Basta, il disastro non è un palcoscenico sul Vajont: sono due tragedie, e sarebbe ora di distinguerle. La prima tragedia è quella della Diga. Tragedia vera e immane per il dolore pubblico e privato che ha generato, per le inescusabili responsabilità che sottende, per l'evanescenza delle istituzioni coinvolte, per l'irrisorietà dei risarcimenti. Per non dire della avidità degli interessi privati che l'hanno generata. È una tragedia sotto i nostri occhi da cinquant'anni, circa la quale è stato detto tutto o quasi tutto. Quello che manca, se manca, non potrà di certo modificare il giudizio storico di quanto è accaduto. Il fatto si è che la tragedia del Vajont ha generato un'altra tragedia, dove noi siamo carnefici e vittime allo stesso tempo. Una tragedia, anche questa, evitabile e inescusabile. Anche questa collettiva, con l'aggravante che sembra non finire mai. È la tragedia della retorica e del dolore usati come arma contundente per una narrazione del territorio bellunese come luogo minore, marginale, oppresso, defraudato quando non deriso. Ci sono state le Vittime del Vajont? Ebbene, anche noi siamo vittime, pur se in un altro modo: vittime dell'economia, della storia, della politica, vittime del grande su noi che siamo piccoli. Non che questo non sia stato vero. Lo è, in parte, anche oggi. Ma spesso la tragedia del Vajont è stata usata per ricostruire il bellunese come luogo di periferia a credito con lo Stato, perennemente in stato di bisogno, sempre defraudato. Se il bellunese oggi è un luogo di acrimonia diffusa – non passa giorno che qualcuno, la politica in primis, non si lamenti di qualcun altro - lo si deve soprattutto al brodo culturale che la Tragedia del Vajont ha generato. Non era un esito scontato. Complice la politica, soprattutto quella “grande”, che quando viene nel bellunese corre a rendere omaggio alle Vittime del Vajont. É sempre giusto rendere omaggio ai morti, ma alcuni omaggi contengono una overdose di retorica del dolore della quale faremmo bene a liberarci. Essi omaggiano il territorio bellunese come eterna vittima, e al bellunese, oramai, piace sentirsi vittima. Complice certa cultura locale che sulla tragedia del Vajont, e sulla propria presunta estraneità sociale, culturale e financo morale, ha costruito miti di libertà e di riscatto. Il Vajont come il male assoluto degli altri, in contrapposizione ad una propria purezza tenace e garibaldina. Cosa di meglio, allora, ad ogni anniversario, del reggere la bandiera dei giusti defraudati, dei preveggenti inascoltati, dei miseri derelitti? Oggi, trascorsi cinquant'anni, bisognerebbe farla finita con la retorica del dolore che ci fa vittime di continuo, usandoci come strumenti per un altro fine. Basta con il Vajont come palcoscenico, soprattutto politico, ma non solo, dove si sale ogni 9 ottobre a far comizi. Dobbiamo andare oltre. E andare oltre non vuol dire dimenticare, ma avere il coraggio di scrivere un’altra storia, migliore di quella che abbiamo alle spalle. Non è con la cultura del dolore e della strumentalizzazione che si ricostruisce qualcosa di duraturo. Elaboriamolo, il lutto del Vajont, gli strumenti per farcene una ragione storica, politica e sociale li abbiamo. Poi basta. Poi, almeno per una volta, quando arriva il 9 ottobre, restiamo in silenzio. I cittadini sapevano. E gli scienziati? Voglio raccontare due episodi ai quali sono stato presente pochi giorni prima del disastro. Il primo a Longarone, dove mi sono recato da Igne, dove abitavo con mio nonno, a render visita a un suo amico, Francesco “Checo” Pioggia. Tra le chiacchiere parlarono della diga. Checo disse: “Bepi, questa prima o poi ci porterà via tutti”. Detto e fatto: è morto con tutta la famiglia. Il secondo a Villanova, a casa di mio zio, dove ora si trovano i negozio Fercas. Un'amica di mia zia che abitava dove ora c'è l'azienda Teza, della famiglia Dalla Betta, disse: “Cara Ada uno di questi giorni mi vedrai passare davanti a casa in barchetta”. Non è passata in barca, ma l'acqua se l'è portata via con tutta la famiglia e di passaggio si è portata anche la madre e i due fratelli con le famiglie. Abitavano di fronte a mio zio. I miei parenti sono stati recuperati alle 3 del mattino, salvi. Se queste persone comuni , e non solo loro, presagivano questo evento perché gli scienziati geologi no? Domanda ormai stantia, ma perché l'attuale presidente degli scienziati geologi ,che non deve esser un ragazzino di primo pelo, ha aspettato questa buffonata del 50° per parlare? Noi supestiti invece , a parte i soliti noti facenti parte della ghenga, sappiamo benissimo lo scopo di questa baraonda, che nulla a che fare con noi e meno ancora con i nostri morti, ma serve a parecchia gente, con grande supporto dei media che nulla a che fare con il disastro, per scopi personali politico/ finanziari. Quanti anni dovranno passare perché qualcuno rispolveri questa storia e indaghi sullo sperpero che è stato fatto dei soldi dei contribuenti? Giuseppe De Cesero Longarone vajont 1963-2013 Un grazie alla gente di Cimolais e Claut nIn questi giorni di ottobre, la triste e terribile sciagura di Lampedusa , in cui sono morti molti innocenti e molti altri sono profughi, le parole “compassione” e “accoglienza” mi risuonano spesso nella mente e, inevitabilmente, la memoria mi porta al 9 -10 ottobre1963, quando la gente del mio paese si trovò nella stessa situazione di bisogno. Anche da noi molti morirono travolti dall’acqua e fango e pochi furono ritrovati; i superstiti furono costretti a lasciare le loro case e il paese; raccolsero frettolosamente poche cose, quelle che ritenevano indispensabili o quelle a cui erano affettivamente più legati, e ,per la maggior parte con mezzi militari, furono portati nei paesi vicini di Cimolais e Claut. In questi due Comuni ci fu una gara di solidarietà indicibile, le amministrazioni si prodigarono a mettere a disposizione le loro strutture per accogliere gli sfollati. Ma la generosità più commovente fu quella spontanea della popolazione. Ogni famiglia aprì la propria casa per ospitare ,offrendo e condividendo ciò che avevano, dimenticando campanilismi e difficoltà economiche Spesso i profughi vivevano proprio assieme ai loro ospiti, come un’unica famiglia, ricevendo supporto materiale e morale. Questa solidarietà non fu solo nell’immediatezza dell’emergenza, ma è durata per moli anni. Io sono “Informatore della memoria” e accompagno gruppi sui luoghi del Vajont, raccontando l’evento in tutte le sue sfaccettature e quasi sempre parlo loro di come fummo accolti, consolati e aiutati. In occasione del 50° Anniversario del Vajont, voglio esprimere pubblicamente la mia personale gratitudine e ammirazione alla gente di Cimolais e Claut che, secondo me, vanno meritatamente annoverati tra i soccorritori del Vajont. Italo Filippin Erto Centro diurno a rischio Non penalizzate i disabili nSono Raul, una persona diversamente abile che usufruisce per quattro giorni a settimana di un servizio di trasporto che mi porta da Padola di Comelico Superiore dove vivo, al Centro diurno di Pieve di Cadore, dove posso partecipare a iniziative sociali e svolgere numerose attività. La principale è comporre poesie, grazie alle quali sono riuscito a entrare nel Club della Poesia e del Teatro di Pieve di Cadore. Mi è giunta voce che grazie alla spending rewiev prevista per il 2014, il servizio dei trasporti dei Centri diurni è a rischio. Ma noi che viviamo in montagna non abbiamo tante possibilità e alternative per spostarci e partecipare a queste manifestazioni. Siamo già penalizzati dalle nostre condizioni fisiche, applicando la spending review ci tagliate anche una certa indipendenza che abbiamo faticato a raggiungere e che ci permette di vivere qui in montagna. Cosa volete da noi anche il sangue?

Arnaldo De Porti - ottobre 2013

 

 

 

 

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Piazza Scala - ottobre 2013