Cinquant'anni suonati
da un pezzo, compare Gianni era un
contadino pieno di doveri. Non c'era
persona in paese che non lo rispettasse
o non gli volesse un gran bene. Se
riceveva un piccolo favore, lo
ricambiava quintuplicato, spesse volte
in natura. Era quello che si dice un
uomo buono e semplice. Troppo semplice,
come si vedrà.
Possedeva un bel fondo in collina, zona
fertile, dal quale ricavava il
necessario non soltanto per vivere bene,
ma anche per mettere da parte un
gruzzolo per quando sarebbe stato
vecchio e inabile. La moglie lo aiutava
nei lavori e l'unico figlio, sposato
fuori paese, veniva da loro ogni volta
che la nuora si trovava a corto di
cibarie.
In America, dov'era stato in gioventù,
ebbe modo di assimilare una certa
razionalità d'insieme che mise a
profitto nella coltivazione
delsuo fondo. Così, suddivise il terreno
in base alle colture, alternandole con
gli anni e le stagioni, selezionò
sementi e concimi, destinò una piccola
parte a vigna e usò perfino attrezzi
portati da oltreoceano, che amava in
modo particolare perché gli ricordavano
la giovinezza.
In zona sopravento, per non sentirne il
lezzo, costruì una staccionata quadrata
nella quale ogni anno allevava un
maiale, che si era curato di scegliere
personalmente, ancora piccolino,
all'annuale fiera di Santo Bruno. Lo
nutriva con tante ghiande e granoturco e
beveroni di patate, mele e crusca che,
verso Natale, quando giungeva il momento
della macellazione, toccava un peso
vicino al quintale e, quello che più
contava, le sue carni risultavano, per
universale ammissione,
straordinariamente prelibate.
Di ciò compare Gianni andava
meritatamente orgoglioso e quanti,
durante l'anno, lo avessero gratificato
di qualche attenzione o favore,
avrebbero immancabilmente ricevuto un
assaggio di queste delicatezze.
La macellazione, che avveniva nel
cortile della sua stessa casa, era
operazione complessa e truculenta
insieme, da compiersi con l'aiuto di
almeno tre uomini robusti, uno dei
quali, di norma, era il figlio.
Il maiale, legato per le quattro zampe
fra grugniti altissimi e laceranti di
rabbia e ferocia, e scossoni poderosi,
nel tentativo di sfuggire alla fine
imminente, veniva adagiato su una lunga
panca col capo sporgente verso un
secchio posto sul pavimento.
Una lama lunga e affilatissima gli
bucava la gola fino a raggiungere il
cuore e da quello squarcio sgorgava
copioso il sangue che fluiva nel
secchio, gorgogliando schiumoso come se
bollisse. Una scena, per i non avvezzi,
impressionante.
Spruzzi e gocce di sangue si spargevano
dappertutto, sul pavimento, sulle
scarpe, sui camicioni, fino a
trasformare in rosso vivo tutto ciò che
c'era nel raggio di due tre metri.
Gli uomini dovevano fare appello al
massimo sforzo per tenere ferma la
bestia che si dibatteva disperatamente
negli ultimi spasimi.
Quando sopraggiungeva la fine, per prima
cosa veniva recuperato il secchio del
sangue per farne sanguinaccio.
Sul corpo dell'animale veniva rovesciata
abbondante quantità di acqua bollente
per facilitare l'opera di raschiatura
dei peli e, alla fine, quando la pelle
era ben pulita, di un rosa carnacino, la
bestia veniva issata per le zampe
posteriori a due sostegni di ferro
infissi nel muro.
Da qui si cominciava con l'apertura del
ventre e poi con la pulizia e la
demolizione dei vari pezzi e la
successiva concia, fino ai salami, alle
soppressate, alle salsicce e ai
ciccioli. Tranne le ossa, ben poco -
come si sa - va perduto di un maiale,
nemmeno i peli, con i quali si fanno -
o, un tempo, si facevano - ottime
spazzole e pennelli da barba.
Di tutto questo ben di Dio compare
Gianni tratteneva sol-tanto una parte,
quella che giudicava sufficiente per sè
e la moglie. Il resto finiva per metà in
casa del figlio e per metà ripartito fra
le famiglie del paese con le quali si
sentiva - come s'è detto - per qualche
verso riconoscente.
Non è da escludere tuttavia che questa
generosità verso terzi, elevata alla
dignità di un rituale, egli abbia
coltivato per ac-creditare, alimentare e
aumentare la fama di provetto
allevatore. Che può essere, anche questo
non è da escludere, una delle tante
manifestazioni esteriori con le quali
voleva distinguersi dagli altri,
collocarsi insomma su un piano più
elevato, per contrapporsi e bilanciare
talune condizioni di inferiorità
avvertite nell'intimo.
A parte queste considerazioni, bisogna
riconoscere che non erano pochi coloro i
quali aspettavano siffatta ghiotta
occasione per rifarsi il palato.
Fra questi le guardie.
Accadde invece, in occasione dell'ultimo
Natale, che compare Gianni si
dimenticasse delle guardie. A distanza
di tempo non si sa se fu per mera
negligenza o per voluta dimenticanza.
I due propendettero per la seconda
ipotesi e, in assenza di altri
giustificabili motivi, ne attribuirono
il movente a una multa di pochi soldi
che, durante l'estate, dovettero
appioppare di malavoglia al figlio di
lui per un'infrazione commessa proprio
sotto gli occhi del maresciallo dei
carabinieri. Ne andava della loro
credibilità di guardie.
Fatto sta che ora meditarono di
vendicarsi dello sgarbo e lo fecero con
la determinazione che la circostanza
richiedeva e con la sfrontata
incoscienza di cui erano maestri.
La gente si preparava a festeggiare
l'arrivo del nuovo anno.
II tempo era quello tipico delle nostre
parti a fine dicembre:
non faceva granché freddo e nel cielo
correvano nuvoloni bianchissimi fra i
quali, come in un gigantesco
caleidoscopio, si aprivano e
scomparivano larghi squarci di
intensissimo azzurro.
Si avviarono col solito passo verso la
collina dove era la casa di compare
Gianni e, in breve tempo, poterono
scorgerla da lontano. Si accertarono che
non vi fossero altre persone lì attorno
e procedettero sicuri fin quasi
all'ingresso, a fianco del quale un
maestoso ibisco dalle foglie larghe e
lucide esibiva ancora qualche tenace
fiore rosso a calice dai lunghi stami
giallastri.
Qui si dovettero fermare per via di un
cane che ringhiava minaccioso, senza
abbaiare.
Compare Gianni udì e comparve sul
portoncino con un sorriso che voleva
essere accattivante ma che risultò di
circostanza.
- «Buongiorno, buongiorno. Quale onore!»
disse loro scostandosi e allargando un
braccio verso l'interno in segno
d'invito ad accomodarsi in casa.
I due risposero al saluto senza le
solite cerimonie e si introdussero nella
saletta. Seppero che la moglie si era
recata dalla figlia che era in avanzato
stato di gravidanza e interpretarono la
notizia come buona premessa per la
riuscita del loro piano.
Compare Gianni capì subito che i due non
erano dell'umore consueto, cioè
amichevole e allegro, e ne ebbe
immediata conferma quando quelli, cavate
di tasca le munizioni, che erano poi gli
occhiali, il lapis e un foglio di carta,
gli dissero uno dopo l'altro:
- «Avim'a ffari 'u verbali» (Dobbiamo
fare il verbale).
- «Si, 'u verbali».
Ora, si deve sapere che a quei tempi e
da quelle parti la parola «verbale» non
aveva il significato che in effetti
dovrebbe avere, di presa d'atto, di
dichiarazione sottoscritta, di rapporto,
di resoconto o di testimonianza.
Essa, nella credulità dei più, e quindi
anche di compare Gianni, assumeva il
valore di vera e propria constatazione
d'inadempienza, di trasgressione, di
violazione di qualche articolo di legge,
insomma di una sentenza definitiva che
obbligava a un risarcimento immediato in
denaro. In mancanza di che, si sarebbe
dovuto poi fare la causa, pagare
avvocati e affrontare l'alea di un
processo nelle aule giudiziarie.
Insomma, una vera e propria jattura.
I due fecero astutamente leva su questa
diffusa convinzione e, senza dargli il
tempo di fare domande, aggiunsero con
tono severo:
- «Cacciativi scarp'e cazetti e
mostràtindi i pedi 'a nuda» (Toglietevi
scarpe e calze e mostrateci i piedi
nudi).
Si può immaginare a questo punto lo
stato d'animo di compare Gianni. La sua
pulizia interiore, una vita di lavoro e
di onestà, la consapevolezza di essere
sempre stato estraneo a qualsiasi fatto
che avesse rilevanza per la giustizia,
il suo naturale pudore, ricevettero uno
scossone che gli parve di non poter
sopportare. Ebbe un sussulto e pensò
anche di alzarsi dalla sedia per
protestare. Ma prevalsero la prudenza e
la naturale bonomia. Si riprese subito e
con tono conciliante chiese:
- «Ma perchì v'aju a mostrari i garruni?»
(Ma perché vi debbo mostrare i piedi?).
- «Stamu facendu accertamenti. Avanti,
movitivi!» fu la risposta immediata.
Si scostò quindi dal tavolo e si piegò
mansueto all'incom-benza. Alla fine si
rialzò sul busto, allungò le gambe e
poggiò i calcagni nudi sul pavimento.
I due si girarono per guardare con
simulata attenzione, ma compare Gianni
non riusciva ancora a capire, come del
resto nessuno al suo posto avrebbe
potuto.
Poi Ntonicchio cominciò a dettare
all'altro il cognome, il nome, la
paternità, la maternità, l'anno di
nascita e quant'altro servisse del
malcapitato per conferire solennità alla
cerimonia. Infine concluse con la frase:
- «Sestu iditu sulu 'o pedi destra»
(Sesto dito solamente al piede destro).
Firmarono entrambi e pretesero che anche
quello firmasse.
Don Ferdinandeju ripose la carta nel
portafogli, raccolse il lapis, ricoverò
gli occhiali ed entrambi fecero l'atto
di alzarsi per uscire.
Compare Gianni non sapeva di avere un
sesto dito al piede destro. Tanto meno
che per questo si dovesse fare un
verbale. Sapeva soltanto che in passato
aveva sofferto di una malformazione
ossea che poi si era come incallita e
ora non gli dava più fastidio.
Malformazione che i medici chiamano, ma
compare Gianni non lo sapeva, alluce
valgo.
- «Chi mmi succedi ora cu ssù verbali?»
(Cosa mi succederà ora con codesto
verbale?) domandò in ansia.
- «Vi mentinu 'a rrolu e aviti a pagari
'na tassa» (Vi metteranno a ruolo e
dovrete pagare una tassa) rispose don
Ferdinandeju.
- «'Na tassa? N'atra tassa? Ma comu, no
bastanu quantu ndi pagamu?» (Una tassa?
Un'altra tassa? Ma come, non bastano
quelle che già paghiamo?) si sfogò
compare Gianni.
- «Si capisci ca no bastanu» commentò
secco Ntonicchio facendo il verso di
alzarsi per uscire.
- «Aspettati cca', non vi ndi iti»
(Aspettate qui, non ve ne andate) disse
compare Gianni aprendo la credenza e
afferrando una bottiglia di vino.
- «No, no, non vi disturbati» tagliò
corto don Ferdinandeju in tono quasi
sprezzante.
- «Ma sentiti 'nu pocu. Non si poti fari
nenti pe' sta carta beniditta? Non ndi
potimu mentiri d'accordu?» (Ma sentite
un momento. Non si può fare niente per
questa benedetta carta?). E qui simulò
il gesto di stracciarla a pezzetti.(Non
possiamo metterci d'accordo?) concluse.
La vicenda ora prendeva l'esatta piega
del copione e i due cambiarono
atteggiamento e solfa.
Un lieve impercettibile sorriso cedette
alla sorniona indifferenza delle loro
facce. Si guardarono per concordare
tacitamente, com'era nelle loro
collaudatissime abitudini, la risposta
da dare e allargarono le braccia in un
gesto che si prestava a qualsivolesse
interpretazione.
Compare Gianni si sentì incoraggiato
dall'ambiguità e decifrò il messaggio
nel verso che all'istante gli faceva più
comodo.
- «Aspettati cca'» disse e scomparve
dietro la porta che, attraverso una
breve scaletta, metteva direttamente in
cantina.
Ne tornò di lì a poco con un fagotto e
lo consegnò a Ntonicchio aggiungendo:
- «Spartitivilli e sapitim'a ddiri comu
sunnu» (Divideteveli e sappiatemi dire
dopo come li avete trovati).
Preso il fagotto, Ntonicchio, temendo
che le parole di compare Gianni
potessero riferirsi a cibarie d'altro
tipo, lo tastò e ne desunse con
sicurezza il contenuto: salsicce e
soppressate.
Don Ferdinandeju aspettava lumi
dall'altro e, quando sentì dire «Ora ndi
ndi imu e vidimu chi ssi poti fari» (Ora
ce ne andiamo e vedremo quello che si
potrà fare) ebbe la certezza che lo
scopo era stato raggiunto in pieno.
Dirigendosi verso la porta, cercò la
carta, salutò e uscì con l'altro.
A debita distanza il cane, facendosi
inconsciamente interprete dei sentimenti
ostili del padrone, li salutò a modo
suo, con minacciosi e laceranti latrati.
Prima del cancello di legno, in fondo
alla stradetta d'ingresso, don
Ferdinandeju ridusse in mille pezzetti
il falso documento e lanciò per aria i
coriandoli che ricaddero leggeri come
fiocchi di neve, dietro i quali i due
scomparvero negli ulivi.
Imbruniva e nel cielo non v'erano più
tracce d'azzurro; una coltre di nuvole
grigio-sporco incombeva, a guisa di
enorme coperchio che stesse per
chiudersi, sull'immensa vallata.
Laggiù, ai bordi, resisteva ancora
un'esile nastro di luce
giallo-arancione. Si alzò un po' di
vento e cominciò a cadere qualche goccia
di pioggia. Cadde anche l'ultimo fiore
di ibisco che rotolò fra i ciottoli come
una trottola agli ultimi giri.
Sotto l'arco del portoncino di casa,
compare Gianni guardò verso i due, senza
vederli, finché non scomparvero. Poco
dopo rientrò la moglie e lo sorprese
così, con lo sguardo fisso verso gli
ulivi. Non fece domande perché non le
riuscì di capire se il marito fosse più
attonito o stupefatto, più compiaciuto o
addolorato, più indispettito o appagato,
più presente o assente.
Egli era lontano col pensiero,
lontanissimo. Si rivide d'un tratto,
poco meno che diciottenne, intento a
lavare piatti nelle cucine di un
ristorante nel cuore di Manhattan.
L'incendio
'U caminalòru
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