pubblicato su "Libertà" il 24 maggio 2011

 

Mi rendo conto che ripetere il discorso sulla pericolosità dell’enorme debito pubblico del nostro paese suona fastidioso per la maggior parte delle orecchie dei miei concittadini. Al massimo, quando ne parlo con qualcuno, vedo che l’argomento interessa poco, non è prioritario nei loro pensieri, cambiano volentieri discorso o si limitano a suggerire qualche rimedio del tutto inadeguato o qualche soluzione epidermica, come la riduzione del numero dei parlamentari, l’abolizione di qualche loro privilegio, la cancellazione dei finanziamenti ai partiti e ai giornali o qualche altro provvedimento che, conti alla mano, farebbe risparmiare qualche scarso miliardo. I loro suggerimenti terminano lì. Guai a parlare di aumento, anche solo una tantum, del carico fiscale, guai a parlare della riduzione della spesa sanitaria o di quella per le pensioni o della spesa militare, delle missioni all’estero, delle sovvenzioni o dei crediti d’imposta alle imprese e via dicendo.
La crisi finanziaria e quella economica iniziate nel 2008, oltre a colpire globalmente tutti i paesi compresi quelli più industrializzati, crisi che nella maggior parte dei casi perdura tuttora, ha in modo particolare aggredito alcune economie più dipendenti dai finanziamenti internazionali e dallo sviluppo più fragile, più esposto alla speculazione e con il debito pubblico più elevato come l’Irlanda, la Grecia, il Portogallo, la Spagna. Gli strumenti di debito di questi paesi hanno subito diversi declassamenti da parte delle agenzie di rating internazionali indipendenti (cioè quelle istituzioni che esercitano il mestiere di analizzare i conti delle multinazionali e degli stati sovrani, indirizzano gli investitori e i mercati e le cui analisi determinano i costi, in termini di tassi d’interesse, dei finanziamenti sui mercati stessi).
Oggi, quei quattro paesi sono costretti, quando i loro titoli vanno in scadenza (e ciò succede quasi mensilmente) a pagare tassi d’interesse molto più elevati di quelli pagati dai paesi più solidi. Per fare un esempio, un titolo irlandese a cinque anni paga oggi tassi che si avvicinano al 15-16%, la Grecia poco meno, la Spagna è vicina al 6%, l’Italia supera il 4%, mentre la Germania è di sotto il 3%. Quell’1%-1,50% di differenziale che noi paghiamo sulla quota di debito a medio/lungo termine, ha un costo ogni anno, in miliardi di Euro, sulle due cifre, e, ogni mezzo punto percentuale in più, ci costa altrettanto, equivalente, nel complesso, a una faticosa manovra finanziaria. Per di più, proprio in questi giorni, si riaffaccia lo spettro di un  “default”  di uno o più di questi paesi, vale a dire un’alzata di mani e l’impossibilità di rimborsare qualche emissione in scadenza con nuovi titoli. La parola chiave è “ristrutturazione”, cioè il rimborso solo parziale dei titoli ai risparmiatori e agli investitori (tipo Argentina, Parmalat eccetera) oppure l’estensione della scadenza degli stessi di qualche anno, magari con tassi d’interesse ridimensionati.
Per questo motivo l’Unione Europea e soprattutto il gruppo dell’Euro, predica da anni, ben prima della crisi del 2008, la riduzione del debito pubblico a un livello accettabile, sotto un limite di guardia stabilito nel 60% del P.I.L., da eseguire in pochi anni. Il nostro paese ha un debito vicino al 120% del P.I.L. (era del 105% prima dell’avvento del governo Berlusconi) e il deficit annuale è superiore ai 30 miliardi. E’ chiaro che con questi numeri la riduzione del debito è una chimera e si continua ad affermare che l’Italia ha “i conti in ordine” che Tremonti, tenendo stretti i cordoni della borsa e resistendo strenuamente agli assalti dei colleghi ministri e del Presidente del Consiglio, degli imprenditori e dei sindacati, ha salvato l’Italia da una crisi finanziaria simile a quella dei suddetti quattro paesi. Quest’ultima affermazione ha un contenuto di verità, va riconosciuto, anche se ciò è stato ottenuto a prezzo di un forte ristagno dell’economia, a un tasso di sviluppo quasi pari a zero quando altre economie (Germania, Francia e altre) stanno ripartendo bene.
Ma purtroppo non finisce qui. In questi giorni la principale agenzia di rating, Standard & Poor”, ha declassato l’andamento della nostra economia da “stabile” a “negativo” e ciò rappresenta un forte campanello d’allarme per il nostro debito, uno dei più elevati al mondo.
Che cosa fare? Non è facile rispondere in periodo elettorale o pre-elettorale, in un momento in cui la maggioranza fibrilla e l’opposizione vive in precarietà. Si fa presto a dire “riduciamo la spesa pubblica”, ma quali voci? Ci rendiamo conto che per ridurre il debito della metà occorrerebbero riduzioni di spesa e/o aumenti di entrate pari all’enorme cifra di 800-900 miliardi, cioè 80-90 miliardi di Euro all’anno per dieci anni? E forse non li abbiamo dieci anni.
Avanti, ragazzi (direbbe l’amico Bersani) aspetto proposte serie. Una è la solita: lasciamo il debito sulle spalle dei nostri figli e nipoti.
Giacomo Morandi

 

 


 

 

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