VIRUS - nona parte
da LABIRINTI di Fortuna Della Porta

 

I becchini, proprio quelli che si davano da fare di fronte a lui, erano i soli che quasi sfidavano la sorte. Entravano negli obitori, si introducevano nelle case e ne tiravano fuori i cadaveri, il tempo
necessario per sfilare anelli e collane e, nelle abitazioni, per far man bassa di denaro e oggetti preziosi. Lavoravano in quattro o cinque, di solito. Caricavano su un furgone il defunto, affidavano il resto della famiglia, se si era salvata, agli addetti alla profilassi e sgommavano con la benzina per loro disponibile lungo le strade abbandonate.
Queste erano le voci che giravano e in parte ne era convinto anche lui.
Nel lato della rivendita del pane, ogni volta che dava una mano ai due commessi, sin dalle prime avvisaglie dell'epidemia aveva raccolto testimonianze di cinismo ributtante. Una cliente dai polsi scarni, agitando le mani come ventagli, una volta raccontò:
-Hanno portato via persino il guinzaglio del cane. Si riferiva a suo padre.
Fu una degli ultimi giorni prima della psicosi.
Fabio dopo quello che aveva visto sotto il colonnato sentì gli occhi intasati di muco e di capillari. Si passò una mano tra i capelli a spazzola come per allontanare i pensieri e poi ricordò il resto.
Rientrando nella notte a distanza di qualche giorno, Fabio aveva visto la porta della casa di Massimo spalancata e la casa saccheggiata.
Mancavano persino le coppe e i trofei che aveva collezionato dalle sue gare amatoriali. Massimo doveva essere morto in solitudine perché non se ne era neppure accorto. Del resto, a saperlo, si sarebbe limitato a chiamare l'assistenza, perché con una moglie e un figlio aveva il sacrosanto dovere di proteggersi.
Dopo cena aveva domandato a Clara se avesse sentito rumori dall'appartamento di fronte. Lei aveva cominciato a piangere senza rispondere. Nel prendere un bicchiere le era scappato di mano e a quel punto aveva urlato:
-Non ce la faccio.
Dal seggiolone Daniele aveva cominciato a piangere a sua volta sollevando le braccia fino alle spalle col cucchiaio nella destra. Fabio lo aveva raggiunto con un tovagliolo per raccogliere le lacrime e gli
anelli di pasta sul visetto arrossato.
-Non è nulla. Vieni in braccio.
Né Clara né il piccolo si erano calmati subito. Daniele sembrava dipendere dalla madre perché ogni volta che rasserenato si girava verso di lei riprendeva a singhiozzare.
Un tale in camice bianco, sigillo da medico sul bavero, una piega sulle guance, lo prese ai suoi pensieri e lo costringe a girarsi:
-Lei come è arrivato fin qua? Sparisca, prima che incontri qualcuno meno comprensivo… Non ha letto i cartelli? Lo sa che rischia la prigione?
Interrompendolo, con gli occhi sgranati Fabio si strinse nelle spalle e implorò:
-La prego, la prego. Mi aiuti a trovare mio figlio e mia moglie. Lei lavora per caso al S. Spirito? Ho bisogno d'aiuto. Mi dia una mano, per favore.
Traendo un ah! che voleva essere di sgomento il medico non fece nulla per rassicurarlo e non dichiarò nulla che non sapesse già: gli ospedali non smaltivano più le segnalazioni e in pratica ci si limitava alla raccolta dei cadaveri.
-Ma lei, è sicuro di stare bene? disse fermandosi ad esaminarlo.
Fabio si sentiva in tanti modi, ma non certo bene:
-Grazie, sono a posto.
Una folata di vento portò in avanti i lunghi capelli del medico.
Osservò Fabio con le labbra tirate come se dicesse faccia come crede e ad un tratto si mise a parlare di sé. Gli raccontò che non dormiva da tre notti e credeva ormai di essere sul punto di cedere. 
-Non siamo macchine, disse, anche i medici rischiano il crollo.
Era addetto alla raccolta di un campione dei tessuti per l'esame del DNA per i defunti non identificati, ed erano tanti, per quando i parenti superstiti sarebbero venuti a chiedere conto del luogo di sepoltura dei congiunti. Per ora ciascuno era semplicemente registrato con un
numero.
-Mi sono accorto che più d'uno dei colleghi e degli infermieri dà segni di squilibrio mentale e col braccio a mezz'aria indicò la direzione dell'ospedale.
Un linguaggio tanto esplicito costrinse il cuore di Fabio a una capriola.
-Se vuole tentare, concluse il medico già lontano di qualche passo con le mani in tasca, in realtà come se non ci credesse affatto, provi all'unità di crisi. Al Campidoglio…Loro hanno le liste. Buona fortuna!
Il cervello umano non sopporta un eccesso di emozioni, per questo alcuni dolori lasciano svuotati più che dolenti. Fabio si convinse che il cervello per difendersi, si paralizza, perciò si sentiva intontito, come se avesse ingoiato ipnotici, un sedativo qualsivoglia.
Lento sui pedali, risaliva frattanto Corso Vittorio Emanuele e, poco prima di piazza Argentina, d'un tratto accelerò. Era giorno ormai ed era quasi arrivato.
Il cielo si dilatava, nitido come il giorno innanzi.
Accanto alla gradinata cercò un posto per nascondere la bicicletta che poteva far gola a qualcuno, ma poi per sicurezza ancora una volta la portò con sé. Troppo preziosa, mormorò tenendola per il manubrio. Di tanto in tanto, gente infagottata, la testa bassa, rasentava il lato opposto.
Dopo vari giri a vuoto e porte chiuse, l'unità di crisi era costituita da un tale dietro un vetro, palesemente sfinito, che smaltiva una fila di parecchie persone. Proprio mentre entrava, Fabio lo vide in lontananza strapparsi la mascherina e prendere fiato.
Il naso globulare e gli zigomi schiacciati erano solcati da un segno rosso sbilenco.
Pensò alla bicicletta nascosta dietro un pilastro.

Fortuna Della Porta
 

 

 

 
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Piazza Scala News - ottobre 2011