Ogni mattina, fin da tempi remotissimi,
giungevano nel nostro paese le bagnarote
per vendere le loro mercanzie.
Queste donne, appartenenti in prevalenza
a famiglie di pescatori, partivano da
Bagnara alle primissime luci dell'alba
con una larga cesta sul capo, colma chi
di pesce, pescato nella notte, chi di
scampoli di stoffe, chi di merceria, chi
di pane integrale in pagnottoni da un
chilo, chi di suppellettili per la casa,
le più varie, purché trasportabili.
Sciamavano a gruppi, ognuno diretto a un
paese diverso dall'altro dell'interno,
affrontando la fatica e l'asperità della
collina con l'apparente disinvoltura di
chi compia uno sforzo muscolare
prolungato nel tempo, e vi è quindi
allenato, e con l'indiscusso coraggio
che il mestiere, i luoghi, le ore e i
sentieri richiedevano.
La scarsità dei mezzi di trasporto, il
prezzo competitivo delle loro mercanzie
e l'offerta «porta a porta», come oggi
si direbbe, hanno reso continuo e
stabile l'esercizio di questi minuti
commerci.
Del resto la gente dei paesi ha sempre
mostrato di gradire tali visite
giornaliere, fino al punto da
affezionarsi a queste donne, con le
quali, pur senza approdare a vere e
proprie amicizie, si instauravano
nondimeno legami duraturi di reciproco
rispetto.
Non si conoscono esattamente le antiche
origini del gruppo etnico, né le cause
che hanno dato luogo a questo
matriarcato sui generis.
Sta di fatto che queste infaticabili
lavoratrici, oltre a coprire il raggio
di una giornata lavorativa, si sono
anche spinte persino oltre i confini
della Regione, specialmente durante e
dopo l'ultima guerra, quando l'emergenza
era acuta e le merci scarse.
Nella media si tratta di donne dalla
corporatura solida, dal marcato tratto
mediterraneo, occhi e capelli neri, di
solito lunghi a treccia, non di rado
belle e avvenenti, specialmente da
giovani.
A tutto ciò va aggiunto, per esigenze
legate alla loro attività, ai pericoli
da affrontare e all'eterogeneità delle
persone con le quali entrano in
contatto, un atteggiamento deciso,
avvezzo alla trattativa e, quando il
caso, altero e perfino scontroso.
D'altra parte non si riesce a immaginare
comportamento di-verso se si considera
l'attività affatto particolare e la
circostanza che esse hanno sempre svolto
il loro lavoro in completa autonomia, in
assenza cioè dei loro uomini. Dai quali,
giocoforza, hanno dovuto mutuare la
tempra fisica, il coraggio non comune e
la grinta necessari al durissimo
mestiere.
E vi sono riuscite talmente bene che a
nessuno, dalle nostre parti, è mai
passato per la mente di recare loro
molestia alcuna.
Nei tempi andati, l'arrivo in paese, se
proprio non coincideva col mattutino
suono delle campane, ne era tuttavia
molto vicino.
E questo accadeva in ogni stagione e con
qualunque tempo.
Il gruppo si disperdeva per le strade e
i vicoli e ogni donna seguiva un
percorso abituale che molto spesso
ubbidiva a criteri di razionalità. I
quali inducevano, per prima cosa, a
consegnare al più presto la merce
commissionata nei giorni precedenti
(liberandosi del relativo peso) e a
procedere poi alla tentata vendita di
quello che rimaneva.
Il tentativo si concretizzava in due
modi:
- gridando ai crocicchi e lungo le vie e
i vicoli, con quanta più voce avessero,
le eccelse qualità della loro merce,
qualunque fosse;
- avvicinando i passanti o
raggiungendoli nelle loro case per
offrire la mercanzia a prezzi che quasi
mai rimanevano quelli di partenza.
Non di rado veniva praticato il baratto,
specialmente col nostro olio.
Col passare del tempo le cose sono
cambiate. Ora le bagnarote, quelle poche
che si ostinano nell'antica attività, si
servono di automobili e, ciò che in
passato non accadeva, si fanno aiutare
dal marito, quanto meno nella guida del
mezzo.
Tornando ai tempi andati, accadde un
giorno, di mattino presto, che
Ntonicchio - sulla via verso Deconi, da
dove scen-devano verso il paese -
vedesse, sul capo di una di loro, la
solita cesta, coperta da un panno, però
particolarmente rigonfio.
Siccome lo sforzo di reggerla non era
proporzionato al volume che la donna
recava in testa, egli si incuriosì e le
chiese perentorio:
- «Chi portati?» (Cosa state portando?).
La donna, sapendo che con le guardie
bisognava mettere da parte la
scontrosità, utile magari con altre
persone, si fermò, gra-tificandolo di un
sorriso che apparve affettato.
Una mano era posata al bordo della cesta
in alto, l'altra sul fianco. Pareva una
di quelle statue che di tanto in tanto
affiorano dagli scavi antichi.
Le altre donne proseguirono col loro
peso e i loro passi sempre uguali verso
il paese.
- «'Nu caminalòru pe' donna Mariuzza»
rispose.
Caminalòru, in gergo, è quella gabbia in
legno, larga in basso e stretta in alto,
montata su rotelle, nella quale si
introduce il bambino che impara così a
camminare. Il girello, insomma.
- «Pe' donna Mariuzza?» disse Ntonicchio
stringendo legger-mente l'occhio
sinistro e guardando per aria, nell'atto
di chi stia rincorrendo i pensieri e
voglia ricordarsi bene qualche
particolare.
Poi continuò:
- «Non c'esti. Donna Mariuzza partiu
arsirà pe' Scilla perchì sò som parturiu»
(Non c'è. Donna Mariuzza è partita ieri
sera per Scilla perché sua sorella ha
partorito).
La donna cambiò umore, anzi tornò
accigliata com'era prima d'incontrare la
guardia. Non sapeva cosa dire e cosa
fare. Fu un'esitazione di breve durata.
Portò l'altra mano dalla cesta al fianco
e tentò di dire qualcosa.
- «Quasi, quasi, ora...»
- «No, no» l'interruppe Ntonicchio, che
sfruttò l'incertezza di quella per
architettarne una delle sue «ora nei 'u
portati a cummari Femia, 'mpacci 'a me'
casa, c'avi 'mpezzu c'u stavi cer-candu»
(Ora glielo portate a comare Femia,
quella che abita in faccia a casa mia,
che lo cerca da un pezzo).
- «Ah si? N'a canusciu» (Non la conosco)
disse la donna, quasi interrogando se
stessa.
- «Sapiti undi staiu jeù?» (Sapete dove
abito io?) chiese Ntonicchio.
- «Eh! comu no?» rispose la donna con
sorriso sarcastico.
- «Iti 'nda me' rruga, spiati 'i cummari
Femia e non vi potiti sbagghiari»
(Andate nel mio vicolo, chiedete di
comare Femia e non vi potrete sbagliare)
precisò Ntonicchio senza badare al
sorrisetto.
- «Vaiu subitu» concluse quella,
avviandosi con passo spedito, senza
neppure salutare, tanta fu la
contentezza di aver trovato da piazzare
il suo girello.
Nel vicolo dove si affacciano i balconi
di Ntonicchio, ci sono molte case, una
addossata all'altra. Tre di esse, per un
caso forse unico nella storia del nostro
paese, erano abitate da coppie che non
avevano figli. Non solo, ma correva voce
che non potessero averne neppure in
futuro.
Lo scalpore fu talmente tanto che la
divertita perfidia del po-polino arrivò
al punto di assegnare al vicolo un
secondo nome. Lo chiamò «'a rruga d'i
smatrati», ossia 'vicolo delle donne
sterili'. A quei tempi, dalle nostre
parti e in chissà quante altre di questo
mondo, la sterilità era considerata una
sorta di maledi-zione, una disgrazia
piovuta dall'alto, che aveva effetti
devastanti nella personalità dei
soggetti.
Ognuno capirà che non poteva essere che
così in un am-biente nel quale potenza
sessuale e fertilità erano considerati
at-tributi fondamentali di ogni
individuo, il naturale completamento
fisico per assicurare la continuità
della prole.
Senza di che le coppie si sentivano
dimezzate, esposte all'al-trui
commiserazione e, non di rado, allo
scherno, tacito o addi-rittura
esplicito.
L'ignoranza dei tempi faceva ascendere
la menomazione esclusivamente alle
donne. Come invece poi s'è saputo, esse
dividono questa incapacità in parti
pressoché uguali con gli uomini. Non
solo, ma oggi come oggi si può dire che
non ci sia coppia la quale, per quanto
impedita, non possa, volendo, avere
figli.
Ma i tempi erano quelli e all'uomo non
pareva vero di accollare al sesso
cosiddetto debole anche le proprie
limitazioni fisi-che. Cosicché la donna,
non soltanto doveva sopportare i
sarcasmi velenosi di un ambiente
prevenuto, disinformato e ingene-roso
quando essa era sterile davvero, ma era
costretta a subire il medesimo
trattamento - se vogliamo usare un
eufemismo -quando ad essere sterile era
unicamente il marito.
Figurarsi quindi quale donna, che non
fosse stata una santa, avrebbe potuto
mantenere la calma e la serenità
necessarie per affrontare e convivere,
senza rovinarsi il carattere, con queste
in-veterate ostilità ambientali.
Comare Femia, difatti, il carattere se
l'era rovinato.
Della donna dolce e mansueta che era
stata prima di sposarsi non era rimasto
nulla. Via via che le gravidanze non
arrivavano, diventava - giorno dopo
giorno - sospettosa, ruvida, permalosa,
irritabile e aggressiva.
Quando la bagnarota bussò alla porta,
essa era sul retro, al piano superiore,
intenta a stendere il bucato e non
sentì.
La bagnarota bussò di nuovo e chiamò più
volte:
- «Cummari Femia!»
Il frastuono ruppe la sonnolenta
tranquillità del vicolo e attirò la
morbosa curiosità di parecchie vicine
che, senza affacciarsi, lanciarono
occhiate pettegole dalle feritoie delle
tendine ricamate, quasi presentissero il
grottesco della scena che stava per
consumarsi di lì a poco.
Comare Femia spalancò finalmente la
finestra e si sporse al balcone mentre
la bagnarota stava adagiando la cesta
sul muretto della porta.
Quando vide il girello ebbe un
soprassalto e impallidì, temendo qualche
tiro mancino.
La sua voce assunse un tono aspro e
chiese:
- «Chi vvoliti?»
- «Vi portai 'u caminalòru» rispose
quella.
- «'U caminalòru?» sibilò comare Femia
che, senza vederle, si sentiva sopra di
sè gli sguardi maligni e compiaciuti di
chissà quante donne del vicolo celate
dietro le tendine.
E aggiunse subito:
- «Cu vi mandau?» (Chi vi ha mandata?)
- «Don Antoni» rispose la bagnarota
indicando la casa di Ntonicchio.
- «Ah si? E portatincillu a iju» (Ah si?
e portateglielo a lui) ribatté comare
Femia, ritraendosi verde di rabbia.
Poi richiuse fragorosamente la finestra
e lanciò in aria un'im-precazione
pesante come un macigno, non si sa se
diretta a Ntonicchio o alle perfide
donnette che sapeva di certo occultate a
godersi lo spettacolo, o a tutti quanti
insieme.
Disse:
- «Bott'e sangu a ccu sacciu jeu!» che,
tradotto, significa «Possa venire una
sincope a chi so io!».
L'alluce valgo
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