LE GUARDIE MUNICIPALI  da CARMELA CUDA di Lorenzo Milanesi (Rubbettino Editore)

L'alluce valgo

Cinquant'anni suonati da un pezzo, compare Gianni era un contadino pieno di doveri. Non c'era persona in paese che non lo rispettasse o non gli volesse un gran bene. Se riceveva un piccolo favore, lo ricambiava quintuplicato, spesse volte in natura. Era quello che si dice un uomo buono e semplice. Troppo semplice, come si vedrà.
Possedeva un bel fondo in collina, zona fertile, dal quale ricavava il necessario non soltanto per vivere bene, ma anche per mettere da parte un gruzzolo per quando sarebbe stato vecchio e inabile. La moglie lo aiutava nei lavori e l'unico figlio, sposato fuori paese, veniva da loro ogni volta che la nuora si trovava a corto di cibarie.
In America, dov'era stato in gioventù, ebbe modo di assimilare una certa razionalità d'insieme che mise a profitto nella coltivazione delsuo fondo. Così, suddivise il terreno in base alle colture, alternandole con gli anni e le stagioni, selezionò sementi e concimi, destinò una piccola parte a vigna e usò perfino attrezzi portati da oltreoceano, che amava in modo particolare perché gli ricordavano la giovinezza.
In zona sopravento, per non sentirne il lezzo, costruì una staccionata quadrata nella quale ogni anno allevava un maiale, che si era curato di scegliere personalmente, ancora piccolino, all'annuale fiera di Santo Bruno. Lo nutriva con tante ghiande e granoturco e beveroni di patate, mele e crusca che, verso Natale, quando giungeva il momento della macellazione, toccava un peso vicino al quintale e, quello che più contava, le sue carni risultavano, per universale ammissione, straordinariamente prelibate.
Di ciò compare Gianni andava meritatamente orgoglioso e quanti, durante l'anno, lo avessero gratificato di qualche attenzione o favore, avrebbero immancabilmente ricevuto un assaggio di queste delicatezze.
La macellazione, che avveniva nel cortile della sua stessa casa, era operazione complessa e truculenta insieme, da compiersi con l'aiuto di almeno tre uomini robusti, uno dei quali, di norma, era il figlio.
Il maiale, legato per le quattro zampe fra grugniti altissimi e laceranti di rabbia e ferocia, e scossoni poderosi, nel tentativo di sfuggire alla fine imminente, veniva adagiato su una lunga panca col capo sporgente verso un secchio posto sul pavimento.
Una lama lunga e affilatissima gli bucava la gola fino a raggiungere il cuore e da quello squarcio sgorgava copioso il sangue che fluiva nel secchio, gorgogliando schiumoso come se bollisse. Una scena, per i non avvezzi, impressionante.
Spruzzi e gocce di sangue si spargevano dappertutto, sul pavimento, sulle scarpe, sui camicioni, fino a trasformare in rosso vivo tutto ciò che c'era nel raggio di due tre metri.
Gli uomini dovevano fare appello al massimo sforzo per tenere ferma la bestia che si dibatteva disperatamente negli ultimi spasimi.
Quando sopraggiungeva la fine, per prima cosa veniva recuperato il secchio del sangue per farne sanguinaccio.
Sul corpo dell'animale veniva rovesciata abbondante quantità di acqua bollente per facilitare l'opera di raschiatura dei peli e, alla fine, quando la pelle era ben pulita, di un rosa carnacino, la bestia veniva issata per le zampe posteriori a due sostegni di ferro infissi nel muro.
Da qui si cominciava con l'apertura del ventre e poi con la pulizia e la demolizione dei vari pezzi e la successiva concia, fino ai salami, alle soppressate, alle salsicce e ai ciccioli. Tranne le ossa, ben poco - come si sa - va perduto di un maiale, nemmeno i peli, con i quali si fanno - o, un tempo, si facevano - ottime spazzole e pennelli da barba.
Di tutto questo ben di Dio compare Gianni tratteneva sol-tanto una parte, quella che giudicava sufficiente per sè e la moglie. Il resto finiva per metà in casa del figlio e per metà ripartito fra le famiglie del paese con le quali si sentiva - come s'è detto - per qualche verso riconoscente.
Non è da escludere tuttavia che questa generosità verso terzi, elevata alla dignità di un rituale, egli abbia coltivato per ac-creditare, alimentare e aumentare la fama di provetto allevatore. Che può essere, anche questo non è da escludere, una delle tante manifestazioni esteriori con le quali voleva distinguersi dagli altri, collocarsi insomma su un piano più elevato, per contrapporsi e bilanciare talune condizioni di inferiorità avvertite nell'intimo.
A parte queste considerazioni, bisogna riconoscere che non erano pochi coloro i quali aspettavano siffatta ghiotta occasione per rifarsi il palato.
Fra questi le guardie.
Accadde invece, in occasione dell'ultimo Natale, che compare Gianni si dimenticasse delle guardie. A distanza di tempo non si sa se fu per mera negligenza o per voluta dimenticanza.
I due propendettero per la seconda ipotesi e, in assenza di altri giustificabili motivi, ne attribuirono il movente a una multa di pochi soldi che, durante l'estate, dovettero appioppare di malavoglia al figlio di lui per un'infrazione commessa proprio sotto gli occhi del maresciallo dei carabinieri. Ne andava della loro credibilità di guardie.
Fatto sta che ora meditarono di vendicarsi dello sgarbo e lo fecero con la determinazione che la circostanza richiedeva e con la sfrontata incoscienza di cui erano maestri.
La gente si preparava a festeggiare l'arrivo del nuovo anno.
II tempo era quello tipico delle nostre parti a fine dicembre:
non faceva granché freddo e nel cielo correvano nuvoloni bianchissimi fra i quali, come in un gigantesco caleidoscopio, si aprivano e scomparivano larghi squarci di intensissimo azzurro.
Si avviarono col solito passo verso la collina dove era la casa di compare Gianni e, in breve tempo, poterono scorgerla da lontano. Si accertarono che non vi fossero altre persone lì attorno e procedettero sicuri fin quasi all'ingresso, a fianco del quale un maestoso ibisco dalle foglie larghe e lucide esibiva ancora qualche tenace fiore rosso a calice dai lunghi stami giallastri.
Qui si dovettero fermare per via di un cane che ringhiava minaccioso, senza abbaiare.
Compare Gianni udì e comparve sul portoncino con un sorriso che voleva essere accattivante ma che risultò di circostanza.
- «Buongiorno, buongiorno. Quale onore!» disse loro scostandosi e allargando un braccio verso l'interno in segno d'invito ad accomodarsi in casa.
I due risposero al saluto senza le solite cerimonie e si introdussero nella saletta. Seppero che la moglie si era recata dalla figlia che era in avanzato stato di gravidanza e interpretarono la notizia come buona premessa per la riuscita del loro piano.
Compare Gianni capì subito che i due non erano dell'umore consueto, cioè amichevole e allegro, e ne ebbe immediata conferma quando quelli, cavate di tasca le munizioni, che erano poi gli occhiali, il lapis e un foglio di carta, gli dissero uno dopo l'altro:
- «Avim'a ffari 'u verbali» (Dobbiamo fare il verbale).
- «Si, 'u verbali».
Ora, si deve sapere che a quei tempi e da quelle parti la parola «verbale» non aveva il significato che in effetti dovrebbe avere, di presa d'atto, di dichiarazione sottoscritta, di rapporto, di resoconto o di testimonianza.
Essa, nella credulità dei più, e quindi anche di compare Gianni, assumeva il valore di vera e propria constatazione d'inadempienza, di trasgressione, di violazione di qualche articolo di legge, insomma di una sentenza definitiva che obbligava a un risarcimento immediato in denaro. In mancanza di che, si sarebbe dovuto poi fare la causa, pagare avvocati e affrontare l'alea di un processo nelle aule giudiziarie.
Insomma, una vera e propria jattura.
I due fecero astutamente leva su questa diffusa convinzione e, senza dargli il tempo di fare domande, aggiunsero con tono severo:
- «Cacciativi scarp'e cazetti e mostràtindi i pedi 'a nuda» (Toglietevi scarpe e calze e mostrateci i piedi nudi).
Si può immaginare a questo punto lo stato d'animo di compare Gianni. La sua pulizia interiore, una vita di lavoro e di onestà, la consapevolezza di essere sempre stato estraneo a qualsiasi fatto che avesse rilevanza per la giustizia, il suo naturale pudore, ricevettero uno scossone che gli parve di non poter sopportare. Ebbe un sussulto e pensò anche di alzarsi dalla sedia per protestare. Ma prevalsero la prudenza e la naturale bonomia. Si riprese subito e con tono conciliante chiese:
- «Ma perchì v'aju a mostrari i garruni?» (Ma perché vi debbo mostrare i piedi?).
- «Stamu facendu accertamenti. Avanti, movitivi!» fu la risposta immediata.
Si scostò quindi dal tavolo e si piegò mansueto all'incom-benza. Alla fine si rialzò sul busto, allungò le gambe e poggiò i calcagni nudi sul pavimento.
I due si girarono per guardare con simulata attenzione, ma compare Gianni non riusciva ancora a capire, come del resto nessuno al suo posto avrebbe potuto.
Poi Ntonicchio cominciò a dettare all'altro il cognome, il nome, la paternità, la maternità, l'anno di nascita e quant'altro servisse del malcapitato per conferire solennità alla cerimonia. Infine concluse con la frase:
- «Sestu iditu sulu 'o pedi destra» (Sesto dito solamente al piede destro).
Firmarono entrambi e pretesero che anche quello firmasse.
Don Ferdinandeju ripose la carta nel portafogli, raccolse il lapis, ricoverò gli occhiali ed entrambi fecero l'atto di alzarsi per uscire.
Compare Gianni non sapeva di avere un sesto dito al piede destro. Tanto meno che per questo si dovesse fare un verbale. Sapeva soltanto che in passato aveva sofferto di una malformazione ossea che poi si era come incallita e ora non gli dava più fastidio.
Malformazione che i medici chiamano, ma compare Gianni non lo sapeva, alluce valgo.
- «Chi mmi succedi ora cu ssù verbali?» (Cosa mi succederà ora con codesto verbale?) domandò in ansia.
- «Vi mentinu 'a rrolu e aviti a pagari 'na tassa» (Vi metteranno a ruolo e dovrete pagare una tassa) rispose don Ferdinandeju.
- «'Na tassa? N'atra tassa? Ma comu, no bastanu quantu ndi pagamu?» (Una tassa? Un'altra tassa? Ma come, non bastano quelle che già paghiamo?) si sfogò compare Gianni.
- «Si capisci ca no bastanu» commentò secco Ntonicchio facendo il verso di alzarsi per uscire.
- «Aspettati cca', non vi ndi iti» (Aspettate qui, non ve ne andate) disse compare Gianni aprendo la credenza e afferrando una bottiglia di vino.
- «No, no, non vi disturbati» tagliò corto don Ferdinandeju in tono quasi sprezzante.
- «Ma sentiti 'nu pocu. Non si poti fari nenti pe' sta carta beniditta? Non ndi potimu mentiri d'accordu?» (Ma sentite un momento. Non si può fare niente per questa benedetta carta?). E qui simulò il gesto di stracciarla a pezzetti.(Non possiamo metterci d'accordo?) concluse.
La vicenda ora prendeva l'esatta piega del copione e i due cambiarono atteggiamento e solfa.
Un lieve impercettibile sorriso cedette alla sorniona indifferenza delle loro facce. Si guardarono per concordare tacitamente, com'era nelle loro collaudatissime abitudini, la risposta da dare e allargarono le braccia in un gesto che si prestava a qualsivolesse interpretazione.
Compare Gianni si sentì incoraggiato dall'ambiguità e decifrò il messaggio nel verso che all'istante gli faceva più comodo.
- «Aspettati cca'» disse e scomparve dietro la porta che, attraverso una breve scaletta, metteva direttamente in cantina.
Ne tornò di lì a poco con un fagotto e lo consegnò a Ntonicchio aggiungendo:
- «Spartitivilli e sapitim'a ddiri comu sunnu» (Divideteveli e sappiatemi dire dopo come li avete trovati).
Preso il fagotto, Ntonicchio, temendo che le parole di compare Gianni potessero riferirsi a cibarie d'altro tipo, lo tastò e ne desunse con sicurezza il contenuto: salsicce e soppressate.
Don Ferdinandeju aspettava lumi dall'altro e, quando sentì dire «Ora ndi ndi imu e vidimu chi ssi poti fari» (Ora ce ne andiamo e vedremo quello che si potrà fare) ebbe la certezza che lo scopo era stato raggiunto in pieno.
Dirigendosi verso la porta, cercò la carta, salutò e uscì con l'altro.
A debita distanza il cane, facendosi inconsciamente interprete dei sentimenti ostili del padrone, li salutò a modo suo, con minacciosi e laceranti latrati.
Prima del cancello di legno, in fondo alla stradetta d'ingresso, don Ferdinandeju ridusse in mille pezzetti il falso documento e lanciò per aria i coriandoli che ricaddero leggeri come fiocchi di neve, dietro i quali i due scomparvero negli ulivi.
Imbruniva e nel cielo non v'erano più tracce d'azzurro; una coltre di nuvole grigio-sporco incombeva, a guisa di enorme coperchio che stesse per chiudersi, sull'immensa vallata.
Laggiù, ai bordi, resisteva ancora un'esile nastro di luce giallo-arancione. Si alzò un po' di vento e cominciò a cadere qualche goccia di pioggia. Cadde anche l'ultimo fiore di ibisco che rotolò fra i ciottoli come una trottola agli ultimi giri.
Sotto l'arco del portoncino di casa, compare Gianni guardò verso i due, senza vederli, finché non scomparvero. Poco dopo rientrò la moglie e lo sorprese così, con lo sguardo fisso verso gli ulivi. Non fece domande perché non le riuscì di capire se il marito fosse più attonito o stupefatto, più compiaciuto o addolorato, più indispettito o appagato, più presente o assente.
Egli era lontano col pensiero, lontanissimo. Si rivide d'un tratto, poco meno che diciottenne, intento a lavare piatti nelle cucine di un ristorante nel cuore di Manhattan.

L'incendio                              'U caminalòru