Prima
parte
Siamo sul Jumbo Jet
che ci porterà a casa dopo tre settimane di Africa.
Ecco, ci eravamo stati, avevamo toccato con mano una terra
fantastica, estremamente eterogenea per natura, abitanti e
condizioni sociali; avevamo percorso millenovecento Km. di
strade e piste con caratteristiche lunari; avevamo scattato
centinaia di fotografie e girato duemila metri di pellicola.
Stiamo ritornando ricchi di materiale ma soprattutto di
sensazioni nuove e l’uno e le altre stanno ad indicarci
la
validità del viaggio che, volutamente, non ha ricalcato nessun
clichè turistico.
Venti giorni or sono eravamo sbarcati a Nairobi, dopo dodici ore
di viaggio e con un lunghissimo balzo avevamo sorvolato la
nostra Penisola, il Mediterraneo e l’immensa vallata del Nilo;
l’alba ci aveva sorpreso lassù oltre le nuvole e l’aurora ci
aveva estasiati con tinte di sogno poi, le sterminate e verdi
distese e il quasi inavvertito atterraggio a Nairobi. Piove e fa
freddo ciò che è giusto per una città a millesettecento metri
che vive d’agosto il suo inverno.
Trasporto rapido in albergo, cena a base di cibi esotici e
l’indomani mattina , di buon’ora, tutti pronti su grosse
fuoristrada : Toyota e Land Rover con il nostro carico di viveri
, apparecchi fotografici, tre cineprese ma soprattutto di
entusiasmo il che non guasta per quello che ci aspetta. Tutto è
stato studiato, discusso, predisposto ma l’imprevedibile è in
noi, l’avventura ci sta dinanzi.
Le prime graffianti sensazioni le subiamo uscendo dalla giovane
Nairobi; nei sobborghi regna un’indicibile miseria. Miseria non
povertà. La povertà la troveremo poi ovunque, fino alle tribù
più lontane ma là tutto sarà omogeneo: l’ambiente arido e avaro,
l’uomo paziente e tenace, saldamente uniti l’uno all’altro.
Qui sterminati ghetti racchiudono masse di disadattati: non è
possibile passare dalla capanna alla catena di montaggio senza
profonde fratture e smarrimenti.
Questo è il primo colpo di spugna alle nostre fantasie.
Il Kenya è attraversato da una immensa
depressione, La Rift Valley o Valle Spaccata ( qui le dimensioni
non contano più, tutto è enorme, a perdita d’occhio); in essa
sono adagiati piccoli laghi che la punteggiano su, su fino al
grande Lago Rodolfo. Uno di questi è il Nakuru; intorno ad esso
50.000 Kmq. di paradiso terrestre e volatili, costituiscono il
Nakuro Park, nostra prima tappa. I giovani stati africani hanno
capito l’importanza economica dei parchi naturali che attirano
irresistibilmente il vecchio mondo “civile”, oggi interessato a
ciò che ieri ha distrutto, e ben li proteggono.
Qui vivono indisturbati ed in condizioni ambientali perfette,
fenicotteri bianchi e rosa, pellicani,cavalieri d’Italia,
gabbiani, gru ed in questo Eden naturale le nostre attrezzature
fotografiche hanno il loro da fare. Il sole
perpendicolare del mezzodì è una difficoltà in più ma la
passione ha ragione sulla tecnica e i “clic” si sprecano.
Prima di sera attraversiamo l’equatore e intirizziti
dall’intenso freddo dei 2500 e più metri di altitudine,
imprechiamo contro le fantomatiche calure africane.
Fortunatamente la prima notte ci vede al riparo dalla
pioggia
e dal freddo, nella casa della nostra guida a Thomsons Falls.
La mattina dopo di buonora ci avviamo per le strade ( si fa per
dire) polverose percorse da sgangherate corriere stracariche di
umanità ammassata in ogni dove che ci guarda incuriosita com’è
consuetudine in questi luoghi e incredula di vedere qualcuno
veramente diverso; da parte nostra la curiosità e lo stupore non
sono da meno alla vista di questa umanità di cui non pensavamo
neanche potesse esistere. A questo punto il confronto è
inevitabile….qui è meglio vivere da fenicotteri.
Finalmente ecco la savana in uno splendido indescrivibile ,
coloratissimo tramonto. Trascorreremo qui la seconda notte:
dormire sotto le stelle in un brulicare di vita silenziosa ma
attivissima, è una esperienza straordinaria. Il sapere che
intorno a noi antilopi, zebre, scimmie, sono pasto abituale di
leoni e leopardi, non concilia il sonno. Nella profondità della
notte ogni legame con il razionale si rompe ed un grande
desiderio di conoscere e vivere questa terra, ci prende. A
questo pensiero tutto è sacrificato: comodità, riposo, forma e
fatica.
Che sia questo il mal d’Africa?
All’alba ci rimettiamo in movimento e presto raggiungiamo il
villaggio di Maralal desiderosi di immortalare con
foto e pellicola cinematografica questi luoghi particolari e
raccomandati dalle guide; ma ciò che ci era stato detto circa la
“socialità” di questi individui, corrisponde a sacrosanta
verità. Gli indigeni non gradiscono gli scatti delle nostre
macchine fotografiche e di conseguenza ci dobbiamo accontentare
di poco; in cambio ci assillano con estenuanti offerte di
ninnoli e di armi da taglio in un’atmosfera astiosa e per nulla
cordiale; decisamente la lunga presenza inglese non ha
contribuito a facilitare i rapporti con l’uomo bianco. A questo
punto onde non subire ulteriori attacchi di venditori, decidiamo
di accamparci a qualche kilometro dal villaggio per consumare
una frugale colazione. Siamo provvisti di sedie, sgabelli,
tavolini quasi fosse una gita fuori città ma l’acqua da bere
calda e corretta con amuchina, non è certo paragonabile ad un
buon e fresco vinello casereccio. Senza pericolo di
indigestioni, risaliamo sulle nostre formidabili automobili
dalle incredibili prestazioni: di volta in volta esse sono luogo
di rifugio, camere oscure, ospedale, torri di avvistamento,
stive per il buncheraggio di …tutto, oltre che formidabili
mangiatrici di kilometri su sabbia, pietre, fango e quant’altro
si possa calpestare o guadare.
Dopo una breve tappa a Baragoi, attraversiamo la straordinaria
Horr Valley, aspra e selvaggia valle che ci obbliga ad una vera
e propria tormentata gimcana.
Attraverso
la boscaglia, costituita in prevalenza da acacie nane e giganti,
ogni tanto compaiono sulla pista e dal nulla dei bimbi, uguali
ai nostri, sorridenti e garbati ma con le manine tese a chiedere
qualcosa. Sono questi i momenti e le situazioni più dure da
sopportare, i momenti che completano la giornata di grossi
interrogativi.
Eleganti gazzelle, gerenuk e zebre si immobilizzano al nostro
passaggio e poi fuggono fulmineamente. Una colossale carcassa di
elefante, ovviamente priva delle preziose zanne , fa compagnia
ad un povero teschio umano.
La giornata è stata durissima: la pista di cui siamo riusciti a
percorrere solamente 15 kilometri, le emozioni delle cose viste,
il rumore delle cose udite ma nascoste, la povertà dignitosa di
questi nostri simili, gli occhioni grandi e imploranti dei
bambini, si conclude con l’accampamento per la notte, nel greto
di un fiume in secca.
Ci è voluta l’abilità e la pazienza di una delle due guide per
procuraci un’ottima cena a base di carne fresca di una povera
gazzella di Grant, dopo giorni di odioso ma anche provvidenziale
scatolame.
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