VIRUS
quarta parte Da LABIRINTI di
Fortuna Della Porta
Dall'appartamento del
portiere, contiguo all'ascensore, fuoriusciva un filo di
luce appena distinguibile e allora ebbe un sussulto
credendo che qualcuno fosse ritornato, forse per
prendere provviste e abiti. Aveva bisogno di scambiare
due parole con un essere umano, confrontare le sue
scelte con chi non avesse i nervi logori come sua moglie
e sperò che il tramestio fosse provocato
proprio da Walter, che era un giovane ben equilibrato,
con un cervello di prim'ordine.
Gli passò davanti agli occhi col solito jeans sdrucito,
gli occhiali con la spessa montatura nera e il passo
dinoccolato di quando per un problema all'ascensore
scalava i gradini a tre a tre.
Quell'ascensore, pensò, non ne voleva sapere di
ringiovanire.
Si appoggiò sul campanello con tutto il corpo e un suono
stridulo mai registrato prima rimbalzò di fuori in ogni
angolo, si avventurò per le scale del palazzo
abbandonato, in mezzo ai cumuli di cartacce e polvere
che il vento mulinava sin nell'atrio, intrufolandosi
dappertutto.
Gli sciacalli, pensò all'improvviso rabbrividendo. Non
può essere Walter. Quando stava per essere sopraffatto
dal sospetto, pensando
alla sua famiglia indifesa qualche piano più su, la
porta si spalancò e un agente gli soffiò in faccia con
un'aria assurdamente spavalda:
-Lei chi sarebbe? Che ci fa qua?
Farfugliò che abitava di sopra e che aveva visto la lama
di luce sotto la soglia.
L'altro lo esaminò in lungo e in largo, soffermandosi
sulle chiazze di farina che si erano trasferite sul
giaccone. Non aveva avuto animo di scuoterle:
-Chi se ne frega
aveva mugugnato. Il poliziotto ne parve rassicurato:
-Il forno, vero? disse indicando col mento la spalla.
Fabio assentì con la testa.
-Stia tranquillo! Solo un controllo.
Non aveva una sola volta lasciato il grilletto dell'arma
che portava a tracolla. Negli ultimi giorni Fabio aveva
sentito degli spari lontani,
dalla parte dei colli della Farnesina, da armi
automatiche, dopo il coprifuoco. Accadeva forse quando
gli sciacalli erano colti in
flagrante a svaligiare un negozio o un appartamento. Sin
dai primi giorni era girata la voce che un paio di
lestofanti erano stati giustiziati sul posto, sebbene le
autorità insistessero che si era trattato da parte delle
forze dell'ordine di legittima difesa. In ogni modo la
città era tappezzata di volantini di avvertimento.
Subito dopo le prime fughe e l'imperversare delle bande
di delinquenti, secondo lui era entrato in vigore il
codice della giungla.
Fabio si trovò a ricordare come era salita l'angoscia
nella popolazione.
Non appena la radio e la televisione avevano inaugurato
la stura dei consigli sanitari e l'aggiornamento del
numero dei decessi, la città aveva perso la rotta.
Accadde quando si capì che il virus si era presentato
nella metamorfosi più virulenta, una mutazione di tipo
emorragico, tale da attaccare anche la generazione
precedente vaccinata nell'infanzia, fatale quindi quasi
nella totalità dei casi.
Nei discorsi degli avventori al forno lo aveva colpito
subito la diffidenza generalizzata verso i propri
simili, d'un tratto percepiti
come untori, e la paura che induceva a giudizi
irragionevoli, in breve trasformata in terrore.
A quel punto chi poteva si era infilato in macchina per
chissà dove.
La zona di Roma nord, che si congiungeva ai Parioli, si
era svuotata in poche ore, sebbene per districarsi
dall'ingorgo le auto sulle strade d'uscita avessero
impiegato una intera notte.
Sorpreso che si fosse di nuovo staccato dal contesto,
Fabio salutò bruscamente il poliziotto. Anche Clara
doveva aver sentito il
trambusto nell'androne e Fabio si affrettò a salire per
rassicurarla. La porta dell'ascensore si accostò e il
meccanismo prese a cigolare.
Quando Fabio tornava, Clara ogni volta era stravolta,
dopo una giornata rinchiusa a guardare dalla finestra il
fiume, frammezzo la
corolla dei pini, gli scheletri dei platani sfioccati
dall'inverno, oltre la loro terrazza, dopo il silenzio e
il nulla delle strade.
Fabio la capiva. Dall'evacuazione, dopo il subbuglio, in
tre o quattro giorni era piombato sulla città
un'immobilità in cui anche un brusio si ingrossava. Un
passo sull'acciottolato somigliava a tutt'altro, persino
a un proiettile espulso da un'arma.
Bussò appoggiandosi di nuovo al campanello e lo stesso
stridulo raschio, da cicala esausta, rimbalzò sul
pianerottolo. Attese Clara
inutilmente, ma la porta era solo accostata. Incerto
mosse alcuni passi nell'ingresso, sotto la frasca di
vischio secco del capodanno scorso, accanto
all'attaccapanni e al guardaroba. Sebbene interdetto,
sentì lo stesso un cane abbaiare nella notte mentre
continuava la perlustrazione e seguiva i suoi pensieri:
-Dov'è andata Clara? Dove ha portato Daniele?
Girò finanche la maniglia della vetrata del salone
chiusa dall'interno, per controllare se fossero sulla
terrazza. Clara non ce la faceva a stare chiusa, le
prendeva la claustrofobia, diceva, e forse andava a
respirare di tanto in tanto all'aria aperta.
Di sicuro aveva imbacuccato il piccolo da eschimese.
Frugando anche nell'armadio delle scope e dei detersivi,
in fondo al divisorio con l'altro appartamento, alla
fine di Clara e Daniele non c'era un segno.
Non volle fare deduzioni. Riempì il cervello di idee di
rumori e di suoni purché non lasciassero spazio alle
supposizioni.
Aveva voglia di piangere, ora, e lo fece sommessamente
accartocciandosi là fuori tra due vasi di ciclamini che
l'umidità dei giorni precedenti aveva tenuto rigogliosi.
Appallottolò il fazzoletto in una tasca e cercò di
recuperare lucidità. Non respirava bene. Era
confuso adesso e le congetture si sovrapponevano. Ma
doveva reagire per cercare Daniele. Tentò di mettersi
nei panni di Clara e di fissare i punti di un probabile
ragionamento. Abbattuto e impotente, come sembrava Clara
nelle ultime settimane, dove si sarebbe diretto pur di
mettere in salvo Daniele?
Voleva un caffè.