Pietro e Ferruccio
 

Pietro era un artigiano, di quelli ai quali è mancato forse il tempo o la solitudine o le ristrettezze per diventare veri e propri artisti. Di tempo ne ebbe sempre poco perché fuori dal lavoro non faceva che leggere e dissertare. Dissertare da artigiano. Si sposò relativamente giovane ed ebbe tre figli, cosicché gli mancò l’opportunità di assaporare la parte vivificante della solitudine. Visse, per la verità, da solo per un discreto periodo di tempo quando dovette fare il militare; ma era giovane e non padroneggiava ancora il mestiere.

Quanto infine alle ristrettezze, che temprano, stimolano e affinano il carattere, spingendo gli uomini dotati verso la perfezione, non ne ebbe a sufficienza perché il pezzo di terra che suo padre coltivava forsennatamente, spremendone il possibile anche dalle zolle più aride, assicurava alla famiglia un reddito bastevole a prolungare il dolce far niente dei figli e a ritardarne l’inserimento nelle attività artigianali. Lo svago preferito da Pietro erano le letture. A quel tempo furoreggiavano i libri di Hugo, di Zola, dei romanzieri russi dell’Ottocento, oltre ai nostrani della stessa epoca, che Pietro leggeva con passione per innato desiderio di acculturarsi a modo suo e interloquire nelle appassionate discussioni dei cosiddetti intellettuali del paese ai quali si accompagnava nelle ore libere.

Crebbe quindi infarcito di tali letture, del tanto che assimilava ascoltando e del tantissimo che rimuginava piallando e squadrando nodose tavole di noce.

Fu felice del mezzo sorriso invitante di Pertinace.

Posò a terra il paniere sfilandolo dal bastone, sciolse, senza parlare, i fili di ginestra che trattenevano le foglie di vite disposto a coperchio e lo adagiò a fianco di Pertinace dalla parte opposta a quella dov’era il cappello di paglia.

“Favorite” gli disse con un sorriso largo o e mansueto. “Sono ancora freschi, freschi” aggiunse, sottolineando con un gesto del braccio la breve distanza che li separava dal suo podere.

Pertinace guardò incuriosito nel paniere. Vi scorse quattro pesche bianche, di quelle che in paese chiamano spaccatelle, e tre fichi del tipo melanzana con la goccia di miele in bocca e la buccia striata di bianco, raccolti al punto giusto di maturazione. Fra il bianco perlaceo delle pesche e il viola scuro dei fichi oc­chieggiava il giallo chiaro di una manciata di prugne e l’arancione cotto di un mazzettino di fiori di zucca. Pertinace non riuscì a trattenere lo stupore. Sollevò leggermente il capo, allargò gli occhi e “Che bellezza” disse. Ma Pietro non rinfoderò il sorriso perché aspettava che Pertinace accettasse qualche frutto.

Pertinace sapeva che Pietro avrebbe interpretato a modo suo, cioè malamente, l’eventuale rifiuto e, sebbene l’ora non fosse indicata, prelevò un fico, lo sbucciò, lo divise in due e lo mangiò.

“Sono i migliori di questa zona” disse Pietro, compiaciuto che Pertinace avesse scelto proprio il frutto del quale anch’egli era ghiotto. “Se non fosse per i vicini che allungano le mani e mi danneggiano anche l’orto quando vanno a prenderseli di notte, potrei mandarvene un paniere ogni tanto. Prendetene ancora intanto che sono freschi”. “Ti ringrazio” rispose Pertinace e proseguì “noto che anche tu ti porti dietro la stessa debolezza di tanti altri”. “E cioè?” si incuriosì Pietro. “È una sciocchezza, ma colpisce un po’ tutti” rispose pronto Pertinace. “Basta che una cosa, qualsiasi cosa, sia di nostra proprietà o l’abbiamo fatta noi o l’abbiamo semplicemente vista, si tratti di un palazzo, di un cane, di un’automobile, di uno stuzzicadenti, di un quadro, persino di un viaggio o di una battuta di caccia, basta - ripeto - che in qualche misura ci appartenga o ne siamo partecipi, perché diventi la migliore in assoluto o la più stupefacente”.

“Tu con i fichi ti stai comportando esattamente così”.

Pietro strinse leggermente gli occhi volgendoli, senza vederle, verso le montagne lontane per riflettere meglio sulle parole di Pertinace.

Stette così qualche momento e concluse il rapido ragionare con l’ammettere: “Avete ragione” che a Pertinace risultò sorprendente, conoscendo la scarsa arrendevolezza di Pietro. Pietro però aveva sì un caratteraccio, per immedesimazione forse con qualche irsuto personaggio dei libri di Hugo, ma il suo era un cervello fino, di quelli che riescono a percepire, nell’apparente semplicità delle parole, il significato nascosto del concetto.

“Te ne dico una, fra le tante, di particolare sapore, così ti puoi consolare” continuò Pertinace. “L’altro giorno parlavo del più e del meno con Ferruccio - lo conosci Ferruccio? - e, avendo io avuto occasione di citare nel discorso la frase latina ‘o tempora, o mores’, ebbe l’ardire, con tono che non ammetteva replica, di affermare d’aver letto in un muro, all’interno di una chiesa, le parole ‘memento mores’. Ora, forse tu non lo sai, i preti conoscono il latino alla perfezione e mai e poi mai avrebbero commesso un errore tanto grossolano volendo dire ‘memento mori’ che significa ‘ricordati che devi morire’, tanto più che, come egli stesso asseriva, si trattava di muro e di scritto antichi. Ma poco importava a Ferruccio l’enormità che andava dicendo e che gli rinfacciavo. Anzi, la mia assoluta incredulità accresceva la sua ostinazione. A lui, oltre a comunicarmi che aveva fatto un viaggio straordinario, visitato la tal chiesa e il tal lontano paese, premeva soprattutto di farmi sapere, senza dirlo esplicitamente, che aveva avuto il privilegio di imbattersi a rilevare una circostanza del tutto eccezionale, unica, impensabile, negata a tutti gli altri esseri viventi. In una parola, voleva persuadermi di una castroneria senza esserne convinto intimamente, pur di apparire il protagonista e lo spettatore unico di un evento palesemente non credibile. A nulla approdarono i miei tentativi di conoscere il paese e la chiesa per potermi mettere in contatto con quel parroco. Mostrava di offendersi per la sfiducia e perciò lasciai cadere il discorso. Questo ti dimostra a quale basso livello possano condurci le frustrazioni”.

Pietro era frastornato.

Stentava stavolta a penetrare il significato pieno delle parole di Pertinace, tanto più che, se aveva capito bene, Ferruccio ne usciva malconcio.

Di Ferruccio, sarto all’antica, Pietro aveva stima e una lontanissima parentela. Sapeva che con l’ago in mano era insuperabile. Venivano anche da fuori a farsi confezionare gli abiti, era onesto nei prezzi, puntuale nelle consegne, uomo di chiesa e di famiglia, rispettato da tutti e rispettoso di tutti. Lo considerava insomma immune da contaminazioni intellettuali e gli riusciva difficile di accettare l’idea che un uomo siffatto si fosse lasciato tentare da un confronto con Pertinace dal quale non poteva che risultare perdente.

“Sono rimasto di sasso, signor maestro” disse Pietro sbarrando gli occhi e allargando le braccia. “Non riesco a rendermi conto di due cose. La prima, perché Ferruccio, che tutti sappiamo chi è, conoscendo chi gli stava di fronte, si sia incaponito a dire cose che voi, giustamente, definite castronerie. La seconda, perché dall’episodio state traendo conclusioni che riguardano tutti quanti, anche noi, visto che avete detto ‘...possono condurci...’. Ma, in definitiva, cosa diavolo intendete dire quando parlate di frustazioni?” chiese Pietro con evidente apprensione.

Le parole lievitarono un poco nell’aria e poi si avvolsero come un velo sull’immagine di Ferruccio che idealmente si frap­poneva ai due. Pertinace si aspettava la domanda e intuì che alla base di essa non c’era soltanto curiosità ma sincero desiderio di conoscenza, a motivo anche dell’ultima parola storpiata. Fissò gli occhi negli occhi di Pietro con la penetrante intensità di un raggio, non perché volesse, come usa dire, incenerirlo, ma per creare con lui una sorta di linea di comunicazione stabile.

“Frustrazioni, con la erre, non frustazioni, asino!” gli disse Pertinace, arrossendo lievemente per l’epiteto al quale non era abituato.

“Cerca da qualche parte il significato di questa parola e domani ne riparleremo” continuò “Ricordamene. Ora torna a casa altrimenti tua moglie si mette in pensiero se non ti vede ritornare”.

“Ti saluto e ti ringrazio del fico”. “Grazie a voi. Vi saluto” rispose confuso Pietro che rassettò le foglie di vite sulla frutta, le affrancò con i fili di ginestra, fece passare il bastone nel manico del paniere, lo sollevò, l’appoggiò in ispalla e si diresse verso casa strascicando i passi sulle foglie secche dei castagni.

Il tratto di strada che lo separava dalla casa, per una buona metà in ombra, gli sembrò lungo come non mai. Desiderava, da una parte, cambiare scenario, e a questo avrebbero provveduto i figli e il trambusto della casa, e, dall’altra, affrettare il momento della consultazione del dizionario per capire cosa volesse esatta­mente intendere Pertinace con quella parola appioppata a Ferruccio e a tutti quanti. Ferruccio era per lui un riferimento preciso e vederselo maltrattato a quel modo gli sembrava di mancare di un punto di appoggio, come succede a chi, al termine di una scala, sicuro d’aver disceso tutti i gradini, rischia invece di cadere perché ne manca ancora uno. Il turbamento aumentava pensando che poteva essersi egli stesso trovato qualche volta, senza avvedersene, nella medesima condizione di Ferruccio ed essere stato compatito unicamente dalla ben nota magnanimità di Pertinace.

Il sole ancora infuocato, che lo accompagnò per il secondo tratto della strada, gli ingarbugliò i pensieri a tal punto da non sentire la voce di sua zia Albertina che lo chiamava da un angolo della piazza: “Pietro, Pierino, le uova! Ti do le uova fresche per i bambini! ”. Non c’è stato verso: non la sentì. In fondo alla piazza, nello stesso vicolo di Pertinace, varcò un largo portone di legno vecchissimo, rattoppato e bugnato con un numero inverosimile di grosse teste di chiodo arrugginite, che immetteva in un cortiletto fiorito sul quale davano le finestre di casa sua.

Il passaggio repentino dalla luce abbacinante all’ombra gradevole del cortile gli procurò una sensazione di sollievo che crebbe lungo il breve percorso rallegrato dalla presenza dei fiori. Si fermò un po’ a rimirarne i colori stupendi e vi tuffò avidamente, con lo sguardo, anche i pensieri, sperando che ne uscissero immacolati. Invano. Rimase lì imbambolato e incerto qualche momento, fin quando le mani grassottelle del figlio più piccolo non si aggrapparono alla sua manona pencolante per trascinarlo festosamente dentro casa.

Pertinace, dopo la breve chiacchierata, sfilò dalla tasca un libriccino, si godette il fruscio dei passi affrettati di Pietro sulle foglie secche e si immerse poi nella lettura, incurante del lontano ronzio di due calabroni in litigio e di un minuscolo ragnetto che si dondolava alla propria bava da un ramo altissimo giù giù fin quasi a sfiorare le tese del cappello abbandonato sull’erba. Si dimenticò sia di Pietro che di Ferruccio. Stette fino a tardi, fin quando il sole, schermato dalle tozze case affiancate sul lato del tramonto, cessò di infierire sulla piazza. Decise infine di rientrare e s’incamminò lungo la stradetta.

Nel breve tragitto gli tornò in mente l’immagine sbigottita di Pietro.

     Attraversò il vicolo e dal portone scorse Pietro seduto a tavola. I loro sguardi si incrociarono ma Pertinace non riuscì a desumere, dalla incerta espressione del viso, se quello avesse già consultato il dizionario.

 

Lorenzo Milanesi

(continua)


Da "Tiramisù - Ossia l'incontenibile desiderio"

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Piazza Scala News - settembre 2012