LE GUARDIE MUNICIPALI  da CARMELA CUDA di Lorenzo Milanesi (Rubbettino Editore)

'U caminalòru

Ogni mattina, fin da tempi remotissimi, giungevano nel nostro paese le bagnarote per vendere le loro mercanzie.
Queste donne, appartenenti in prevalenza a famiglie di pescatori, partivano da Bagnara alle primissime luci dell'alba con una larga cesta sul capo, colma chi di pesce, pescato nella notte, chi di scampoli di stoffe, chi di merceria, chi di pane integrale in pagnottoni da un chilo, chi di suppellettili per la casa, le più varie, purché trasportabili.
Sciamavano a gruppi, ognuno diretto a un paese diverso dall'altro dell'interno, affrontando la fatica e l'asperità della collina con l'apparente disinvoltura di chi compia uno sforzo muscolare prolungato nel tempo, e vi è quindi allenato, e con l'indiscusso coraggio che il mestiere, i luoghi, le ore e i sentieri richiedevano.
La scarsità dei mezzi di trasporto, il prezzo competitivo delle loro mercanzie e l'offerta «porta a porta», come oggi si direbbe, hanno reso continuo e stabile l'esercizio di questi minuti commerci.
Del resto la gente dei paesi ha sempre mostrato di gradire tali visite giornaliere, fino al punto da affezionarsi a queste donne, con le quali, pur senza approdare a vere e proprie amicizie, si instauravano nondimeno legami duraturi di reciproco rispetto.

Non si conoscono esattamente le antiche origini del gruppo etnico, né le cause che hanno dato luogo a questo matriarcato sui generis.
Sta di fatto che queste infaticabili lavoratrici, oltre a coprire il raggio di una giornata lavorativa, si sono anche spinte persino oltre i confini della Regione, specialmente durante e dopo l'ultima guerra, quando l'emergenza era acuta e le merci scarse.
Nella media si tratta di donne dalla corporatura solida, dal marcato tratto mediterraneo, occhi e capelli neri, di solito lunghi a treccia, non di rado belle e avvenenti, specialmente da giovani.
A tutto ciò va aggiunto, per esigenze legate alla loro attività, ai pericoli da affrontare e all'eterogeneità delle persone con le quali entrano in contatto, un atteggiamento deciso, avvezzo alla trattativa e, quando il caso, altero e perfino scontroso.
D'altra parte non si riesce a immaginare comportamento di-verso se si considera l'attività affatto particolare e la circostanza che esse hanno sempre svolto il loro lavoro in completa autonomia, in assenza cioè dei loro uomini. Dai quali, giocoforza, hanno dovuto mutuare la tempra fisica, il coraggio non comune e la grinta necessari al durissimo mestiere.
E vi sono riuscite talmente bene che a nessuno, dalle nostre parti, è mai passato per la mente di recare loro molestia alcuna.
Nei tempi andati, l'arrivo in paese, se proprio non coincideva col mattutino suono delle campane, ne era tuttavia molto vicino.
E questo accadeva in ogni stagione e con qualunque tempo.
Il gruppo si disperdeva per le strade e i vicoli e ogni donna seguiva un percorso abituale che molto spesso ubbidiva a criteri di razionalità. I quali inducevano, per prima cosa, a consegnare al più presto la merce commissionata nei giorni precedenti (liberandosi del relativo peso) e a procedere poi alla tentata vendita di quello che rimaneva.
Il tentativo si concretizzava in due modi:
- gridando ai crocicchi e lungo le vie e i vicoli, con quanta più voce avessero, le eccelse qualità della loro merce, qualunque fosse;
- avvicinando i passanti o raggiungendoli nelle loro case per offrire la mercanzia a prezzi che quasi mai rimanevano quelli di partenza.
Non di rado veniva praticato il baratto, specialmente col nostro olio.
Col passare del tempo le cose sono cambiate. Ora le bagnarote, quelle poche che si ostinano nell'antica attività, si servono di automobili e, ciò che in passato non accadeva, si fanno aiutare dal marito, quanto meno nella guida del mezzo.
Tornando ai tempi andati, accadde un giorno, di mattino presto, che Ntonicchio - sulla via verso Deconi, da dove scen-devano verso il paese - vedesse, sul capo di una di loro, la solita cesta, coperta da un panno, però particolarmente rigonfio.
Siccome lo sforzo di reggerla non era proporzionato al volume che la donna recava in testa, egli si incuriosì e le chiese perentorio:
- «Chi portati?» (Cosa state portando?).
La donna, sapendo che con le guardie bisognava mettere da parte la scontrosità, utile magari con altre persone, si fermò, gra-tificandolo di un sorriso che apparve affettato.
Una mano era posata al bordo della cesta in alto, l'altra sul fianco. Pareva una di quelle statue che di tanto in tanto affiorano dagli scavi antichi.
Le altre donne proseguirono col loro peso e i loro passi sempre uguali verso il paese.
- «'Nu caminalòru pe' donna Mariuzza» rispose.
Caminalòru, in gergo, è quella gabbia in legno, larga in basso e stretta in alto, montata su rotelle, nella quale si introduce il bambino che impara così a camminare. Il girello, insomma.
- «Pe' donna Mariuzza?» disse Ntonicchio stringendo legger-mente l'occhio sinistro e guardando per aria, nell'atto di chi stia rincorrendo i pensieri e voglia ricordarsi bene qualche particolare.
Poi continuò:
- «Non c'esti. Donna Mariuzza partiu arsirà pe' Scilla perchì sò som parturiu» (Non c'è. Donna Mariuzza è partita ieri sera per Scilla perché sua sorella ha partorito).
La donna cambiò umore, anzi tornò accigliata com'era prima d'incontrare la guardia. Non sapeva cosa dire e cosa fare. Fu un'esitazione di breve durata. Portò l'altra mano dalla cesta al fianco e tentò di dire qualcosa.
- «Quasi, quasi, ora...»
- «No, no» l'interruppe Ntonicchio, che sfruttò l'incertezza di quella per architettarne una delle sue «ora nei 'u portati a cummari Femia, 'mpacci 'a me' casa, c'avi 'mpezzu c'u stavi cer-candu» (Ora glielo portate a comare Femia, quella che abita in faccia a casa mia, che lo cerca da un pezzo).
- «Ah si? N'a canusciu» (Non la conosco) disse la donna, quasi interrogando se stessa.
- «Sapiti undi staiu jeù?» (Sapete dove abito io?) chiese Ntonicchio.
- «Eh! comu no?» rispose la donna con sorriso sarcastico.
- «Iti 'nda me' rruga, spiati 'i cummari Femia e non vi potiti sbagghiari» (Andate nel mio vicolo, chiedete di comare Femia e non vi potrete sbagliare) precisò Ntonicchio senza badare al sorrisetto.
- «Vaiu subitu» concluse quella, avviandosi con passo spedito, senza neppure salutare, tanta fu la contentezza di aver trovato da piazzare il suo girello.
Nel vicolo dove si affacciano i balconi di Ntonicchio, ci sono molte case, una addossata all'altra. Tre di esse, per un caso forse unico nella storia del nostro paese, erano abitate da coppie che non avevano figli. Non solo, ma correva voce che non potessero averne neppure in futuro.
Lo scalpore fu talmente tanto che la divertita perfidia del po-polino arrivò al punto di assegnare al vicolo un secondo nome. Lo chiamò «'a rruga d'i smatrati», ossia 'vicolo delle donne sterili'. A quei tempi, dalle nostre parti e in chissà quante altre di questo mondo, la sterilità era considerata una sorta di maledi-zione, una disgrazia piovuta dall'alto, che aveva effetti devastanti nella personalità dei soggetti.
Ognuno capirà che non poteva essere che così in un am-biente nel quale potenza sessuale e fertilità erano considerati at-tributi fondamentali di ogni individuo, il naturale completamento fisico per assicurare la continuità della prole.
Senza di che le coppie si sentivano dimezzate, esposte all'al-trui commiserazione e, non di rado, allo scherno, tacito o addi-rittura esplicito.
L'ignoranza dei tempi faceva ascendere la menomazione esclusivamente alle donne. Come invece poi s'è saputo, esse dividono questa incapacità in parti pressoché uguali con gli uomini. Non solo, ma oggi come oggi si può dire che non ci sia coppia la quale, per quanto impedita, non possa, volendo, avere figli.
Ma i tempi erano quelli e all'uomo non pareva vero di accollare al sesso cosiddetto debole anche le proprie limitazioni fisi-che. Cosicché la donna, non soltanto doveva sopportare i sarcasmi velenosi di un ambiente prevenuto, disinformato e ingene-roso quando essa era sterile davvero, ma era costretta a subire il medesimo trattamento - se vogliamo usare un eufemismo -quando ad essere sterile era unicamente il marito.
Figurarsi quindi quale donna, che non fosse stata una santa, avrebbe potuto mantenere la calma e la serenità necessarie per affrontare e convivere, senza rovinarsi il carattere, con queste in-veterate ostilità ambientali.
Comare Femia, difatti, il carattere se l'era rovinato.
Della donna dolce e mansueta che era stata prima di sposarsi non era rimasto nulla. Via via che le gravidanze non arrivavano, diventava - giorno dopo giorno - sospettosa, ruvida, permalosa, irritabile e aggressiva.
Quando la bagnarota bussò alla porta, essa era sul retro, al piano superiore, intenta a stendere il bucato e non sentì.
La bagnarota bussò di nuovo e chiamò più volte:
- «Cummari Femia!»
Il frastuono ruppe la sonnolenta tranquillità del vicolo e attirò la morbosa curiosità di parecchie vicine che, senza affacciarsi, lanciarono occhiate pettegole dalle feritoie delle tendine ricamate, quasi presentissero il grottesco della scena che stava per consumarsi di lì a poco.
Comare Femia spalancò finalmente la finestra e si sporse al balcone mentre la bagnarota stava adagiando la cesta sul muretto della porta.
Quando vide il girello ebbe un soprassalto e impallidì, temendo qualche tiro mancino.
La sua voce assunse un tono aspro e chiese:
- «Chi vvoliti?»
- «Vi portai 'u caminalòru» rispose quella.
- «'U caminalòru?» sibilò comare Femia che, senza vederle, si sentiva sopra di sè gli sguardi maligni e compiaciuti di chissà quante donne del vicolo celate dietro le tendine.
E aggiunse subito:
- «Cu vi mandau?» (Chi vi ha mandata?)
- «Don Antoni» rispose la bagnarota indicando la casa di Ntonicchio.
- «Ah si? E portatincillu a iju» (Ah si? e portateglielo a lui) ribatté comare Femia, ritraendosi verde di rabbia.
Poi richiuse fragorosamente la finestra e lanciò in aria un'im-precazione pesante come un macigno, non si sa se diretta a Ntonicchio o alle perfide donnette che sapeva di certo occultate a godersi lo spettacolo, o a tutti quanti insieme.
Disse:
- «Bott'e sangu a ccu sacciu jeu!» che, tradotto, significa «Possa venire una sincope a chi so io!».

L'alluce valgo