Mi rendo conto che ripetere il discorso sulla pericolosità dell’enorme
debito pubblico del nostro paese suona fastidioso per la maggior parte delle
orecchie dei miei concittadini. Al massimo, quando ne parlo con qualcuno,
vedo che l’argomento interessa poco, non è prioritario nei loro pensieri,
cambiano volentieri discorso o si limitano a suggerire qualche rimedio del
tutto inadeguato o qualche soluzione epidermica,
come la riduzione del numero dei parlamentari, l’abolizione di qualche loro
privilegio, la cancellazione dei finanziamenti ai partiti e ai giornali o
qualche altro provvedimento che, conti alla mano, farebbe risparmiare
qualche scarso miliardo. I loro suggerimenti terminano lì. Guai a parlare di
aumento, anche solo una tantum, del carico fiscale, guai a parlare della
riduzione della spesa sanitaria o di quella per le pensioni o della spesa
militare, delle missioni all’estero, delle sovvenzioni o dei crediti
d’imposta alle imprese e via dicendo.
La crisi finanziaria e quella economica iniziate nel 2008, oltre a colpire
globalmente tutti i paesi compresi quelli più industrializzati, crisi che
nella maggior parte dei casi perdura tuttora, ha in modo particolare
aggredito alcune economie più dipendenti dai finanziamenti internazionali e
dallo sviluppo più fragile, più esposto alla speculazione e con il debito
pubblico più elevato come l’Irlanda, la Grecia, il Portogallo, la Spagna.
Gli strumenti di debito di questi paesi hanno subito diversi declassamenti
da parte delle agenzie di rating internazionali indipendenti (cioè quelle
istituzioni che esercitano il mestiere di analizzare i conti delle
multinazionali e degli stati sovrani, indirizzano gli investitori e i
mercati e le cui analisi determinano i costi, in termini di tassi
d’interesse, dei finanziamenti sui mercati stessi).
Oggi, quei quattro paesi sono costretti, quando i loro titoli vanno in
scadenza (e ciò succede quasi mensilmente) a pagare tassi d’interesse molto
più elevati di quelli pagati dai paesi più solidi. Per fare un esempio, un
titolo irlandese a cinque anni paga oggi tassi che si avvicinano al 15-16%,
la Grecia poco meno, la Spagna è vicina al 6%, l’Italia supera il 4%, mentre
la Germania è di sotto il 3%. Quell’1%-1,50% di differenziale che noi
paghiamo sulla quota di debito a medio/lungo termine, ha un costo ogni anno,
in miliardi di Euro, sulle due cifre, e, ogni mezzo punto percentuale in
più, ci costa altrettanto, equivalente, nel complesso, a una faticosa
manovra finanziaria. Per di più, proprio in questi giorni, si riaffaccia lo
spettro di un “default” di uno o più di questi paesi, vale a
dire un’alzata di mani e l’impossibilità di rimborsare qualche emissione in
scadenza con nuovi titoli. La parola chiave è “ristrutturazione”, cioè il
rimborso solo parziale dei titoli ai risparmiatori e agli investitori (tipo
Argentina, Parmalat eccetera) oppure l’estensione della scadenza degli
stessi di qualche anno, magari con tassi d’interesse ridimensionati.
Per questo motivo l’Unione Europea e soprattutto il gruppo dell’Euro,
predica da anni, ben prima della crisi del 2008, la riduzione del debito
pubblico a un livello accettabile, sotto un limite di guardia stabilito nel
60% del P.I.L., da eseguire in pochi anni. Il nostro paese ha un debito
vicino al 120% del P.I.L. (era del 105% prima dell’avvento del governo
Berlusconi) e il deficit annuale è superiore ai 30 miliardi. E’ chiaro che
con questi numeri la riduzione del debito è una chimera e si continua ad
affermare che l’Italia ha “i conti in ordine” che Tremonti, tenendo stretti
i cordoni della borsa e resistendo strenuamente agli assalti dei colleghi
ministri e del Presidente del Consiglio, degli imprenditori e dei sindacati,
ha salvato l’Italia da una crisi finanziaria simile a quella dei suddetti
quattro paesi. Quest’ultima affermazione ha un contenuto di verità, va
riconosciuto, anche se ciò è stato ottenuto a prezzo di un forte ristagno
dell’economia, a un tasso di sviluppo quasi pari a zero quando altre
economie (Germania, Francia e altre) stanno ripartendo bene.
Ma purtroppo non finisce qui. In questi giorni la principale agenzia di
rating, Standard & Poor”, ha declassato l’andamento della nostra economia da
“stabile” a “negativo” e ciò rappresenta un forte campanello d’allarme per
il nostro debito, uno dei più elevati al mondo.
Che cosa fare? Non è facile rispondere in periodo elettorale o
pre-elettorale, in un momento in cui la maggioranza fibrilla e l’opposizione
vive in precarietà. Si fa presto a dire “riduciamo la spesa pubblica”, ma
quali voci? Ci rendiamo conto che per ridurre il debito della metà
occorrerebbero riduzioni di spesa e/o aumenti di entrate pari all’enorme
cifra di 800-900 miliardi, cioè 80-90 miliardi di Euro all’anno per dieci
anni? E forse non li abbiamo dieci anni.
Avanti, ragazzi (direbbe l’amico Bersani) aspetto proposte serie. Una è la
solita: lasciamo il debito sulle spalle dei nostri figli e nipoti.
Giacomo Morandi