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La frustrazione

 

 

L‘indomani fu una giornata anonima come tante altre. S’era alzato un venticello leggero che mitigava il caldo dei giorni passati. Pertinace dava annoiate ripetizioni a due ragazzi più interessati però a sbirciare le evoluzioni di una palla con la quale i loro amici giocavano lì davanti che a seguire la lezione del maestro.

Pietro s’era recato di buon’ora in campagna a scegliere e tagliare un giovane albero di castagno che doveva servirgli per costruire una scala a pioli commissionatagli da fuori. Se ne tornava sul mezzogiorno col palo in spalla, accigliato e con tutti i dubbi del giorno precedente. In effetti egli aveva sì consultato il dizionario ma era rimasto nell’incertezza, per non dire nel dubbio completo, forse perché un conto è cercare il significato di una parola, un altro capirlo e rimanerne soddisfatti. Ora scrutava l’occasione per incontrare Pertinace e fargli un segno d’intesa, di disponibilità a riprendere il discorso interrotto.

Dalla finestra aperta lo intravide curvo sulle carte.

Proseguì verso casa, posò il palo nel cortile contro il muro e si mise a lavorare in bottega fino all’ora di pranzo.

Quel giorno Pertinace era giù di corda per via di piccoli contrattempi che sembrava avessero congiurato per metterlo di malumore. Del resto, chi concepisce la vita come un tran-tran piacevole anche nella monotona semplicità e se ne abitua a tal punto da considerarlo - come altri fa dei divertimenti più sfrenati - il migliore dei sistemi per godere di tante piccole soddisfazioni che, messe insieme, fanno un grande piacere, mal sopporta che una o più tessere del suo piccolo mosaico vadano fuori posto. In altre parole, che sia privato di un sia pur piccolissimo godimento. Così era fatto Pertinace e quel giorno poi i piccoli piaceri negatigli erano stati troppi. A cominciare dalle prime ore del mattino con la sveglia che gli era caduta dal comodino mentre tentava di fermarne lo squillo e ora aveva il pensiero di doverla far riparare.

Per passare al giornale nel quale, per un raro inconveniente nell’assemblaggio tipografico dei fogli, la terza pagina, quella prediletta, risultò talmente spiegazzata e maltrattata dagli ingranaggi che non era più leggibile. E, infine, alla scarsa partecipazione dei due ragazzi alle sue lezioni di ripetizione. Piccole cose, d’accordo, ma bastevoli per creargli il malumore che si sentiva in corpo.

Era l’ora di pranzo e il pensiero di scambiare due parole con Mariascia, un donnone sulla cinquantina che lo accudiva da anni, gli attenuò la sensazione di contrarietà. Alla fine però si avvide che quelle due parole, perché più di tante non riuscì a cavar fuori dalla bocca di Mariascia, non bastarono a restituirgli la sospirata tranquillità e d’un tratto gli venne in mente Pietro.

Si ricordò di avergli assegnato un compito che certamente andava al di là delle sue forze e soprattutto di avergli letto negli occhi il turbamento per la figuraccia rimediata da un uomo come Ferruccio. Voleva incontrarlo per riequilibrare le cose e disse a Mariascia, finiti i mestieri di casa, di passare da Pietro a dirgli che desiderava vederlo.

Pietro non aspettava altro. Ringraziò Mariascia, che lo ricambiò - senza fiatare - con un’occhiata obliqua di gelosia e di disprezzo per la stima che Pertinace gli accordava, e in meno che non si dica si recò da lui.

“Hai guardato?” gli disse, come per continuare un discorso mai interrotto. “Sì, ho guardato” rispose Pietro inquadrandolo con occhi di cane bastonato che volevano dire “Non chiedetemi nulla di più”. Pertinace capì ma non se ne curò. Era curioso, il che significava che cominciava a star meglio, di sapere come Pietro se la fosse cavata con un problema superiore alle sue forze.

“Coraggio dunque, dimmi con due parole cos’hai letto!” lo investì perentorio Pertinace.

Pietro si trovò nell’ingrata situazione di chi, godendo di simpatia e buona reputazione, rischia di perderle per pura dabbenaggine. “Ma, veramente...” balbettò “Dimmi esattamente cos’hai letto e lascia in pace i ma e i veramente! ” lo apostrofò Pertinace. Pietro cavò di tasca un pezzo di carta su cui c’erano scritte due parole che pronunciò ad alta voce: “Nevrosi -Psicosi”. “Tutto qui?” incalzò Pertinace. “Il mio è un vocabolario per modo di dire. Gli assomiglia ma non lo è” rispose Pietro. “Ho cernito quella parola e mi ha rimandato a queste. Ognuna di esse aveva una descrizione lunga”. E Pertinace: “Tu cos’hai capito?”.

Ah! io niente. Poco e niente! ” rispose Pietro guardingo, allargando le braccia finché potè. “E la risposta migliore” continuò Pertinace, contento - tutto sommato - che Pietro non si fosse avventurato in qualche astrusa argomentazione.

Pietro stava quasi pensando che Pertinace volesse burlarsi di lui, ma non ne ebbe il tempo perché questi aggiunse: “Anch’io, sui, non è che sia particolarmente ferrato sull’argomento. Ho però l’impressione che, quando si parla di nevrosi in generale, si tratti di un grosso recipiente nel quale ci stanno molte, moltissime cose”.

“Già il fatto che non sono la conseguenza di malattie ma esclusivamente alterazioni delle funzioni, ti dice quanto ampio possa essere il panorama dei disturbi grandi e piccoli che vi possono entrare e quanto difficile la loro precisa catalogazione. Uno di essi, in assoluto forse il più diffuso, parte dal cosiddetto sentimento di inferiorità. Esso provoca frustrazione che, a sua volta, scatena il bisogno di compensare, il quale vuol essere, a suo modo, un sistema di riequilibrio. E la teoria di un grande ricercatore austriaco, Adler”.

"Piano, piano, signor Maestro” lo interruppe Pietro portandosi la mano destra sulla fronte e la sinistra, aperta, verso Pertinace quasi a fermarne l’irruenza verbale. “Già il mio vocabolario è stato avaro di chiarimenti per conto suo, se poi ci aggiungete le alterazioni delle funzioni, i sentimenti, il bisogno di compensare, il riequilibrio e questo Alder, Adler o come diavolo si chiama, io non mi ci raccapezzo più. Voi parlate come se io abbia frequentato le vostre scuole o letto i vostri libri”.

"Scusami” rispose mogio Pertinace “Hai ragione, la colpa è tutta, i mia perché mi sono lasciato trascinare da quelle due parole che hai trovato nel tuo vocabolario: nevrosi, psicosi. Esse mi hanno spinto nel bel mezzo del discorso, col rischio di confonderti le idee. Che sarebbe poi l’esatto contrario di quello che vorremmo”.

“Eh! ” esclamò Pietro con tono di voce conciliante che voleva dire: finalmente l’avete capito!

“Dobbiamo invece procedere per gradi” proseguì Pertinace. “Per prima cosa analizzare il percorso dell’uomo, di questo bipede malsicuro sulle gambe, fin dall’infanzia. Prendiamo atto anzitutto che egli, quasi lo abbia scritto nel codice genetico, manifesta fin da bambino quell’esigenza di unirsi e operare con gli altri che Adler definì ‘sentimento sociale’. Questo vuol dire che ognuno di noi, fino dalla più tenera età, prova piacere a vivere e crescere fra i propri simili, partecipa cioè emotivamente al bisogno di solidarizzare con gli altri”.

“Tuttavia il bambino, dovendo destreggiarsi in un mondo sconosciuto e misurarsi con soggetti più dotati, diventa vittima della cosidetta inferiorità infantile.

“Di norma, se egli riceve dall’ambiente - in primis dalla madre - il soccorso protettivo che lo aiuti in modo stabile e rassicurante, questa condizione sarà bene assorbita, altrimenti degenera in complesso d’inferiorità”.

“Tornando alla norma, nel corso della crescita l’individuo è chiamato - per natura - a realizzare un importantissimo progetto, quello che lo vedrà impegnato per l’intero arco della sua vita, conquistare cioè l’amore, trovare il lavoro più congeniale e l’amicizia più duratura”.

“Portare a compimento questo progetto, viste le enormi difficoltà che troverà sulla sua strada, fra le quali l’incoercibile forza dell’ambiente nel quale vive, significa per l’uomo possedere forti dosi di quel sentimento sociale di cui abbiamo già detto e quindi padroneggiare e piegare ad esso quella tendenza a prevalere che è innata e che, altrimenti, sarebbe destinata a degenerare”.

“Mi stai seguendo?” chiese Pertinace.

“Sì, sì” rispose l’altro con un mezzo sorriso.

“Se riesce in questo programma” proseguì Pertinace “si dice comunemente che l’uomo è psichicamente sano e integrato. Se non vi riesce, succede che egli devia, si allontana cioè dai propri simili, tende a isolarsi e crea fra sé e gli altri una distanza ragguardevole. Per la verità tanta gente approda felicemente al traguardo. Altri però si lasciano trascinare dalla volontà di potenza, dal bisogno irrefrenabile di affermarsi e prevalere sugli altri. Col risultato di vivere in permanente tensione verso un obiettivo ‘superiore’ o che abbia i caratteri della superiorità”.

“Che è poi il modo classico di sovrapporre a un’avvertita inferiorità un’istanza di superiorità, in ultima analisi, una compensazione”.

“Sicché noi, per modo di dire, nasciamo già marchiati?” intervenne Pietro.

“ Non è che noi nasciamo già col marchio” rispose Pertinace, "il fatto è che crescendo ci guardiamo intorno, ci confrontiamo con i nostri simili, cominciando da quelli che ci stanno vicino, e piano piano tendiamo a diventarne superiori. Se poi abbiamo motivo di considerarci privi di qualche requisito che reputiamo importante, in quel momento il bisogno che prima era nei limiti, diciamo pure, del naturale, prorompe e diventa spinta interiore, spasmodica e irrefrenabile a sollevarci, a collocarci in qualche modo in una posizione di superiorità”.

“Sono stato chiaro?” concluse Pertinace.

"Ora comincio a capire qualcosa” rispose Pietro, che aggiunse: “Allora tutto partì da questo vostro Alder o Adler?”.

"No, no” proseguì Pertinace “tutto c’era già prima di lui. Adler, il nome giusto è questo, diede corpo alla teoria di cui stiamo parlando. Egli associò al sentimento di inferiorità anche l’istinto di dominazione”.

"Ma insomma come si potrebbe definire con parole semplici questo malessere che, se non ho capito male, interessa un po’ tutti quanti? e quale attinenza c’è fra nevrosi e psicosi che il mio vocabolario, si fa per dire, non è riuscito a farmi capire?” chiese Pietro.

"La frustrazione, il malessere - come tu lo chiami - non è altro che una condizione di avvilimento nei riguardi di una realtà avvertita o percepita come insuperabile o inarrivabile” rispose Pertinace “e la differenza fra nevrosi e psicosi consiste, in parole povere, nell’essere consci o meno del proprio stato. In breve, se un tizio crede di essere Giulio Cesare ma avverte l’assurdità di questo fatto, si può dire che è nevrotico. A lui sta bene così e ne trae qualche vantaggio. Se invece non ne avverte l’assurdità, ne è - dal suo punto di vista - convinto, significa che è affetto da psicosi, che è una vera e propria alterazione mentale”.

La porta della stanza non era chiusa del tutto. Dalla fessura Pietro riusciva a scorgere la sagoma di Mariascia che appariva e scompariva in continuazione. In effetti essa era in preda a un’incontenibile curiosità di sapere perché mai Pertinace degnasse Pietro, un semplice falegname, di tanta confidenza.

Si sa che le persone di servizio e simili, per una sorta di processo di identificazione, tendono a collocarsi mentalmente allo stesso livello del padrone, fino ad assumerne i medesimi atteggiamenti. Accade, come in questo caso, che - temendo di esser¬ne spodestate - esse non accettino la nuova collocazione e si lascino prendere dalla gelosia.

Ecco, Mariascia era gelosa di Pietro. Vi fu perfino un momento nel quale si soffermò, paonazza, a origliare dalla fessura per tentare di capire il senso della conversazione. Pietro ne incrociò lo sguardo pieno di malanimo ma non gli riuscì di capire di più.

“Ritornando alla frustrazione” - proseguì Pertinace - “a mio parere essa va intesa come l’effetto palese o potenziale di un confronto dal quale il soggetto trae per sé conclusioni di segno negativo. La consapevolezza di trovarsi in questa condizione, produce nel suo cervello un avvilimento che va sotto il nome appunto di frustrazione”.

“Il che equivale a dire che egli soffre, si sente - ecco - frustrato, defraudato di certe soddisfazioni, che giudica importantissime, per il fatto di risultare inferiore a qualcuno, a quella situazione, eccetera, con cui si è mentalmente confrontato. Oppure, ancora, di non godere delle stesse opportunità o della medesima considerazione, di non possedere analogo potere o ricchezza, o di non appartenere a una classe di pari levatura, e così via. Ed è tanto acuto il suo malessere che reagisce e tende a ottenere, in tutto o in parte, la quota che gli manca in beni, materiali o immateriali che siano, e che il confronto per chiarissimi segni gli nega. Questa operazione che egli mette in moto, questa incontenibile necessità di colmare un vuoto, di bilanciare l’inferiorità puntando alla superiorità, prende nome di compensazione”.

“Non c’è dubbio quindi che il movente vada ricercato - come dicevamo - proprio nella frustrazione”.

“Ora, se tutto questo di cui stiamo parlando è vero, come è stato sempre vero, fino dalle epoche più remote, puoi immaginare quanto pochi siano gli individui immuni da frustrazione”.

“Hai capito? Naturalmente ci sono vari livelli. C’è chi ne è colpito in modo pesante e chi in modo lieve. Nell’ambito di questi due estremi ci trovi però rappresentata una grossa porzione del genere umano e quindi anche Ferruccio”.

Fu una dose d’urto per Pietro al quale ora cominciavano schiarirsi i contorni dell’argomentare e il significato di massima di quanto aveva ascoltato.

Tuttavia, soggiogato dal fascino del discorso e lusingato dal fatto che Pertinace - checché ne pensasse Mariascia - lo riteneva idoneo interlocutore di tanta conversazione, prese il coraggio a due mani, spostò il berretto all’indietro verso la nuca afferrandolo per la visiera con il pollice e l’indice, come usano fare certuni  non si sa bene se per conferire maggiore forza al loro ragionamento o per fare in modo che la fronte, libera da impedimenti, possa finalmente esprimere chi sa quali profondi pensieri o per entrambi i motivi, e scaricò su quattro parole, di numero, la sua tensione: “Sicché” disse accompagnando ogni parola con l’apertura di un dito della mano a pugno “Confronto,  Consapevolezza, Cervello, Compensazione”.

" Esattamente” rispose Pertinace, felice che Pietro fosse riuscito a cogliere l’essenza del discorso. E seguitò: “Ora vado al bosco, se vuoi goderti un po’ di fresco vieni anche tu”.

“Certo, certo” rispose Pietro “faccio un salto a casa per sistemare una faccenda e vi raggiungo. Incamminatevi”.

I e ultime parole giunsero a Pertinace che Pietro, rassettato il copricapo con una manata, era già sparito. Entrambi si diressero separatamente verso il bosco accompagnati, l’uno, dalle amorevoli e risapute raccomandazioni di Mariascia, tutte improntate a divieti del tipo “non toglietevi la giacca”, “non scopritevi il capo sotto il sole”, “non bevete acqua fredda”, “non tornate troppo tardi”; l’altro, dallo sguardo severo della moglie e dalle sue ironiche frecciate “non si mangia pane andando con Pertinace”, “quando si ha una famiglia con tre figli da sfamare non ci si può perdere in chiacchiere”.

Parole sagge ma inutili in entrambi i casi. Pietro ansimava per la corsa fatta per raggiungere Pertinace che era già arrivato sul limitare del bosco con minore fatica del solito. Non parlarono quasi per tacita intesa. Il bosco li accolse nel suo verde mantello, con le sue ombre, le acque chiare, le foglie secche dei castagni e il cinguettìo eccitato delle innumerevoli specie di uccelli.

A casa, la moglie di Pietro continuava a rodersi il fegato con l’abituale soliloquio: “Pezzo di fannullone, perdigiorno. Il legname è lì che si stagiona e lui va a spasso con chi è pagato lo stesso dal Governo, se lavora e se non lavora. Ma già, noi in casa abbiamo il sapientone, l’intelligente che se la fa con chi ha studiato e dovremmo saltare di gioia solo per questo.

Così ai figli diamo da mangiare le chiacchiere di questo e di quello. Povero fesso”.

 

Lorenzo Milanesi

(continua)


Da "Tiramisù - Ossia l'incontenibile desiderio"

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