Piazza Scala News - marzo 2013

 

    Le quattro "C"   

 

Pertinace occupò la sua “poltrona” dopo aver rinnovato il cuscino con felci fresche e Pietro gli sedette a fianco su quelle scartate. “Quattro C” esordì Pertinace poggiando la schiena al tronco del castagno, “ma non in quell’ordine”. Fu come se Pietro fosse piombato in un fittissimo banco di nebbia. Non era abituato ad ascoltare da Pertinace linguaggi ermetici e restò perplesso. Ma questi lo tolse d’impaccio precisando: “L’ordine è: Cervello, Confronto, Consapevolezza, Compensazione. Che poi abbia necessità di usare questi termini, per così dire, alla rinfusa, non significa che l’ordine non debba essere quello che ho detto. Però intendiamoci subito prima di addentrarci in qualche discorso lungo e impegnativo”.
"Io non sono, come già ti dissi, uno specialista che aspiri a sconfinare in campo altrui o - per carità - a pontificare su materie complesse come sono quelle che riguardano in genere le manifestazioni del cervello umano. Non è nel mio stile e sarebbe un imperdonabile atto di presunzione”.
"Io sono soltanto quello che tu sai, cioè un uomo di modesta cultura, con qualche briciola di conoscenza filosofica che mi consente però, combinandosi con l’esperienza, di arrivare a conclusioni che mi sembrano importanti perché confortate dal buon senso”.
"Non pretendo, si capisce, né di scoprire l’acqua calda e neppure di impersonare una nuova corrente di pensiero”.
"Però dimmi tu cosa servirebbe avere letto tanti libri, averne assimilato la parte che è concesso a ognuno di assimilare, avere avuto rapporti con tanta gente dell’età più disparata e di sesso e razza diversi, avere viaggiato, gioito e sofferto, avere accumulato un prezioso bagaglio di esperienza, se poi ci fosse negata la possibilità di tirare le somme, di dire infine a qualcuno come la pensiamo su qualche aspetto della vita e di portare il nostro piccolissimo contributo alla crescita della società? Cosa ci servirebbe avere avuto l’immensa fortuna di esistere dopo i lumi se poi non mettessimo a disposizione, almeno del nostro prossimo immediato, il frutto più qualificante della nostra esistenza e cioè il nostro pensiero?”.
Pertinace tirò il fiato, accavallò la gamba destra sulla sinistra e si portò la mano aperta sulla fronte - a mo’ di visiera - come per proteggersi dalla luce e allungare quindi la gittata dello sguardo per dare un nome alla figura femminile che intravvedeva in lontananza al confine tra le acacie e i castagni.
Pietro si sentiva ai sette cieli, come si usa dire, e pensò perfino con tenerezza alle ultime parole con le quali sua moglie lo aveva fulminato uscendo di casa.
Una parola di Pertinace gli riuscì difficile da capire e ne chiese spiegazione: “I lumi?”. “I lumi, i lumi, la luce, l’illuminazione, l’illuminismo!” rispose pronto Pertinace, accalorandosi.
E proseguì: “Dopo il buio c’è stata la luce. Dopo il Medioevo, a torto considerato tenebra, l’uomo si ricordò delle sue radici e riallacciò rapporti più stretti con gli antenati dell’Umanesimo e del Rinascimento che hanno dato all’Europa una specie nuova di fauna umana, sviluppò energie sconosciute e ragionò infine in termini moderni riabilitando, se mi permetti di parlare così, il proprio cervello. In poche parole, prima l’uomo era in uno stato di minorità, incapace di servirsi del proprio intelletto senza essere guidato da altri; i lumi o l’illuminismo rappresentarono l’uscita dell’uomo dalla minorità dovuta a propria colpa. Questo concetto - bada bene - non è mio ma di Emanuele Kant. Non so se mi spiego”.
La figura femminile prima intravista da Pertinace s’era frattanto avvicinata ai due, nei pressi dei quali passò accennando ad un saluto senza neppure alzare gli occhi.
Non era del paese. Pertinace e Pietro risposero al saluto interrogandosi con lo sguardo se uno dei due la conoscesse e rispondendosi negativamente col capo. Pertinace continuò: “Hai capito, allora, cosa sono i lumi?”. “L’avete detto voi. Il cervello...” disse Pietro. “Ecco, bravo” lo interruppe Pertinace “da qui dobbiamo partire per il nostro discorso sulla frustrazione”.
Dopo un istante di riflessione continuò: “In passato si designavano quali sedi di sentimenti o di attività spirituali, parti del nostro corpo diverse dal cervello”.
“Così il cuore era la parte dove risiedevano i sentimenti in senso lato, il torace era quella destinata all’anima, il fegato o altri visceri assolvevano ad altre funzioni similari, e così via”.
“Tra parentesi, a nulla era valsa l’intuizione di Ippocrate, considerato il padre della medicina, che nel 500 avanti Cristo, aveva scritto: “L’uomo deve sapere che da null’altro che dal cervello provengono gioie, piaceri, sorrisi e divertimenti e dolori, tristezze, sconforto e lamenti”.
“Quelle convinzioni, frutto di ignoranza, resistettero fino a quando gli studi, le ricerche e le scoperte non le spazzarono via. Ci si avvide, insomma, e ora è universalmente acquisito, che nulla o quasi accade in noi, di fisico o di metafisico, che non sia espressione diretta o indiretta di precise funzioni del nostro cervello. Anche quando esse funzioni sembrano ubbidire a meccanismi di autoregolazione, l’attività connessa è sotto diretto controllo del cervello”.
“Ne discende che tutte le definizioni generiche, come cuore, mente, anima, spirito, pensiero, psiche, intimo e simili, identificano di volta in volta settori circoscritti o attività ben precise di dello straordinario, sconfinato e, per molti aspetti, misterioso laboratorio-archivio che è racchiuso nel nostro cranio. In questa sede occorre dunque ricercare la fonte di tutti i comportamenti umani e in definitiva di tutto il bene e il male esistenti sul nostro pianeta”.
“Senza l’attività del cervello, nelle sue manifestazioni via via sempre più evolute, da quando migliaia e migliaia di anni fa l’uomo si alzò in piedi, maneggiò la clava, pose al suo servizio il mondo circostante, inventò la ruota, si destreggiò nell’elemento liquido dal quale forse proviene, costruì palafitte, giù giù fino alle piramidi, a Ulisse, al pensiero di Socrate e all’arte di Fidia, a Copernico e a Galileo, a Leonardo, a Erasmo, a Cartesio, a Voltaire, a Mozart, a Einstein e a tantissimi altri rappresentanti illustri del genere umano, senza questa formidabile e incontenibile forza propulsiva, protesa in ultima analisi a conoscere e sapere sempre di più, l’uomo sai cosa sarebbe? Un semplice tubo digerente. Un essere come tanti altri che non avrebbe altro scopo se non quello di predare e assicurare la continuità della specie”.
“Ma - in tal caso - a che prò?  Se non possedesse le qualità su-periori che abbiamo detto, se non fosse divorato dal fuoco della conoscenza, se non fosse il detentore di questa fornace nella quale brucia autoalimentandosi la preziosa quantità di energia che lo pone nettamente al di sopra di qualsiasi altro essere vivente, egli - l’uomo intendo - camminerebbe ancora su quattro zampe, coperto di peli e munito di coda, sperduto nella savana o sulle rive dei fiumi o abiterebbe sugli alberi della foresta tropicale. Capisci allora cosa intendo dire quando parlo di cervello?”.
“Sì, sì, capisco” rispose Pietro “un animale straordinario” e, sperando che Pertinace non lo sentisse, mormorò “una specie di Padreterno”. Ma erano tanto vicini che lo sentì e lo apostrofò: “Fai in fretta tu a dire che hai capito, ma se vieni fuori con l’animale e il Padreterno dimostri esattamente il contrario. Può darsi, è vero, che animale sia stato nel lontanissimo passato, ma non lo sappiamo con certezza matematica. Ora però non lo è più se a questa parola diamo il significato che comunemente si dà. Quanto poi al Padreterno andrei cauto; non vorrei entrare in discussioni di tipo religioso che potremmo fare in altro momento. Per ora stiamo coi piedi per terra e limitiamoci a prendere atto dello stadio evolutivo al quale l’uomo è arrivato grazie unicamente alla meravigliosa struttura del suo cervello”.
“Animale no, Padreterno no, ma allora cos’è l’uomo?” chiese Pietro sicuro di attizzare un fuoco già gagliardo per proprio conto.
“Uomo e basta” rispose Pertinace “Dici poco? E vero che talvolta si crede o si sente un Padreterno. Ma quando assume atteggiamenti di questo tipo sbaglia o finge. Egli è soltanto un essere dotatissimo, coi pregi che abbiamo enumerato, ma ancora con tanti difetti. Insomma un uomo e basta, ecco”.
Pietro era estasiato e manifestò il suo stato d’animo con un’esclamazione che restituì più vigore all’infervorato eloquio di Per-tinace. Disse, facendo cerchio con entrambe le mani intorno al capo: “Certo, sembra un prodigio che una scatola così piccola possa celare un meccanismo tanto complicato e affascinante”.

“Non è soltanto questo” riprese Pertinace “è anche misterioso e fors’anche geloso della sua complessità. Tant’è vero che quel poco che gli specialisti presumono d’aver capito, l’hanno desunto dallo studio degli ‘ingressi’ e delle ‘uscite’, cioè da quanto il cervello eredita o gli perviene (ingressi) e dai conseguenti comportamenti (uscite). Ma questo metodo, che potrebbe rivelarsi efficace se il meccanismo fosse semplice, non dà I rutti e spiegazioni convincenti relativamente alla biologia del comportamento e ai molteplici stati d’animo dell’uomo”.
“Calma, calma, signor maestro” intervenne Pietro “non vi seguo più. Non sono argomenti alla mia portata se parlate di biologia e stati d’animo. Mi dovete scusare”.
“Lasciamo perdere allora” incalzò Pertinace “Ma sai almeno che il cervello fa i miracoli?”.
“I miracoli?” trasalì Pietro sbarrando gli occhi, lui uomo di chiesa, più per il sacrilegio che ora sentiva nell’aria che per la curiosità di apprendere una notizia straordinaria.
“ I miracoli, i miracoli” affermò con tono di sicurezza Pertinace.
"lo ho sempre saputo” azzardò Pietro “che i miracoli sono fatti dal Padreterno attraverso l’intercessione dei santi. Se le cose ora sono cambiate...” e lasciò cadere la frase spalancando le braccia con lo sguardo rassegnato verso il cielo.
" Mettiti l’animo in pace” precisò Pertinace “perché le cose non sono cambiate. Se puoi trattenerti ancora qualche momento cercherò di spiegarmi”.
Pietro non rispose. Accennò, con uno sguardo misto a disgusto e severità, un impercettibile assenso col capo quasi a dimostrare alla propria coscienza di voler rimanere estraneo al sacrilegio che già aveva sentito aleggiare e che ora, pensò, Pertinace si accingeva a compiere. Sperava che l’accenno al Padreterno e l’atteggiamento di palese disinteresse bastassero a far desistere Pertinace dal discorso sui miracoli o, quanto meno, a procrastinarlo.
Ma Pertinace non abboccò. “Ti potrà sembrare strano” disse "ma dal mio punto di vista i miracoli esistono, eccome!”.
Ora Pietro si sentì sollevato e, annuendo col capo, abbozzò anche un mezzo sorriso che, nonostante l’impegno che vi profuse, risultò ambiguo.
Pertinace proseguì: “La scienza ha ormai acclarato che sussistono alcune patologie, voglio dire malattie, che discendono direttamente dalla sfera emotiva. In parole povere, grandi dispiaceri, fortissime, laceranti emozioni danno luogo, nel nostro cervello, a vere e proprie tempeste. Esse scatenano processi elettrochimici che vanno a colpire e scaricarsi nella parte del nostro corpo che in quei frangenti risulta più vulnerabile delle altre, meno protetta cioè dal sistema immunitario. In questo modo nascono talune malattie che in gergo tecnico si chiamano psicosomatiche. Il che vuol dire che la sofferenza della sfera emotiva, la psiche, si trasferisce, sotto forma di malattia, in una parte del corpo, il soma. Da qui, psicosomatica. Ci siamo?”.
Pietro rispose affermativamente, ma il suo sguardo era obliquo e guardingo come se fosse in attesa di notizie sgradevoli.
Pertinace riprese: “Per chiarire ancora meglio il concetto, quando il nostro cervello riceve, attraverso i sensi, informazioni particolarmente spiacevoli o dolorose, le traduce, in non pochi casi, in turbolenza emotiva e le scarica, come fossero proiettili di natura elettrochimica, sulla parte più vulnerabile del nostro corpo, dando luogo alla malattia. Tieni presente che queste infermità sono più diffuse, a parer mio, nei Paesi industrializzati, nei quali il cosiddetto progresso pretende dall’uomo, anzi gli impone, un elevato tributo in termini di stress. Ma lo stress, tutti ormai lo sanno, altro non è che una micidiale miscela di ansia, tensione e affaticamento che, alla lunga, produce anch’essa disturbi fisici di vario genere. Fin qui dunque ci troviamo di fronte a un’attività cerebrale di tipo negativo. Ne esiste però un’altra di segno positivo, in grado cioè di ‘fare i miracoli’. Vediamo come. Dalla centrale operativa, cioè dal cervello, stimolato spasmodicamente dal desiderio della guarigione, che è fortissima volontà di sfuggire alla malattia (perdonami se devo aggiungere che comunemente si confonde con la fede) partono, anche qui, informazioni di segno contrario a quelle che abbiamo esaminato prima e producono effetti terapeutici mirabolanti sulla malattia in atto. Così avvengono i miracoli. La scienza, che non è ancora in grado di spiegare questo secondo processo, darà in seguito le certezze scientifiche e farà piazza pulita delle credenze miracolistiche di oggigiorno. Quello sarà un grande momento per l’umanità intera. Nel frattempo ben vengano i simboli e le immagini che l’uomo s’è costruito nei secoli per le sue insicurezze, come le chiese, i santi, i santoni e quant’altro, se riescono a far produrre quella che io chiamo spasmodica stimolazione del ( ci vello grazie alla quale esso produce sostanze ancora sconosciute che sono in grado di ‘fare il miracolo’ della guarigione”.
Questa teoria, che salvaguardava in certo qual modo le credenze religiose, i luoghi e gli oggetti di culto, venne accolta da Pietro senza entusiasmo, anzi con freddezza. In cuor suo si riservò di parlarne al parroco, perché non lo convinceva il ruolo meramente strumentale che Pertinace aveva assegnato all’intero patrimonio religioso.

 

Lorenzo Milanesi

(continua)


Da "Tiramisù - Ossia l'incontenibile desiderio"

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