Chi ha avuto la pazienza, in questi anni, di leggere gli interventi miei e di altri su questo giornale riguardanti il problema dell’enorme debito pubblico italiano accumulato dai nostri governi dagli anni ’80 del secolo scorso, buon ultimo anche quello attualmente in carica, ricorderà forse i ripetuti allarmi e il disappunto per la sostanziale indifferenza dei più, quasi si trattasse di problema non di grande attualità e non di un grave pericolo per l’economia del nostro paese.
I nodi sono ora venuti al pettine e ormai da molte parti se ne dibatte, in molti casi anche senza costrutto, proponendo le soluzioni più varie, i rimedi più fantasiosi. I politici stentano ad affrontare la questione per motivi elettorali e di consenso che, lo si voglia o no, è ormai prioritaria, data l’emergenza in atto. Da una parte si continua ad affermare che “i conti sono in ordine” e si propongono palliativi che, fatti seriamente due conti, non riusciranno nemmeno a scalfire la massa, del resto in continua crescita, dei quasi 2000 miliardi di debito, la metà del quale in mano a investitori stranieri che hanno già cominciato a stancarsi e chiedono remunerazioni sempre più elevate, ormai dell’ordine di 350-400 punti base (3,50-4%) superiori a quelle che ricavano investendo in titoli tedeschi. I “conti in ordine”? Quale azienda, anche quale famiglia, considererebbe “in ordine” i propri conti avendo un debito del 120% del proprio reddito annuo?
Quel 3,50-4% in più ci costa decine di miliardi in maggiori interessi annualmente e ci espone al ricorrente rischio che gli investitori volgano i loro sguardi altrove, come sta succedendo con la Grecia e com’è successo in passato più volte per altri paesi, mettendo in moto una spirale difficile da fermare. Si pensi, oltretutto, alle cose che si potrebbero fare con quei miliardi se il carico degli interessi fosse sostanzialmente inferiore.
I rimedi proposti da chi si pone seriamente il problema sono vari, molti, purtroppo, a lungo o a lunghissimo termine, alcuni addirittura irrealistici, altri più incisivi e drastici e questi ultimi tengono conto che non c’è tempo per certe soluzioni “soft”, che il peso sulle spalle del paese e quindi di tutti i cittadini è insopportabile e impedisce il superamento della crisi e il riavvio di una crescita che non sia quella ora prevista dello 0,60-1% per i prossimi due-tre anni, se andrà bene, se cioè i mercati rimetteranno le armi al piede.
C’è chi sostiene che il debito potrà ridursi da solo con l’eventuale crescita. Pia illusione, basterebbe fare un piccolo calcolo “della serva” come si diceva ai miei tempi. Quanto produrrebbe, in termini di entrate fiscali, una crescita del 2-3% (ipotesi molto ottimistica) del PIL? Provate a fare due conti. Quanto produrrebbe l’incremento dell’età pensionabile a sessantacinque anni per tutti e l’abolizione delle pensioni di anzianità (provvedimenti peraltro auspicabili con i dovuti correttivi)? Quanto la diminuzione delle altre spese pubbliche e quali? La riduzione del personale pubblico, non solo politico, attenti a non ridurre troppo i servizi ai cittadini?
Non dico che non siano possibili risparmi sulle spese correnti, specialmente su quelle di rappresentanza, ma attenzione a non deprimere ulteriormente l’economia, già sull’orlo della recessione.
Una recentissima proposta riguarderebbe la vendita e la dismissione di parte del patrimonio pubblico. Ottima idea, in teoria. Siamo sicuri che i compratori farebbero la fila per comprare al giusto prezzo (non in saldo) caserme, palazzi fatiscenti, aree forse fabbricabili e forse no, nella situazione attuale dell’edilizia? Forse si troverebbero investitori stranieri per le azioni di ENI ed ENEL, rinunciando tuttavia al controllo di settori altamente strategici per il paese. Forse si potrebbero “vendere”, con patto di riacquisto dopo dieci anni, opere d’arte o monumenti a operatori interessati a sfruttarne l’immagine. Insomma, l’Italia è un paese di grandi risorse, non minerarie purtroppo, e il risparmio privato, immobiliare e mobiliare, è ancora consistente e qui sta il punto.
Si potrebbe attingere al risparmio, ovviamente da un certo ammontare in su, sostanzialmente in due modi: con un’imposta patrimoniale limitata nel tempo fino alla riduzione sostanziale del debito pubblico, oppure l’imposizione all’acquisto di un certo importo, anche modesto, di titoli dello stato, i BTP decennali ad esempio, ai titolari di patrimoni consistenti, cioè un prestito “forzoso”, adeguatamente remunerato, com’è già stato fatto alcuni decenni fa in situazioni di emergenza anche in Italia, rimborsabile a lungo termine, il che darebbe un po’ di respiro al mercato dei nostri titoli, affrancandolo in parte dalle pressioni degli investitori.
Non sarebbe un grande sacrificio e il ricavato dovrebbe comunque essere destinato, rigorosamente, alla riduzione del debito e avrebbe il vantaggio di gravare non sulla spesa corrente dei consumatori e quindi sul PIL, ma sugli stati patrimoniali. Non mi nascondo certamente il fatto che l’onere graverebbe su tutti, inclusi tutti gli onesti cittadini che hanno sempre fatto il loro dovere con il Fisco, ma comunque pagherebbero anche gran parte degli evasori che, lo sappiamo bene, in Italia sono sempre così difficili da stanare.

 

Giacomo Morandi - ottobre 2011
 

 

 

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