I tempi sono
quelli che precedettero la
conflagrazione mon-diale scoppiata nel
1939.1 ritmi in paese erano scanditi dal
passo degli asini e dei muli che erano
gli unici mezzi di trasporto per le
attività agricole, prevalentemente
olearie. C'era, è vero, anche qualche
capo bovino, ma apparteneva a una sola
famiglia che se ne serviva per le
medesime necessità campestri. Qualcuno
di tanto in tanto finiva al macello.
Le uniche due automobili, una mi pare
fosse un'austera Lancia Agusta, erano di
proprietà dei due signorotti locali che
le utilizzavano d'inverno per recarsi
nei feudi a presenziare ai lavori di
estrazione dell'olio nei loro frantoi e
d'estate sovente per diporto o per
sporadici sopralluoghi nei loro
tenimenti.
Il Comune disponeva di due guardie. Una
era identificata col nomignolo di
Ntonicchio, l'altra con quello di don
Ferdinandeju.
Non avevano una vera e propria divisa,
forse perché il Comune non poteva
permettersi tanto lusso, sicché l'unico
simbolo che
testimoniasse della loro autorità era un
rigido cappello di panno nero,
contornato da un cordoncino rosso, con
visiera di cuoio che un tempo era stata
anche lucida.
Ntonicchio, di statura poco sotto al
normale, di corporatura sul robusto, era
per sua natura un ottimista allegro. Il
suo carat-tere lo portava ad essere
sempre pronto alle battute di spirito,
allo scherzo e perfino ai tiri mancini.
Si può dire, anzi, che li andasse a
cercare. Dietro ai suoi lunghi baffi e
nel suo sguardo mite si celava in
permanenza un mezzo sorriso sornione dal
quale non ti riusciva di capire se
stesse pensandone qualcuna delle sue o
se aspettasse di godersi l'effetto di
qualcun'altra già avviata.
Questo aspetto aveva - ricordo bene - un
giorno che si pre-sentò davanti a casa
mia e si sedette su una delle sedie che
mio padre aveva l'abitudine di allineare
in strada contro il muro, fra le due
porte d'ingresso della nostra casa, come
tacito invito agli amici che amavano
trattenersi per due chiacchiere sul più
e sul meno.
Portava sempre con sé un bastone col
manico che, una volta seduto, collocò
fra le gambe incrociate e vi appoggiò
entrambe le mani facendovi calare di
tanto in tanto il mento, quasi a volersi
concedere qualche minuto di sonno.
Che sonno poi, nella circostanza, non
fu, ma agguato premeditato forse fin
dalla mattinata, quando cioè vide zia
Cuda alle prese col vicino macellaio per
l'acquisto di un pezzo di ottima carne
da fare ragù.
La nostra impressione, che lui cioè si
volesse riposare come faceva di solito,
si rivelò fallace.
Egli era lì per una delle sue. Si
collocò difatti sottovento ad annusare
l'aria per avere conferma che nella
pentola di terracotta, collocata sopra
un trespolo nel braciere davanti
all'altra porta, stesse cuocendo il
manicaretto. Quando ne ebbe certezza,
alzò il capo e si guardò attorno.
Consultò l'orologio e arguì dall'ora che
il ragù era giunto a cottura.
Ripose l'orologio nel panciotto, reclinò
il capo sulle mani appoggiate al manico
del bastone e attese pazientemente,
osten-tando un'angelica innocenza, che
qualche anima buona arrivasse a
distrarre la zia la quale, lui lo sapeva
bene, aveva fama non solo di donna che
non si lasciava prendere facilmente per
il naso, ma anche di persona sospettosa
e insofferente delle burle.
L'anima buona arrivò e non fece in tempo
a concludere nemmeno i convenevoli con
la zia che Ntonicchio, cavato di tasca
un coltello a serramanico, ne estrasse
la lama e, scoperchiata la pentola,
infilzò un boccone di carne fra i più
grossi e lo mangiò allontanandosi a
passo svelto verso la fontana di
Rimatisi. Questa fontana, essendo
situata sotto il piano stradale, gli
consentì di defilarsi dopo una
cinquantina di passi.
Come abbia potuto, rovente com'era,
masticare e deglutire il boccone, resta
ancora un mistero.
Zia Cuda, distratta dalla visita, ma non
a tal punto da non udire il leggero
rumore del coperchio, sebbene riposto
con la
massima cautela, si precipitò in strada
temendo, più che il gesto furtivo,
l'intrusione di qualche animale di
passaggio. Il suo primo istinto fu di
scoperchiare la pentola. Si accorse che
tutto era in ordine tranne il numero dei
pezzi. Questa premura verso la pentola e
la pur rapida conta le impedì di
cogliere gli ultimi gesti di Ntonicchio
che le avrebbero dato certezza assoluta
sul re-sponsabile.
Quello, infatti, in un baleno richiuse e
ripose il coltello in tasca, si pulì col
dorso della mano i baffi arrossati dal
ragù e si diresse lesto verso casa,
imboccando appunto la discesa della
fon-tana e lasciando di sé,
nell'occhiata tagliente della zia,
soltanto il profilo delle spalle e del
cappello.
Tanto bastò perché zia Cuda si
rassicurasse sull'estraneità degli
animali e si convincesse che i
comportamenti di Ntonicchio erano tanto
imprevedibili e immediati da non
potersene di-fendere e, tutto
considerato, nemmeno crucciare.
Questo era l'uomo.
Don Ferdinandeju era invece l'esatto
opposto. Longilineo di corporatura e
segaligno, aveva nel viso, alquanto
piccolo rispetto all'altezza, un che di
volpino. Intelligente lo sguardo e
sempre attento a quanto succedesse
intorno, il suo era un carattere
piuttosto introverso. A volte perfino
scostante. Ma non con Ntonicchio, con il
quale, si capiva da molti segni,
compensava qualità e difetti.
Si intuiva il suo godimento per le burle
di quello, alle quali sotto sotto
partecipava, anche con suggerimenti,
senza darlo a intendere. E quanto più
Ntonicchio si manifestava buontempone,
tanto più egli amava celarsi dietro
l'immagine di persona schiva. Tentava
cioè di nascondere la mano quando, come
spesso accadeva, era stato proprio lui a
tirare il sasso, ad architettare le
marachelle che poi l'altro portava a
segno.
Questo suo modo di atteggiarsi, questo
tendere tranelli alle prede senza
esporsi, gli derivava forse dalla
dimestichezza e dall'amore sviscerato
per la caccia, che poi, con l'andare
degli anni, trasmise a piane mani - se
così si può dire - al maggiore dei suoi
figli, divenuto in paese il cacciatore
per antonomasia.
Non si sapeva da quanto tempo i due
fossero guardie titolari. A noi
adolescenti pareva da sempre. I fatti
qui narrati risalgono a quando essi
erano già avanti con l'età e
testimoniano della grande spensieratezza
di quei tempi che rappresentava la
maniera forse più indovinata, in un
piccolo mondo come il nostro paese, dove
tutti ci conoscevamo, di misurarsi con
le persone e i fatti della vita di ogni
giorno e di sorriderne.
L'attività delle guardie, se si
eccettuano i piccoli compiti di
sorveglianza dei prezzi delle merci in
vendita nelle pochissime botteghe e
qualche altro specifico ordine
sporadicamente im-partito dal podestà,
si poteva definire, né più né meno, come
un incarico di rappresentanza: era
prescritto, cioè, che il Comune dovesse
avere due guardie e due guardie aveva.
Essi comparivano al mattino alla
pescheria, si aggiravano fra i banchetti
degli ambulanti nelle poche feste del
paese e, per il resto, avevano tutto il
tempo di dedicarsi ad altro.
In questo «altro» si collocano tre
episodi, fra i tanti, che meritano di
essere trascritti.
I protagonisti, in apparenza
spregiudicati fin quasi al cinismo, si
raccomandano dall'al di là - tenuto
conto dell'epoca e del contesto - al
magnanimo giudizio del lettore.
L'incendio
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