S. Anna è una
frazioncina di poche anime a qualche chilometro
dal nostro paese, dal quale però
amministrativamente non di-pende. Proprio per
questo non si sa bene per quale altro motivo il
pomeriggio di un certo giorno i due vi si
fossero diretti.
Fatto sta che, superate le ultime case, si
sedettero all'ombra di un ulivo (era giugno
avanzato e dalle nostre parti il caldo si fa già
sentire), si tolsero il cappello e, deposto il
bastone, annusarono una presa di tabacco da
fiuto.
Una brezza leggera spingeva dalla Piana un vago
sapore di salso, frammisto al sottile profumo
degli aranceti lontani.
A Ntonicchio il tabacco non fece alcun effetto.
Ne era abiuato, tant'è che i peli dei baffi,
proprio sotto il naso,
avevano asl colore giallo cupo tipico del
fiutatore. A don Ferdinandeju invece sì. Egli
accettò incautamente la presa, che non seppe
dosare, e cominciò a starnutire con tale
frequenza e tanto fragore da attirare la
premurosa attenzione di una contadina del nostro
paese sbucata in quell'istante, con un paniere
in testa, dalla stradetta che porta, dopo S.
Anna appunto, verso Terramala.
Era una contadina sui quarantanni, di
bell'aspetto, quasi altera nel portamento, che
le fatiche, tuttavia, e le numerose gravidanze
facevano apparire più avanti della sua età.
Ora, bisogna sapere che parecchi nostri
compaesani possie-dono ancora un pezzo di terra
in questa contrada che, come detto, appartiene a
un Comune diverso dal nostro, dai limiti del
quale lo separa una discreta distanza.
I motivi di questo spingersi al di fuori dei
propri confini si possono intuire: la vasta
zona, fortemente frammentata, è coltiata per
intero a vigneti, a differenza del territorio
circostante che è coperto da fitta vegetazione
di ulivi.
Essa gode di favorevole esposizione al sole che
è condizione indispensabile alla rigogliosa
crescita delle piante e alla matura-zione dei
grappoli. Per di più il terreno è di
straordinaria fertilità e facilmente
raggiungibile.
Queste vantaggiose caratteristiche non potevano
sfuggire a quanti, anche del nostro paese,
ambirono nel tempo ad assicurarsi ortaggi e
primizie in abbondanza, ma soprattutto un buon
bicchiere di vino. Che la destinazione della
zona fosse a vigneti fin da tempi remoti, lo
attesta l'esistenza di monumentali palmenti, dai
muri antichissimi di creta locale, che
diffondono attorno, in ogni stagione, il profumo
intenso e quasi melassato delle vinacce.
La donna dunque si avvicinò ai due, depose il
paniere e chie-se a don Ferdinandeju, sulle cui
spalle Ntonicchio continuava a battere la mano
ripetendo «fora malu, fora malu»:
- «Vi sentiti bonu? Voliti mi vi pigghiu 'mpocu
d'acqua?».(Vi sentite bene? Volete che vada a
prendervi dell'acqua?»).
Don Ferdinandeju non dava segni di smettere,
anzi dopo gli starnuti cominciò a tossire tanto
nervosamente che dovette spostare il fazzoletto
dal naso agli occhi per tamponare le lacrime che
gocciolavano abbondanti sui calzoni.
L'unico segnale per la donna, non potendolo con
la voce, fu con la mano aperta tirata su e giù
per pregarla di attendere che l'attacco di tosse
si calmasse.
Ntonicchio, per nulla disorientato da quanto
stava accadendo, mostrando anzi di esservi
abituato visto che continuava svo-gliatamente a
battergli la mano sulle spalle, allungò lo
sguardo dalla parte del paniere.
Quando, fra una foglia di vite e l'altra,
trattenute da esili fili di ginestra, intravide
che esso era colmo di fichi melanzana
(«schiavi», come li chiamiamo in dialetto),
cessò fulmineamente di battere la mano sulle
spalle di don Ferdinandeju, ma senza ritrarla.
Si piegò anzi verso di lui a simulare un gesto
di soccorso rav-vicinato ma in effetti per non
farsi notare dalla donna e, facendo pressione
con le sole dita perché quello prestasse la
massima attenzione, gli strizzò l'occhio e, col
solo movimento dello sguardo, gli indicò il
paniere.
La pressione delle dita voleva significare, nel
loro misterioso linguaggio, «venitemi dietro,
assecondatemi in quello che sto per dire o
fare».
Don Ferdinandeju capì, come al solito, in un
lampo e, cer-cando di guadagnare tempo a
beneficio del piano che sicura-mente il suo
compare stava architettando, anziché accelerare
in qualche modo la fine della tosse, ne prolungò
la durata con col-petti striduli e ridicoli.
- «Vi carmau?» (V'è calmata?) insistè l'ignara
donna, facendo intendere che l'offerta di aiuto
rimaneva ancora valida.
- «Si, si. Ora vaiu megghiu. Tabaccu smalidittu»
(Sì, sì. Ora sto meglio. Maledetto tabacco)
rispose.
Ntonicchio, col capo abbassato, seguiva le mosse
della don-na, che rimaneva indecisa se restare o
andarsene. Quando però vide che quella stava per
avvicinarsi al paniere e che l'intenzione era
ormai chiara, venne fuori con una proposta che,
sul mo-mento, sembrò ambigua:
- «Chi facimu, don Ferdinandu, 'nei 'u dicimu?»
(Cosa dobbiamo fare a questo punto, don
Ferdinando, glielo dobbiamo dire?)
Per chi non conosca il nostro dialetto, le lievi
sfumature e i significati nascosti nel tono e
nelle inflessioni della voce, può pensare che si
fosse trattato di una frasetta buttata lì per
caso, con intento magari riempitivo.
Per la donna invece, che sfumature e toni e
inflessioni conosceva benissimo, fu come uno
scoppio improvviso. Essa ritrasse il braccio
ormai proteso verso il paniere, indecisa fra il
sospetto e l'apprensione, e s'irrigidì.
Girò lo sguardo a destra e a manca sperando che
Ntonicchio si fosse rivolto all'altro con
l'intenzione di parlare a un'altra per-sona, ma
intorno non c'era anima viva. Fissò quindi lo
sguardo indagatore su don Ferdinandeju
aspettando la sua risposta.
Questi però indugiava, non perché si curasse
dello stato d'animo di lei, che non gli
interessava minimamente, ma perché vo-leva
soppesare bene quale dei due, se il no o il si,
potesse risul-tare il più adatto al piano
escogitato da Ntonicchio.
Dopo brevissima riflessione escluse decisamente
il no perché capì che dopo la negazione le cose
sarebbero rimaste come prima. Essi, anzi,
avrebbero avuto la seccatura di inventare
qualcosa che calmasse la donna e le restituisse
la traballante serenità.
Si rizzò nel busto, guadagnò ancora qualche
attimo per un'ennesima soffiata del naso, ripose
in tasca il fazzoletto e, volgendosi alla donna
che lo fissava con gli occhi spiritati e
immobili come una statua, trovò la formulazione
adatta alle attese di Ntonicchio:
- «Eh! per forza!» sentenziò allargando le
braccia.
Tanto bastò perché quella, mettendosi le mani
nei capelli, co-minciasse a urlare:
- «Mamma mia, chi ffu? chi succediu? Dicitimi».
- «Cos'è pocu, non vi spaventati» cercava di
rincuorarla Ntonicchio.
- «Stativi carma ca tuttu s'aggiusta» (Statevi
calma che tutto si aggiusta) mormorava di
rincalzo don Ferdinandeju.
- «Ma quale s'aggiusta e s'aggiusta. Dicitimi
subbitu subbitu chi succediu prima mi mi veni n'assimpicu»
(Ditemi immediatamente cos'è accaduto prima che
mi venga una sincope) in-sisteva la donna con le
braccia minacciose in avanti.
Ntonicchio prese il toro per le corna, come si
dice e, senza dare peso all'atteggiamento
aggressivo di lei, trovò il coraggio di dire:
- «'A casa. Pigghiò focu 'a casa. Ora però 'u
stannu stutandu» (La casa. Ha preso fuoco la
casa. Ora però lo stanno spegnendo).
- «'A casa?» urlò quella con quanta voce avesse
in gola. «Mali per mia! Si brusciau 'a casa!»
(Oh poveretta me! Si è bruciata la casa ! ) e,
abbandonato il paniere al suo destino, scappò
verso il paese come una furia strappandosi i
capelli dalla disperazione.
L'annuncio tremendo le giunse così improvviso da
lasciarla talmente sconvolta che non ebbe il
tempo o l'accortezza di sof-fermarsi nemmeno un
istante a meditare sulla notoria, scarsa
at-tendibilità della fonte.
Ne fu impedita anche dal pensiero che dentro
casa potessero esserci i figlioletti. E questo -
a distanza di tempo - la giustifica.
La gente di S. Anna si affacciò alle finestre e
la domanda «Cos'è successo?» corse dall'uno
all'altro senza ricevere risposta. Restava nella
mente di tutti, con la legittima, insoddisfatta
curiosità, l'immagine di quella donna stravolta
e piangente che correva verso chissà quanto
grande dolore.
Fortunatamente per lei, superate le ultime case
di S. Anna, si imbatté in un compaesano,
anch'egli proprietario di un piccolo fondo a
Terramala, che si stava recando, a cavalcioni
del suo asino, alla vigna, dove avrebbe
trascorso la notte per esser pronto l'indomani a
urgenti lavori di raschiatura dei solchi.
Era un suo vicino di casa che, le sembrò
evidente, era partito dal paese dopo le due
guardie.
Trattenne, con la corsa, anche il fiato, nel
timore che l'uomo le confermasse il disastro. Ma
quello non si sognò minimamente di queste cose,
anzi, quasi preoccupato dello stato di lei, le
chiese cosa diavolo l'avesse ridotta in quelle
condizioni.
Bastò questo per farla uscire dalla prostrazione
e poco mancò che le venisse uno svenimento.
Si sedette sul muretto che fiancheggia la
strada, tirò un so-spiro profondo e si sentì
sollevata.
- «Nenti, nenti» farfugliò con sguardo e voce
riconoscente all'uomo «m'avia venuto 'nu bruttu
penzeri». (M'era venuto un brutto pensiero).
- «Chi gghiti pensandu..» (Cosa andate
pensando...) rispose quello ripartendo, ignaro
del piccolo dramma al quale, senza saperlo,
aveva posto fine con il solo silenzio.
La donna di lì a poco riprese il cammino verso
casa, senza l'affanno di prima e, con la
ritrovata serenità, ebbe modo di riflettere
sull'accaduto.
Ripensò alle guardie, ai colpi di tosse
innaturali e sospetti, all'ostentata, inconsueta
sollecitudine di Ntonicchio col capo ricurvo
verso il finto sofferente, e finalmente il
dubbio che si fosse trattato di una burla, di un
tiro di pessimo gusto, irruppe nella sua mente
con tutta la carica beffarda.
Era quasi sul punto di tornare dai due ma se ne
trattenne. Un altro dubbio ora si accavallò al
primo.
Se fra le guardie e l'uomo diretto a Terramala
fosse stato pro-prio questo a partire per primo
dal paese perché attardatosi, com'era del resto
nelle sue abitudini, in qualche osteria?.
Nell'incertezza scelse di procedere a passo
spedito per ren-dersi conto al più presto e di
persona di come stessero effettivamente le cose.
Incrociò il calesse del fornaio e questi, altro
che un cenno di saluto col capo, nulla le disse.
Alle prime case, quando la strada concede una
discreta vista sul paese, guardò verso il cielo
ma non vide fumi d'incendio.
Ora era fra le case e nessuno, di quanti
incontrò, si rivolse a lei con parole diverse
dal saluto o con gesti e sguardi - verso i quali
era attentissima - che potessero tradire
significati sospetti. Nulla.
Il sole era ormai dietro la collina e inondava
di luce viola l'anfiteatro delle montagne
lontane. In paese cominciava a imbrunire. Ormai
era sicurissima della beffa.
Nella discesa, dopo la pescheria, da dove si
potevano vedere le tegole sonnecchianti dei
tetti di molte case, fra le quali anche la sua,
essa si sciolse in un pianto dirotto di felicità
e corse verso una stradetta nascosta fra due
file di case per non farsi notare. Poi si
asciugò, volse lo sguardo verso la chiesa di S.
Giovanni e, con rapido andare, raggiunse e varcò
il portoncino di casa.
Toccò più volte il muro, quasi per accertarsi di
qualcosa, del calore, del possesso ritrovato,
mentre impegnava le residue energie per portarsi
al piano superiore dove si accasciò, disfatta,
su una sedia dietro i vetri della finestra.
Da qui scorse il marito impegnato in una partita
a carte con gli amici davanti all'osteria e i
figlioletti allegri e vocianti che rin-correvano
con altri una palla di pezza in mezzo alla
strada. Ancora una volta fu sopraffatta
dall'emozione.
E le guardie?.
- «Panza mia fatti rituni»
(1) esclamarono cinicamente
entrambi quando videro la donna scomparire fra
le case di S. Anna. Si ritrassero lesti dietro
l'ulivo per non farsi notare da sguardi
indiscreti e portarono a conclusione la loro
pesante burla che consistette - come s'è capito
- neh"appropriarsi del paniere e consumarne il
contenuto.
E lo fecero con la rapidità e la gioia maliziosa
di due bambini che abbiano sottratto la
marmellata custodita sotto chiave.
I fichi, per giunta «schiavi» e per giunta in
quel periodo dell'anno, sono una primizia e una
delizia in assoluto. Se poi si considera che
dalle nostre parti, nonostante l'abbondanza, non
c'è nessuno che non ne sia ghiotto, al punto da
rinunciare, se dovesse scegliere, a frutta
altrettanto prelibata, si può capire -se non
giustificare - quanta poca o nulla importanza i
due avessero dato alle possibili conseguenze
della loro imperdonabile trovata.
E tuttavia, da fini conoscitori dell'animo
umano, essi sapevano perfettamente, per lunga
milizia in questo genere di burle, che l'immensa
felicità di constatare il contrario supera
abbondantemente il dolore originario e
l'abbattimento per un evento drammatico che
erroneamente abbiamo creduto ineluttabile o che
ci abbia soltanto sfiorati.
Forti di questa persuasione, puntavano poi, come
fecero in questa circostanza, sui benefici
effetti dello scorrere del tempo. Così, per
lungo volgere di giorni e settimane, se ne
stettero alla larga dalla donna, dai suoi
familiari e dalla sua casa.
Occorre comunque aggiungere, per dovere di
completezza, un ultimo dettaglio.
Finito il banchetto, coprirono le bucce con le
stesse foglie che prima riparavano i fichi e vi
gettarono sopra delle manciate di terra. Poi
presero il paniere e lo consegnarono allo stesso
uomo diretto a Terramala, sopraggiunto nel
frattempo, perché lo appendesse al muro del
casale di proprietà della malcapitata.
Firmarono così - non si sa se con maggiore
ingenuità o incoscienza - la paternità
dell'accaduto, con la delicata preoccupazione
finale di non aggiungere il danno alla beffa
crudele.
(1)
«Rituni» in gergo è una grande rete di spago
usata per il trasporto di paglia o fieno che,
una volta riempita, assume enorme forma sferica.
Le guardie
municipali
L'alluce valgo
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