano le dita delle mani.
- No, mi sbaglio, sono lì,
bisbigliò girandosi verso il corridoio come se Clara si trovasse sulla
porta col bimbo stretto al collo. E li vide in carne e ossa, la moglie
con la gonna da zingara con la balza stampata a papaveri sovrapposti che
indossava quella mattina, col bimbo in braccio come un pupazzo nella sua
tuta spessa e variopinta. I capelli le cadevano spioventi fino alle
spalle.
Si era ammalato di nervi come Clara, solo con manifestazioni diverse, se
le sue fantasie continuavano a sovrapporsi al reale, questa era la
verità.
Al centro del tavolo una rosa ormai annerita aveva reclinato la corolla
dalla sua parte e si accingeva a cadere su qualche petalo già finito sul
quadrato di lino smerlato, sotto il vaso. L'acqua era appannata. Fabio
allungò l'indice per allontanarli e inavvertitamente toccò un foglio
piegato in due che fino a quel momento gli era sfuggito. Lo riconobbe
d'istinto.
Con le dita tremanti aprì sull'intestazione. I caratteri più grandi
indicavano l'ospedale S. Pietro, sulla Cassia, e l'unica altra cosa che
percepì più sotto fu il nome e il cognome di Daniele e di Clara, in
scrittura inclinata, dal copiativo sbiadito, appena leggibile.
Ingoiò a vuoto e cercò di controllare la tachicardia.
L'idea della malattia di uno dei due o di entrambi s'introdusse con
lentezza nella sua mente, ma poi esplose come un dolore serpeggiante
sulla rete dei nervi, una scossa elettrica. Vide la faccia di Daniele
gremita di papule, il respiro franto, in mezzo a continue apnee e subito
dopo il respiratore, gli aghi delle flebo, i cerotti delle
apparecchiature del monitoraggio dei parametri vitali.
-Non li rivedrò più,
mormorò e immediatamente lo sguardo gli si riempì di chiazze.
Fu a questo punto che la sua mente inceppata si aprì e lucidamente
considerò:
-Dopo tutto il Tevere è a due passi.
Senza di loro non avrebbe neanche tentato di ricucire la tela della sua
vita. Sembrò che le stelle fossero precipitate tutte insieme.
All'improvviso, mentre continuava a girare e rigirare tra le mani il
foglietto di carta sottilissima, ricordò l'incontro con lo poliziotto
davanti alla casa del portiere.
Forse poteva ottenere informazioni, volesse il cielo una specie di
salvacondotto per oltrepassare lo sbarramento della quarantena, perfino
per vederli solo attraverso un vetro, attraverso un cannocchiale, con
una tuta da palombaro. Avrebbe accettato a sua volta la segregazione:
- Chi se ne frega? Un'eccezione, insomma, per chi aveva continuato a
lavorare per la comunità e quindi anche per loro. Vuoi vedere che hanno
mangiato il pane del mio forno?
Catapultandosi per le scale, scivolando con la sinistra sul corrimano,
di nuovo si appoggiò con forza sul pulsante. La luce però era chiusa,
non veniva dall'interno alcun rumore.
Troppo tardi, pensò, se ne sono andati.
Risalì lentamente, un gradino per volta come se gli scoppiasse il cuore
e ricominciò a ragionare.