La famiglia del medico
Quando Pertinace si avviò verso il bosco, nel cielo
stazionavano grossi nuvoloni bianchi e cremosi come enormi meringhe che
coprivano d’ombre larga parte del paese e delle colline circostanti. In
fondo al vicolo esitò, guardando verso l’alto, nel timore del temporale, ma
una voce, che riconobbe per quella di Pietro, lo rassicurò dicendogli “Sono
di bel tempo, non c’è da preoccuparsene. Possiamo andare se volete”. E
Pertinace: “Come fai ad essere tanto sicuro?”. “Non vedete come sono tonde e
compatte e immobili? Queste non sono nuvole ili temporale” gli rispose
Pietro. Pertinace si lasciò sfuggire una eloquente smorfia di dubbio sulle
certezze di Pietro e si incamminò egualmente, più per la forte attrazione
del bosco che per l’intima convinzione di non prendere l’acqua. “Al più”
pensò “mi riparerò nella casetta di Micone che è sempre aperta”.
Pietro lo affiancò e insieme percorsero la piazza tagliata di
traverso, per un curioso effetto atmosferico, da un lascio di luce che
sembrava irreale. Come irreale appariva il gruppetto di donne calcinate
all’angolo del porticato, eternamente intente a filare lana, a ricamare
preziosi corredi e a rattoppare abiti consunti, attenuandone il tedio con i
ripetuti rimbrotti ai loro piccoli e con i velenosi pettegolezzi su questo e
su quello, ma più di frequente su questa e su quella.
Erano ormai in prossimità del sentiero verso il bosco quando udirono
il rumore di una motocicletta in arrivo da una strada laterale. In
prossimità dell’incrocio rallentò, fin quasi a fermarsi, per piegare verso
la piazza del paese. Alla guida c’era Filippo, il figlio del medico, un
giovanottone bruno sui vent’anni che aveva fama di perdigiorno e
attaccabrighe. Sulla sella posteriore una giovanissima ragazza, bionda di
capelli, costretta dal vento e esporre le lunghe gambe fino a oltre metà
delle cosce, sulle quali si dibatteva il gonnellino verde a fiori gialli
trattenuto in vita da una cinturetta scarlatta.
L’andatura a passo d’uomo imposta dalla curva quasi a gomito e il
basso regime del motore consentirono a Pertinace e a Pietro di cogliere una
battuta incompleta di Filippo alla ragazza: “Non rompere...” rivolta con il
capo leggermente piegato a sinistra.
Superata la curva, Filippo accelerò con rabbia e il motore ruggì per
l’intera piazza accompagnato dai gesti imprecanti delle donne raccolte
all’angolo del porticato.
Quando il rumore della moto si perse nei vicoli e tornò il silenzio,
Pertinace - irritato dal frastuono e dal cattivo odore dei gas di scarico -
chiese a Pietro: “Chi è?” volendosi riferire alla ragazza. “Come, chi è?
Filippo! Il figlio del medico. Non conoscete Filippo?” rispose questi. “Come
no? Volevo dire chi è la ragazza” incalzò Pertinace. E Pietro: “Viene da
fuori. Sembra che, nonostante l’età, sia passata per tante mani. Ora è in
quelle di Filippo, che ve le raccomando. Io non so come ha fatto a venire al
mondo un soggetto così violento e litigioso. Pensate che suo padre è quello
che voi sapete, cioè un galantuomo, incapace perfino di aumentare il tono
della voce quando lo fanno arrabbiare, buono con tutti e generoso al punto
da non farsi pagare le visite da quelli che sa poveri”.
“Del resto lo conoscete meglio voi di me. Suo padre, il nonno di
Filippo, era ancora migliore del figlio, se è possibile, e così pure i loro
antenati, stando a quanto mi hanno sempre raccontato i miei nonni, i quali,
tanta era la stima, manipolavano ingenuamente le cose in modo da far
apparire una lontanissima, inesistente parentela. Ora, con quello che mi
avete fatto capire sulle frustrazioni e sul complesso di inferiorità desumo
che poteva trattarsi da parte loro, dei miei nonni appunto, di un impulso a
collocarsi in una sfera più alta di quella alla quale appartenevano”.
“Tornando al rampollo non so spiegarmi, sinceramente, a chi o a che
cosa debba essere attribuita la sua devianza”. Avevano
ripreso il cammino e qualche goccia di pioggia - appena avvertibile -
picchiettava sulle foglie delle acacie quasi da ammonimento alla presunzione
di Pietro e da contentino allo scetticismo di Pertinace, visto che le gocce
cessarono di cadere prima ancora che i due arrivassero al bosco dei
castagni. Pietro non fece caso al mugugno di Pertinace per non incoraggiarne
l’inespresso desiderio di rientrare a casa e così, per riprendere il
discorso interrotto, aggiunse: “Non si sa cosa dire. Succedono delle cose
che ci lasciano increduli. Oltre tutto Filippo è figlio unico e, se non
cambia registro, la sua razza è rovinata”.
“Io non sono d’accordo con quello che vai dicendo” intervenne Pertinace,
compiaciuto in cuor suo delle deduzioni di Pietro sulle frustrazioni dei
suoi antenati.
“Anzitutto sappiamo e possiamo cercare di spiegarci i motivi di quella che
tu chiami devianza. E, come al solito, tanto per non cambiare, dobbiamo
ritornare al discorso fatto sul cervello. Tu sai che il padre di Filippo -
cioè il medico - è stato cresciuto nella bambagia, ha studiato prima coi
preti, poi in un collegio e ultimò gli studi universitari in una grande
città, vivendo quasi sempre da solo, se si eccettuano i periodi estivi
quando veniva a trascorrere le vacanze in paese coi genitori. Ciò nondimeno
mantenne ed esaltò i caratteri tipici della sua famiglia, che sono quelli di
cui raccontavano i tuoi nonni”.
“Con ciò voglio dire che il vivere da solitario non gli impedì di continuare
a camminare sulla strada tracciata dai suoi genitori, quella della
laboriosità, dell’onestà e della ragionevole ambizione senza la quale poco o
nulla si conclude nella vita”.
“Questo significa che i due elementi basilari nei quali affonda le radici la
nostra personalità e dai quali, in ultima analisi, trae origine il nostro
modo di essere e di comportarci, ossia l’ereditarietà e l’ambiente, erano di
ottima qualità. C’erano insomma tutte le premesse perché questo medico
potesse avere figli che gli assomigliassero il più possibile”.
Erano arrivati frattanto alla solita poltrona sotto il castagno dove
Pertinace ripetè i gesti consueti per procurarsi le felci, levarsi il
cappello di paglia, sedersi e far sedere Pietro a suo fianco. E riprese il
discorso: “Ma il medico, non si sa bene se per eccessivo amore della libertà
come lui la intendeva o per per inconfessato desiderio di non staccarsi
dalla madre che ‘vedeva’ già vedova prima del tempo per via dei numerosi
acciacchi del padre, tergiversava tutte le volte che cercavano di
persuaderlo a sposarsi”.
“Quando infine si arrese, anche perché suo padre - come quasi tutti i
longilinei che hanno, nonostante i malanni, anche vita lunga - non
manifestava alcuna intenzione di passare - come si dice - a miglior vita,
era già avanti con l’età, diciamo vicino alla quarantina”.
“E quando si è a quest’età non si può pensare di prendersi per moglie una
diciottenne, perché si sa che - non di rado - si può andare incontro a
sorprese spiacevoli col passare del tempo. E lui, fatto com’era, sorprese di
questo tipo voleva assolutamente evitarle. Sicché dovette rivolgere le sue
ricerche verso una donna che non fosse al di sotto dei trent’anni ma che non
li avesse superati da molto tempo”.
“Pensava così di soddisfare il bisogno di avere una compagna di età giusta e
tale da allontanare le insopportabili predizioni delle male lingue e
tacitare contemporaneamente quanti del parentado insistevano perché
finalmente si accasasse”.
“Donne come intendeva lui in paese non ce n’erano e quindi dovette
rivolgersi nelle vicinanze. Dopo un po’ di tempo le ricerche dettero i loro
frutti e il medico trovò la moglie che anche tu conosci. A quell’epoca lei
aveva trentun anni e si portava dietro l’incubo, durato - a occhio e croce -
cinque anni buoni, di rimanere zitella. Con tutto quello che un simile stato
d’animo comporta per il carattere di una giovane delle nostre parti in
termini di ansia compressa, di desiderio di rivalersi, di affermarsi, di
avere figli, di trovare insomma un adeguato compenso allo scampato pericolo
del nubilato”.
“Aggiungi che, a ben guardare, la sua famiglia non era di livello pari a
quella del medico e ciò ingigantì i lati negativi della sua personalità che
non erano pochi. Il medico non fece in tempo a vederli tutti perché si trovò
nella condizione di chi, pressato dalle necessità, è indotto a dimensionare
le pretese e accettare un modello qualitativo inferiore a quello che ha
avuto sempre in mente”.
“E qui forse commise un errore perché tutti consigliano di contrarre
matrimonio con persona di pari livello culturale o quasi”.
“Comunque fu un matrimonio rapido, senza il benefico intervallo del
fidanzamento che consente, spesse volte, di scoprire pregi e difetti
reciproci e di fare le debite riflessioni”.
“La immediata gravidanza, anzicché allentare la tensione, suggellò i pieni
poteri di lei nella casa, che divennero definitivi quando, dopo la morte del
suocero, nacque il figlio maschio, Filippo appunto. A partire da quel
momento il suo carattere subì un ulteriore declino, si potrebbe dire un
tracollo. Relegò la suocera in un angolo della casa e le assegnò una
donnetta quale inserviente. Non per molto però, perché quella ne morì di
crepacuore”.
“Trattò il marito con modi bruschi e impudenti, ai limiti della volgarità.
Non parliamo poi dei servitori. Resistettero soltanto alcuni,
particolarmente affezionati al medico. Altri invece la mandarono a quel
paese e si cercarono nuovi lavori”.
“Il marito, da quel gentiluomo che è, ha sopportato e sopporta tutto con
dignità e distacco, anzi si può dire che quanto maggiore è la villania di
lei, tanto più grande è la signorilità di lui”.
Pietro non conosceva tutti questi particolari e ne era curioso, sicché tentò
di solleticare Pertinace con una riflessione che sapeva di buon effetto:
“Allora si deve concludere che la signora non è molto intelligente,
altrimenti avrebbe sfruttato l’unica opportunità che le si offrì di ottenere
le soddisfazioni che credeva minacciate nel periodo del nubilato”. “E
quale?” chiese Pertinace. “Quella di addolcire il proprio carattere e
cercare di portarsi sul piano qualitativo del marito fino ad assomigliargli.
Questo sì che l’avrebbe, per così dire, innalzata” rispose Pietro credendo
di avere scoperto l’ombrello. “E ti sembra cosa facile? Lasciamo perdere”
continuò Pertinace. “Il figlio, perché del figlio stavamo parlando, crebbe
in questo ambiente. Prima, se ricordi, avevo accennato al fattore ereditario
e a quello ambientale come ai due filoni fondamentali dai quali discende la
nostra personalità. Ebbene, in base a quello che abbiamo detto, possiamo
supporre che, già nella fase di fecondazione dell’ovulo-Filippo, ci fu un
tale rimescolamento o ricombinazione di geni e cromosomi (che sono i semi
destinati a trasmettere ai figli - fra l’altro - i caratteri dei genitori)
nei quali risultò prevalente, nell’apporto femminile, l’indole della madre”.
“Ma fin qui poco male, visto che l’influenza del fattore ambientale è
molto più potente e decisiva, a mio parere, di quella ereditaria, essendo in
grado di costruire personalità del tutto diverse da quelle che sarebbero
state se fossero rimaste in balia del solo fattore ereditario”.
“Non ho capito” lo interruppe Pietro.
“E abbastanza facile” rispose Pertinace “Prova a pensare a due
bambini, uno nero dell’Africa e uno bianco della Norvegia. Se, appena nati,
le rispettive famiglie - in ipotesi - se li scambiassero e li allevassero
nel rispettivo ambiente fino, poniamo, a vent’anni e non ci fosse ostilità
di alcun tipo o pregiudizi o rigetto, secondo te cosa si otterrebbe dei due
bambini?”. Pietro tardò a dare una risposta purchessia e Pertinace continuò:
“Si otterrebbe un norvegese di pelle nera e un africano di pelle bianca, del
tutto identici nella personalità agli altri individui in mezzo ai quali
fossero cresciuti. Dei caratteri ereditari rimarrebbe soltanto la
somiglianza somatica, fisica, ai loro consanguinei e poco altro. Questo ti
dimostra quanto potente sia il fattore ambientale nel modellare gli
individui. Sembra insomma di assistere a una sorta di manipolazione sui
generis, di tipo indotto, involontario, che produce i suoi effetti in tempi
relativamente brevi, infischiandosi, o quasi, dei caratteri ereditari”.
“Ed è pressappoco quello che accadde a Filippo per mano di sua
madre”.
“Questo ragazzo non ha colpe per quello che è e per quello che fa.
Solo che crescendo dove e come è cresciuto non può che essere com’è. In casa
ha sempre ottenuto tutto quello che ha voluto, ma questo sarebbe il meno. Il
fatto è che là dentro c’era e c’è anche prepotenza, volgarità e
autoritarismo, indirizzati tutti dalla madre verso il padre, verso la
servitù e in genere verso quanti avevano e hanno occasione di contatto. Una
superbia e un modo di fare scostanti che si ritrovano sovente nei cosiddetti
villani rifatti”.
“Per di più essa - la moglie del medico - è disacculturata e
intollerante, al pari di quanti, in possesso magari di un diplomino
conquistato faticosamente e di malavoglia, se appena appena accenni a
discorsi che ‘sappiano’, non dico di cultura, ma di approfondimento di
qualsiasi questione, subito gli leggi in faccia fastidio e, andando per
gradi, insofferenza, avversione e perfino ostilità”.
“Hanno, sì, in casa dei libri, financo librerie, ma servono loro da
alibi o da ornamento. Essi preferiscono i cruciverba, le banalità e
l’appiattimento e, se possono, ti evitano per rimanere coi loro pari. E si
spingono anche oltre: diffondono dicerie e calunnie sul tuo conto per
influenzare negativamente il giudizio altrui nei tuoi riguardi. Vogliono
insomma trascinarti al loro livello”.
“Sotto questo profilo era accaduto al medico di dover ‘succhiare un
catenaccio’ per tutta la vita, come diceva proprio suo nonno per
sintetizzare con due parole le abissali disparità culturali che a volte
separano due soggetti, uno dei quali, il catenaccio appunto - cioè la moglie
- né tenta di uscire dalla mediocrità, né riesce, malgrado gli sforzi, a
mascherarla. E così, a chi capita di dover convivere con un soggetto simile,
se lo deve ‘succhiare’ vita naturai durante. Insomma, deve trascinarsi
questa croce”.
“Tornando al nostro discorso, c’è da aggiungere che il figlio,
com’era da prevedere, non riuscì negli studi e sua madre, pur di fargli
avere un pezzo di carta, tanto brigò che gli ottenne un diploma di scuola
superiore, praticamente a pagamento. Del resto, si sa, gli agi sono molte
volte cagione d’impedimento agli studi. Il militare non lo fece, sebbene non
avesse alcun difetto fisico, disponendo anzi di una corporatura da atleta.
Anche qui la madre mise le cose in modo da ottenergli la dispensa completa”.
“Tu capisci cosa vogliano dire queste cose per un giovane? Nel suo
caso vollero dire sperpero e scempio del patrimonio genetico di provenienza
paterna e pieno dominio formativo del fattore ambientale governato senza
contrasti dalla madre. Ecco perché ti dicevo prima che il figlio, come tutti
i figli che hanno la sfortuna di trovarsi in quelle condizioni, non ha
alcuna colpa”.
A Pietro il discorso non quadrava del tutto perché Pertinace non fece
alcun cenno alla figura del padre di Filippo che, a suo parere,
rappresentava un protagonista di primo piano nell’inquietante scenario.
Sicché si intromise decisamente con una domanda: “Ma il medico, il medico
perché non si è mosso? Perché non è corso in tempo ai ripari?”.
“Il medico! Il medico! ” esclamò Pertinace facendo roteare il braccio destro
nell’aria, dal che Pietro doveva desumere o che non contava nulla in
famiglia, o che era ormai rassegnato o chi sa cos’altro ancora. Comunque,
che era meglio non parlarne neppure. O tutte le cose messe insieme, forse.
Pertinace fece una pausa per rispondere al saluto e lasciare che passassero
tre giovani che tornavano in paese dai campi e poi, com’era nel suo stile,
per non lasciare adito a dubbie interpretazioni del suo gesto, proseguì:
“Difficilmente si riesce a far cambiare testa a una persona che abbia
superato la quarantina”.
“Quando quest’uomo - il medico intendo - si rese conto con chi aveva a che
fare e capì che l’unica via d’uscita sarebbe stata la separazione, vi
rinunciò per la scarsa stima che ha delle leggi le quali, a suo parere,
avrebbero assegnato il figlio alla madre e lui non l’avrebbe più visto.
Perciò non volle mai battere questa strada e così si rassegnò a subire le
più vergognose umiliazioni pur di stare vicino al figlio, di vederlo, di
essergli utile in qualche modo, se non altro col denaro, senza mai ricevere,
non dico una carezza o un bacio, ma neppure un sorriso”.
“Per sua fortuna ha la professione che lo distrae e la signorilità d’animo
con la quale misura, suo malgrado, la pochezza della moglie e
l’inarrestabile degrado del figlio, commiserandoli. Fece, per la verità,
qualche timido tentativo e fu intorno ai cinque, sei anni di Filippo. Egli
vide in quale vicolo cieco sua moglie lo stava conducendo e, accantonati i
pensieri di separazione, pensò bene di invitare a casa qualche nipote di
parte sua o di cogliere ogni pretesto perché i cugini si incontrassero da
qualche parte. Riteneva così di compensare, di mitigare gli effetti nocivi
dell’inquinamento, chiamiamolo così, familiare, convinto com’era che,
mantenendo vivi i legami con i parenti delle sua parte, la moglie non
sarebbe riuscita a troncare del tutto il flusso educativo proveniente dalla
frequentazione dei buoni tronchi paterni”.
“Ma la gramigna, caro mio, è gramigna. E quando i cuginetti, una volta, due
volte, tre volte, si videro trattati come pezze da piedi e lo raccontarono
ai rispettivi genitori, le visite e gli incontri prima diradarono e poi
cessarono. Poco mancò anzi che le famiglie troncassero una volta per tutte i
rapporti col medico.
In definitiva, dato il carattere, era proprio quello che sua moglie avrebbe
voluto”.
Pertinace si concesse qualche minuto di pausa durante la quale si aspettava
che Pietro dicesse qualcosa. Ma Pietro era pensieroso, sbigottito dalla
lucida analisi dei fatti che aveva ascoltato, e che anche lui conosceva
grossolanamente, ma dai quali non sapeva trarre le conseguenze e le limpide
considerazioni di Pertinace.
“Non c’è da meravigliarsi quindi” seguitò questi “se il giovane si comporta
come si comporta. Tieni presente che il destinatario di tutta la sconfinata
massa di ‘informazioni’ che ci conducono dall’età della pietra - nella quale
ci troviamo alla nascita - fino ai nostri giorni, superando in pochi anni un
abisso di centinaia e centinaia di secoli, è soltanto il cervello”.
“In esso perciò si è accumulata la montagna di notizie preparatagli dalla
madre e dall’ambiente da essa abilmente manipolato. Se poi consideri che
tutto quello che noi diciamo o facciamo e che va sotto il nome di
comportamento, di condotta, di modo di pensare, di agire, di stile di vita,
chiamalo come vuoi, deriva da attività specifica del nostro cervello, ti
spieghi perfettamente il perché e il per come Filippo è quello che è. E che,
fra parentesi, sarà fino a quando, non ti so dire come, acquisterà
consapevolezza del suo stato e tenterà di porvi rimedio”.
“Questo comunque è il guaio maggiore” concluse Pertinace. “Perché, ce ne
sono altri?” chiese Pietro incuriosito e quasi in ansia. “Come no?” proseguì
Pertinace “Ti pare che un personaggio come la madre possa rassegnarsi a
subire l’umiliazione del disprezzo tacito e della compassionevole
commiserazione del marito senza farlo bersaglio di qualche altra diavoleria?
Evidentemente no. Così, col passare degli anni, quando non ha più potuto
riversare sul figlio, ormai autonomo e ribelle, le sue assillanti
attenzioni, divenne preda del demone della gelosia, sempre in agguato nel
suo cranio per ascendenze ereditarie”.
“Non che il marito gliene desse occasione, per carità! Ma sai, da una parte
il mestiere di lui che gli dava occasione di osservare talvolta il corpo
nudo di altre donne, con l’occhio naturalmente distaccato del medico e
l’animo del galantuomo, dall’altra l’allentata tensione sul figlio, fecero
breccia nella labilità psichica di lei e ridestarono i malefici geni degli
antenati”.
“Così quel pover’uomo si trova con una seconda guerra in casa ed è spiato in
continuità come fosse un malfattore. In questi ultimi tempi poi è arrivata
all’assurdo di imporgli di visitare le donne soltanto in casa e in quelle
occasioni fa di tutto, me lo ha riferito una diretta interessata, per essere
presente lei stessa con una scusa o con l’altra”.
“E se si tratta di casi gravi?” accennò Pietro. “Devi sapere” rispose
Pertinace “che gli individui soggetti a questi disturbi mentali, perché di
questo in ultima analisi si tratta, lievi, meno lievi o addirittura gravi
che siano, questi individui - dicevo -posseggono un modo di vedere le cose
tutto particolare che, in relazione allo scopo, chiamiamolo così, che si
prefiggono, distinguono nettamente ciò che è ‘pericoloso’ da ciò che è
‘innocuo’. Nell’ipotesi che tu hai richiamato, lei sa a priori che se la
malata è grave si tratta quasi sempre di donna avanti con l’età, per non
dire vecchia, e se è giovane, la stessa gravità del caso, con tutto ciò che
esso comporta, non le suscita gelosia e perciò lo lascia andare da solo”.
“Brutto affare comunque la gelosia. Girala come vuoi, io sono del parere che
ci troviamo di fronte a riti di clan che si perpetuano e si tramandano di
padre in figlio, in primis per ignoranza e poi per basso egoismo o per
entrambe le cose”.
“Un fatto è sicuramente acclarato e cioè che se c’è gelosia non c’è o non
c’è mai stato amore vero. Si può capire e forse anche giustificare quella,
diciamolo pure, ragionevole, di infimo livello, che si contrabbanda
comunemente come indispensabile accessorio del sentimento primario, cioè
dell’amore vero; ma quella esasperata, dirompente, ossessiva, ai limiti
della segregazione e perfino di reati più gravi, no: questo è delirio vero e
proprio”.
S’era accalorato. Estrasse un fazzoletto e lo passò sulla fronte per
asciugarsi un velo di sudore. Poi, quasi per conferire alle sue parole il
crisma di un’autorevolezza non discutibile, aggiunse: “Ora ti leggo, giusto
per farti intendere come la pensava su questo argomento un grande e
raffinato filosofo francese del 1500 - Montaigne - qualche brano dei suoi
Saggi”.
Cavò dalla tasca un grosso volume, sfogliò e sfogliò fin quando non
raggiunse il rigo che lo interessava e lesse: “...la plus vaine et
tempéteuse maladie qui afflige les ames humaines, qui est la jalousie...”.
Non diede tempo a Pietro di manifestare a parole quello che già
l’espressione del volto faceva intendere, che cioè non aveva capito una sola
parola del francese, e tradusse: “...la gelosia è la più vana e tempestosa
malattia che affligga le anime umane...”.
Poi sfogliò il libro di una pagina e proseguì nella lettura: “... c’est
pitié comme elle les tirasse et tyrannise cruellement; elle s’y insinue sous
titre d’amitié; mais depuis qu’elle les possède, les memes causes qui
servaient de fondement à la bienveillance ser-vent de fondement de haine
capitale. C’est des maladies d’esprit celle à qui plus de choses servent d’aliment,
et moins de choses de remède...” che tradusse senza alzare il capo dal
libro: “...fa dispiacere come strapazza queste povere anime e le tiranneggia
crudelmente; essa - la gelosia - si insinua col pretesto dell’amicizia, ma,
dopo che le possiede, le stesse cause che servirono di fondamento alla
benevolenza servono ora di fondamento a un odio mortale. Fra le malattie
dello spirito è quella a cui più cose servono d’alimento e meno cose di
rimedio...”.
Pertinace chiuse il libro e vi battè sopra la mano volendo forse fermare
definitivamente il discorso sulla gelosia oppure far intendere che, dopo
tanta dotta citazione, non v’era più nulla da aggiungere. O entrambe le cose
insieme, non si sa.
Lorenzo Milanesi -
Milano
Da "Tiramisù - Ossia l'incontenibile desiderio"
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Piazza Scala News - giugno 2013