Terza
parte
Raccontare
il deserto a qualcuno che non l’ho mai visto, non è impresa da
poco; è affascinante ed alienante, immobile e sempre diverso,
bellissimo e superbo, spaventoso ed entra in noi, lasciandoci
perplessi e timorosi. Vortici d’aria alzano trombe di sabbia che
corrono veloci fino a svanire sfrangiate dal vento. Fenomeni
ottici, dovuti al grande calore che sale dal terreno,
trasformano l’orizzonte in azzurre distese d’acqua in cui le
montagne lontanissime, appaiono come isole. Le auto che ci
precedono, sembrano galleggiare a mezz’aria. Siamo turbati e
incuriositi. I nostri volti sono trasformati in vere e proprie
maschere di color rosso; ci fotografiamo a vicenda ma in fretta
perché c’ è il timore di rimaner lontani dagli altri che poi
invece sono vicini a noi, appena venti o trenta metri.
Entriamo a North Hort, estremo lembo abitato e sul confine di un
altro deserto, quello etiopico; l’aspetto del villaggio è
prettamente western con carovane di cammelli al posto dei
cavalli, qualche casa in muratura, poche anime che ci guardano
curiose e interroganti.
Poi nuovamente a Sud con altre estenuanti ore di deserto per
giungere finalmente a Marsabit, sede di altra Missione
cattolica.
Un lodge ci permette il restauro ed il ristoro necessari; nel
menu della cena troviamo anche gli spaghetti e ciò contribuisce
non poco al recupero delle forze fisiche e morali. La notte ci
vede ospiti della Missione dove
dormiremo nelle aule della scuola evitandoci cosi di montare il
campo, con notevole risparmio di energie e di tempo.
Marsabit è famosa per il suo parco naturale dove gli elefanti la
fanno da padroni con grande gioia delle nostre macchine
fotografiche.
L’obiettivo di domani sono i RENDILLE, tribù costretta in
riserva razziale nella zona compresa tra Kargi a Nord, Mikulal a
Ovest, Ililuat a Sud, Logo Logo a Est. La riserva Rendille è una
savana desertica di circa 100 Km. di raggio. Le piogge sono
molto scarse e di gran lunga inferiori alle necessità sia delle
persone che degli animali. Unico cespite idrico è un pozzo che
dà acqua salata e calcarea, tre pozzi nella zona periferica Est
ed alcune buche scavate a mano, in cui gocciola acqua di roccia
sudorifera, in quantità di circa 2 metri cubi al giorno.
La marcia di avvicinamento è dura e per la pista veramente
accidentata che attraversa il deserto del Korr e per la
temperatura che è sempre molto elevata; anche una delle due
guide, pur abituata, ne risente e la fatica smorza l’allegria.
Confidiamo nel buon funzionamento di ogni macchina e ,
consapevolmente, ogni equipe vigila sull’auto che la precede e
su quella che la segue; formiamo così, nel deserto che stiamo
attraversando, una lunga, ideale cordata di sei mezzi e ventisei
uomini. Un ben celato e velocissimo sistema di avvistamento
segue la nostra carovana per cui, quando arriviamo nella prima
“manyata” del villaggio ( così sono chiamati gli agglomerati che
formano il villaggio) veniamo festosamente accolti dagli uomini
Rendille che, con i loro bimbi e padre Redento, ci stanno
aspettando, ben informati del nostro arrivo.
Ci rendiamo immediatamente conto dell’estrema povertà di questa
gente.
Quelle che padre Redento, con ottimismo, ci addita come capanne,
non sono altro che pelli o sacchi sostenuti da rami, unica
civetteria architettonica, la forma ovoidale uguale per tutte.
Una barriera di rami spinosi protegge l’insieme dalle fiere e
crea la manyata o, per dirla a nostro modo,l’unità urbana. La
tribù ha molte di queste unità, collegate tra loro da piste
appena visibili e percorrendo le quali si può essere agevolmente
sbranati dalle belve, considerando anche che queste piste
vengono percorse di notte per evitare il più possibile il grande
caldo.
In un punto sicuro sistemiamo il nostro campo. Tutto ciò che gli
indigeni vedono uscire dai nostri bagagli, suscita il loro
desidero e le richieste vanno dal bicchiere d’acqua al piccolo
contenitore della marmellata, alla canottiera che abbiamo
addosso, ma se non diamo non c’è risentimento, solo
rassegnazione.
Trascorreremo in mezzo a loro quattro o cinque giorni ; ci
rendiamo conto che qui non esiste il bisogno psichico di un bene
materiale ma solo necessità e sufficienza e che nulla viene
sprecato o accumulato, nel rispetto istintivo della legge
comunitaria: quello che non mi è necessario può servire ad
altri.
E’ inevitabile a questo punto pensare a ciò che il nostro mondo
super organizzato spreca: cibi, medicine, indumenti. Qui una
maglietta di lana può salvare un bimbo risparmiandolo dai forti
sbalzi di temperatura esistenti tra giorno e notte: il 70% degli
indigeni muore di polmonite nei primi tre anni di
vita. Padre Redento, che vive qui con loro ed come loro è una
eccezionale tempra di uomo e di missionario, sta combattendo per
la soluzione del problema esistenziale di questa gente: l’acqua.
Se non si trova al più presto tutta la tribù, circa
trentacinquemila persone, è destinata a soccombere.
Con mezzi raccolti in Italia, sono già state impiantate due
trivelle per la ricerca dell’acqua a grandi profondità, ma
occorre andare avanti con i lavori per raggiungere qualche
risultato.
Nell’attesa che uomini ringrazino altri uomini per un bicchiere
d’acqua che viene tenuto a lungo e solennemente tra le mani
prima di essere sorseggiato, assistiamo anche alla fame e alla
miseria di questa gente , fame con la “ F “ maiuscola, la fame
che noi non ci è dato nemmeno d’immaginare. In queste condizioni
si può ben capire come l’igiene del corpo sia considerata
sciocca vanità e le necessarie abluzioni vengono fatte con
l’urina degli animali.
Il bestiame è l’unico sostentamento dei Rendille e rappresenta
la tangibile ricchezza della famiglia, oltre che mezzo di
scambio: il cammello funge da unità monetaria e le capre da
spiccioli. Con il bestiame si acquista la moglie e tutto ciò che
è essenziale nell’arco della vita e raramente viene ucciso.
Ciononostante l’ospitalità è tenuta in tale conto che in nostro
onore viene cucinata una capra; la dobbiamo consumare sotto gli
occhi compiaciuti di tutto il villaggio, re compreso. Il nostro
disagio è notevole ma così vuole il cerimoniale che continuerà
con danze e canti fino all’alba.
Possiamo fotografare tutto e tutti, chiedere, ascoltare: padre
Redento è abile interprete. Ciò che ora sappiamo su questa
gente, può costituire materia per un interessantissimo libro.
Quando viene il giorno e l’ora della partenza, i Rendille non
sono più, per noi, una rarità da fotografare; i gesti
propiziatori , le collane di perline, i visi colorati, rivestiti
del loro particolare significato, non ci appaiano più
incomprensibili espressioni selvagge.
S’è spezzato il diaframma tra la cosiddetta cultura superiore e
quella inferiore, s’è avviato un dialogo amichevole, umano.
Lasciati i Rendille la nostra ultima tappa è il Samburo Park.
L’importanza di questo parco merita una sosta; la fauna è
ricchissima, tutti i grandi mammiferi della l’Africa sono qui
rappresentati. L’ubicazione e l’organizzazione dei Lodge,
facilita il nostro fotografare:
solamente il re della foresta, il leone non si presenta
all’appuntamento; nella notte assistiamo, accompagnati dai
guardiani armati del parco, all’avvicinarsi dei leopardi per
abbeverarsi nel fiume che scorre nei pressi: uno spettacolo che
ci gratifica di tanta fatica e di tanta amarezza.
Il giorno dopo puntiamo su Isolo ; poi le “Sette cascate” del
fiume Tana per trovarci poi sulle grandi strade che conducono
all’altipiano di Nairobi.
Questo viaggio che in verità avrebbe dovuto essere un safari,
un’evasione e nulla più, invece ha obbligato noi tutti a
ridimensionarci un pochino, a sentirci meno bene dentro la pelle
bianca, ad avere conoscenza di problemi inimmaginabili, una
visione nuova e realistica di gente come noi e da noi tanto
diversa. Abbiamo visto che l’uomo di pelle nera è rimasto un
elemento trascurabile nel panorama africano, quasi una
singolarità del paesaggio, talvolta meno prezioso della fauna
locale e possiamo dire di aver cercato la sua voce al di là del
convenzionale rumore dei tam tam.
Genova, ottobre 1974
Cesare Fasolato |