Nona
puntata
CONSIDERAZIONI FINALI
Il libro, come si può vedere, è gonfio di retorica ed
insiste sull’ apologia del Duce e del Regime Fascista che,
nel 1940, è al potere in Italia da diciott’anni.
La classe intellettuale e gli insegnanti, come ho già detto
più sopra, erano quasi senza eccezione al servizio del
Regime, alcuni per intima convinzione, altri per semplice
conformismo o per necessità familiare. Solo qualche debole
fronda era tollerata, ma sempre all’interno del Regime
stesso, come quella di un paio di riviste fasciste, ad
esempio la rivista di Giuseppe Bottai, un intellettuale
teorico del corporativismo, e qualche atteggiamento
goliardico di giovani della F.U.C.I., la Federazione degli
universitari fascisti affiliata all’Azione Cattolica.
Nei diciott’anni di governo totalitario il Regime era
riuscito a monopolizzare tutte le espressioni del pensiero,
imponendo l’iscrizione al Partito, ed occorre dire che ben
pochi si ribellarono: su centinaia di professori
universitari meno di una decina si rifiutò di aderire
giurando fedeltà, gli altri chinarono la testa.
Poi vi furono i fiancheggiatori entusiasti che non si
vergognavano di celebrare con parole sempre più assurde il
genio del capo e la genialità delle sue opere. I libri di
scuola, rigidamente controllati dal Ministero per la Cultura
Popolare, primeggiavano in contenuto apologetico e molti
insegnanti, soprattutto nelle scuole medie, aggiungevano il
loro sale al contenuto dei libri e delle circolari che
arrivavano nelle scuole.
Come se non fosse bastato, ogni sabato mattina tutti i
ragazzi e le ragazze, ma in modo particolare e di norma
senza eccezioni i primi, erano comandati a partecipare alle
manifestazioni della G.I.L., la Gioventù Italiana del
Littorio, dove l’indottrinamento proseguiva, normalmente ad
opera di comandanti e capi squadra di scarsa cultura,
accompagnato, per i maschi, da addestramento paramilitare
(ma anche le ragazze marciavano su e giù inquadrate
militarmente con alla testa le tronfie comandanti,
orgogliose nelle divise di foggia militare). Pochi
riuscivano ad evitare le adunate, con certificati medici che
attestavano l’inidoneità alla “ginnastica”, ma erano
guardati con un certo disprezzo. Erano gli “esonerati”.
Il Regime parlava un linguaggio estremamente aggressivo,
faceva credere che l’Italia fosse una delle più forti
potenze militari del mondo e che imprese miserevoli come la
guerra d’Etiopia, contro un popolo arretrato e quasi
disarmato, l’aiuto massiccio in uomini, armi e denaro al
golpista Franco in Spagna, rappresentassero la prova della
grande potenza del nostro paese. La II guerra mondiale,
nella quale il Duce proprio nel 1940 precipitò l’Italia pur
essendo al corrente della sua scarsa capacità bellica,
s’incaricò ben presto di dimostrare che si trattava di pura
propaganda, che un ventennio di dittatura militaristica, di
avventure all’estero, di voce grossa
con tutti (“Molti nemici molto onore” aveva dichiarato il
capo) avevano indebolito il paese anziché rafforzarlo,
rendendolo meno in grado di affrontare una guerra seria,
contro veri nemici, di quanto non lo fosse stato nel 1915.
L’impero, lontano ed isolato dalla madre patria, nonché
privo di risorse, fu perduto in meno di un anno, la Grecia,
alla quale il Duce aveva minacciato di rompere le reni, per
poco non ci ributtò nel Mare Adriatico e ci salvarono i
tedeschi. Ed arrivò un disastro dopo l’altro, in Libia, in
Russia, nel mare e nell’aria.
Sappiamo come finì: con la quasi completa distruzione del
paese, con l’umiliazione della resa, dell’occupazione
nazista, del rigurgito fascista nella sua immagine peggiore,
quella di Salò, ed infine con Piazzale Loreto, con le
vendette di chi aveva subito la repressione e la
persecuzione, con le foibe carsiche ad opera dei
guerriglieri e dei soldati jugoslavi che vollero vendicare,
e lo fecero con ferocia, vent’anni di oppressione.
Nel 1938, anche per compiacere l’alleato nazista già
impegnato in una forsennata caccia all’ebreo, furono emanate
le leggi razziali che non suscitarono fra gli italiani
l’indignazione che meritavano, anche a causa
dell’atteggiamento indifferente o quasi della gerarchia
cattolica. Il brano sugli ebrei contenuto nel Libro della
Quinta Classe, sopra riportato, è solo un esempio di una
campagna capillare antisemita che attraversò l’Italia in
quegli anni, orchestrata dal Regime, che poi portò alla
consegna di migliaia di ebrei ai nazisti per lo sterminio
nei campi. E’ una vergogna nazionale che non potrà mai
essere cancellata, come le aggressioni ad altri popoli più
deboli, in Africa, Albania, Grecia, Jugoslavia, come
l’appoggio dato nel 1936 alla sollevazione militare in
Spagna, contro il governo repubblicano democraticamente
eletto, come l’aggressione alla Francia quando aveva già
chiesto l’armistizio alle armate tedesche vincitrici.
Dalla lettura del libro si possono ricavare alcune
considerazioni. La propaganda capillare iniziava con i
ragazzi in tenera età, nella scuola, nella GIL, perfino
durante le lezioni del catechismo domenicale da parte di
certi parroci conformisti.
I libri di testo delle scuole erano imposti dal Ministero
dell’Educazione Nazionale e severamente controllati, come ho
già detto, dal Ministero per la Cultura Popolare, unici per
tutta l’Italia. Del
resto, lo stato totalitario comportava l’unicità
dell’informazione, dell’insegnamento, della cultura, della
propaganda, con uno scopo ben preciso, quello
dell’indottrinamento dei cittadini, che non avevano accesso
ad altre fonti e, salvo rare eccezioni, neppure
all’informazione straniera, ed in particolare la formazione
delle giovani generazioni. Era molto difficile, per i
ragazzi ed i giovani di allora, acquisire anche un limitato
spirito critico e l’eventuale azione delle famiglie non
allineate era assiduamente contrastato dalla scuola, dalle
organizzazioni del regime e dall’ambiente.
Nel 1942, a guerra già inoltrata, il mio insegnante
d’italiano, un convinto fascista di limitato intelletto,
volle inviarmi ai “Ludi Juveniles della Cultura”, una
competizione di scrittura fra studenti delle scuole medie
inferiori e superiori, dato che, in italiano, ero il
migliore della mia classe. Mio padre, se l’avesse saputo,
avrebbe cercato di opporsi, ma mia madre non glielo disse,
come gli teneva accuratamente nascoste le mie doverose
partecipazioni ad adunate e manifestazioni della Gioventù
Italiana del Littorio, alle quali, del resto, era quasi
impossibile, per uno studente, sottrarsi.
Ricordo che il tema assegnatoci era “Resistere per vincere.
Vincere per la giustizia e la libertà”. Non vinsi alcun
premio perché se li accaparrarono tutti i ragazzi delle
superiori, ma il mio componimento, denso di retorica
patriottica, fu lodato dal Segretario Federale Pansera (che
era bene al corrente delle idee “sovversive” della mia
famiglia)
Non c’era ancora la televisione, ma se anche ci fosse stata
avrebbe avuto una voce unica, come la radio, strumento
nascente di propaganda, come i giornali, ai quali era
imposto un indirizzo unico.
Se mai, lascia perplessi l’adesione passiva e l’acquiescenza
un po’ vile della grandissima maggioranza degli
intellettuali, dei giornalisti, degli scrittori, molti dei
quali avevano contatti con il mondo esterno, con i colleghi
dei paesi democratici, con il mondo accademico
internazionale. Gran parte di questi intellettuali poi, alla
caduta del fascismo, fecero professione di attaccamento alla
democrazia e le rapide conversioni furono all’ordine del
giorno.
C’è da stupirsi che tanti giovani, cresciuti ed educati in
quell’ambiente, abbiano poi saputo scegliere in modo
spontaneo, seguendo solo la loro coscienza, la strada della
ribellione dopo l’8 settembre 1943, anche se a quel punto
molte cose erano diventate chiare, i piani nazisti,
l’inconsistenza del regime fascista, gl’inganni della
retorica, l’insipienza delle classi dirigenti cresciute con
la dittatura.
Nel 1940, quando il libro che ho commentato in queste pagine
fu pubblicato, l’Italia entrava in guerra contro la Francia
e la Gran Bretagna e molti italiani cominciarono ad aprire
gli occhi ed a comprendere che il Fascismo stava portando il
Paese su una china molto pericolosa. La maggioranza,
tuttavia, era rassegnata e sperava che la guerra finisse
presto con una vittoria che avrebbe arricchito l’impero e
consentito all’Italia di impadronirsi di territori anche in
Europa, Nizza, la Savoia, la Dalmazia, la Tunisia e chissà
quant’altro.
Pochi erano i patrioti che ritenevano che l’esser patrioti
implicasse anche il rispetto per la patria altrui.
Si sono visti, purtroppo per il nostro Paese, i risultati di
tale mentalità, basata sulla prevaricazione e sulla
prepotenza
FINE