Piazza Scala

 

 

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Come accade a quanti peccano di presunzione, talvolta crediamo di inventare il mondo, per scoprire poi che altri l’hanno già fatto, molto prima di te. Ho cliccato, per caso, le parole giuste su Internet e ho ritrovato in ogni dettaglio la storia che mi aveva affascinato nella tenera età, quando avevo scoperto, sillabando sul giornalino prediletto, l’esistenza della Divina Commedia. Anzi, a dirla tutta, avevo creduto allora ingenuamente che quel "bignami" disneyano fosse davvero una più comoda trasposizione grafica dell’opera del Sommo Poeta. Dopo questo bagno d’umiltà, prendo a parlare de L’Inferno di Topolino, pubblicata sui numeri 7-12 del giornalino dall'ottobre 1949 al marzo 1950. Nel timore di incorrere poi in indesiderate violazioni del copyright, segnalo che:

- I personaggi e gli episodi appartengono ovviamente alla The Walt Disney Company;

- Molte notizie sono attinte da Wikipedia che dedica un’esauriente pagina a questa storia a fumetti;

- Altri flash sono tratti da Topolino Story 1949, Vol. 1 e Vol. 2 1950, edizione speciale per il Corriere della Sera anno 2005;

- Corre l’obbligo di citare tale Alessandro Coscia che su Rolling Stone Cultura ha trattato brillantemente nel dicembre 2012 quest’argomento (per la verità, non mi sembra di aver attinto nulla, perché quel sito l’ho scoperto mentre stavo concludendo la mia rivisitazione. Vorrà dire che dovrò fare di più e di meglio nel mio attuale intervento);

- Devo prendere atto che forse non diventerò più un romanziere di grido. Ma, da buon minimalista, i pezzulli come questi mi vengono abbastanza bene;

- Da ultimo, il lavoro di collage, di commento minimo e le illustrazioni provengono dai volumetti di mia proprietà (ebbene, li possiedo veramente; credo che scannerizzare si possa fare e non mi si possa proibire).

Cominciamo con la nota informativa di Wikipedia: lo sceneggiatore si chiama Guido Martina e si avvale dei disegni di un eccellente Angelo Bioletto. Oltre che dei consueti dialoghi nei balloons, a Martina si deve anche il complesso tessuto di didascalie in versi che accompagnano la storia. Si tratta di un vero "poema" in terzine dantesche, sforzo che frutterà all’autore la menzione del nome (vedi sotto) nella prima vignetta, cosa rara per il rigoroso anonimato in cui lavoravano i collaboratori della testata. L'Inferno di Topolino è stata la prima parodia Disney prodotta in Italia. Dopo sei anni Guido Martina ci riprovò, proponendo una nuova storia, Paperino don Chisciotte, per i disegni questa volta di Pier Lorenzo De Vita, altro grande cartoonist al servizio della Mondadori sino al 1981. Oltre a Paperino don Chisciotte, alla china di De Vita si devono Paperin Meschino, Paperino e i Tre Moschettieri e Paperodissea. La vicenda del pennuto hidalgo sarà pubblicata sui numeri 137, 138 e 139 di Topolino, tra il 25 aprile e il 10 maggio del 1956.

Di tempo ne è passato parecchio e i fumetti nel nostro Paese hanno assunto finalmente un ruolo non marginale. Confermiamo che nel 1949 i "giornaletti" erano ritenuti un discutibile strumento d’evasione indirizzato a una ragazzeria sbarazzina o perfino discola. Critici come Elio Vittorini, Oreste del Buono e Umberto Eco hanno fortunatamente rimesso a posto le cose e le strisce disegnate hanno ormai una loro dignità culturale, talvolta persino enfatizzata dai cultori della materia negli anni settanta. Ci permettiamo di riportare l’apertura programmatica di Oreste del Buono apparsa nel n. 1 di Linus di aprile 1965: "la rivista intende presentare fumetti...l’unico criterio di scelta di questa ‘letteratura grafica’ è quello del valore delle singole opere, del divertimento che può trarne il lettore, oggi", corroborata da un’opinione di Eco nell’intervista "Charlie Brown e i fumetti" nella quale si afferma "mentre abitualmente i fumetti son produzioni narrative da consumare subito come si beve un caffè, giorno per giorno e da buttare poi via, nella misura in cui sono riusciti, essi sono opera importante e sono qualcosa che va riletto". Con questi autorevoli avalli, grazie ai quali ci sentiamo finalmente riconciliati con noi stessi, vediamo come presenta l’opera Topolino Story 1949, Vol. 1, edizione speciale per il Corriere della Sera: Il lavoro rappresenta un momento basilare anche perché è la prima storia made in Italy pensata appositamente per il tascabile Topolino, ed è anche la prima seria prova di sceneggiatura disneyana di un grande autore come Guido Martina. In quest’occasione, Martina fa coppia di nuovo con il disegnatore Angelo Bioletto, dopo la stralunata prova di Topolino e il Cobra Bianco, uscita a puntate su Topolino formato tabloid e conclusasi sul primo numero del tascabile. (la pagina affianco è tratta dal n. 1 di Topolino aprile 1949, la cui copia mantengo ben stretta nelle mie mani).

Torniamo alla parodia che ci occupa. Attingiamo spunti ancora da Wikipedia, con energici adattamenti di chi scrive. "La storia si apre con il finale di una recita della Divina Commedia con Topolino nella parte di Dante e Pippo in quella di Virgilio. Invidioso del successo, Gambadilegno fa ipnotizzare da un complice i due nemici, i quali continueranno a comportarsi come Dante e Virgilio. Topolino e Pippo si recano in biblioteca per saperne di più su quel Dante per cui devono "soffrir tanti martìri". Alle prese con un gigantesco tomo della Commedia, i due cadono in preda al sonno e Topolino è catturato dal ramo di un albero, come nell'illustrazione di Gustavo Doré, parafrasi della selva, e portato all'Inferno".

Primi tre Canti. Naturalmente, Topolino è sconcertato; per meglio dire, impaurito.

Ecco qui sotto l’incontro con Pippo-Virgilio. Se nel vero Poema l’autore in preda al panico grida "Miserere di me… qual che tu sii, od ombra od omo certo!", nell’esilarante parodia Virgilio è rappresentato invece come un tal che pedalava in bicicletta, in corsa ratta e folle (la bicicletta è servita soltanto per far rima con "giuso dalla vetta").

Lo spirito guida si presenta con queste due terzine:

Io son nomato Pippo e son poeta

Or per l’inferno ce ne andremo a spasso

Verso un’oscura e dolorosa meta

Laggiù poi pregheremo Satanasso

Acciocché sia con noi tanto cortese

Da farci uscir dal doloroso passo

L’approccio con i diavoli.

Arrivati da Caronte, questi tenta di impedire loro l’accesso alla barca dei morti (chi sono questi sbafatori/che vivi stanno tra le genti ignave?). Topolino è nel pallone e, pur di salire a bordo, si presenta come colui che ha cantato "le donne, i cavalier, l'armi, gli amori" (Pippo lo sgrida: " sei un ignorante/ l'ha scritto Ariosto e non l'ha scritto Dante!").

 

 

Eccoci al Canto IV: entriamo nel limbo, popolato di studenti che sbeffeggiano quelli "che fanno tristi gli anni della scuola": Ovidio, Platone, Cicerone, Orazio e quant’altri e i vari rami dello scibile (allora mi rispose con bisbetica/voce la strega appesa per un piede/e bofonchiò "io sono l’Aritmetica/ebbi per padre il siculo Archimede/che mi nutrì con succo di radici/or son punita come qui si vede). Qualche vignetta dopo s’incontra Omero (se non mi riconosci, io son lo Greco/Maestro e padre son d’ogni favella) che, per la lingua latina, si accompagna con un Giulio Cesare superbo e affettatamente gladatorio. Termina le sue presentazioni l’aedo con una descrizione burlesca dell’ispiratore della filosofia, il sofisma.

Poiché però "in quella, il cielo balenò vermiglio/poi tosto nella tetra valle oscura/di lampi e tuoni fuvvi uno scompiglio", i due poeti fuggono e si ritrovano nel secondo cerchio (Canto V) ove Minosse punisce i vanitosi (nel Poema: i lussuriosi) indicandoli in tal modo: "Quivi-rispose-sono i gagarelli/che amaron troppo il lusso e la mollezza/da vivi sol volevano esser belli/in testa non avevano cervello/ma solo brillantina sui capelli". E’ valsa la pena aver scannerizzato l’intera ultima pagina della prima puntata (Topolino n. 7 dell’ottobre 1949), anche per una lettura delle "Note alla Divina Commedia" in calce. In esse s'informa che "nell’Inferno di Dante vige la legge del contrappasso, ovverosia ‘chi la fa l’aspetti’: chi ha commesso peccati di gola viene punito nella gola; chi ha peccato d’avarizia viene punito nel portafogli; chi è stato iracondo, ora sfoga la sua ira contro se stesso, e così via".

Nel Canto VI, quello dei golosi, facciamo conoscenza con Cerbero. La pag.103 di Topolino n. 8 (novembre 1949) è da mostrare anch’essa per intera. Ovviamente, dobbiamo prender nota che, nonostante le tentazioni, "spesso il dannato più non acconsente/di ceder della gola alla lusinga/e inchioda i denti irresistibilmente/ma è vano che l’esofago restringa/perché un demonio tosto su lui piomba/e manducar lo fa con la siringa". Inoltre, mentre i nostri eroi passano di tomba in tomba, "al suon di una tartarea tromba", mille e mille lupi scatenati cominciano a sbranare i condannati.

Siamo arrivati al VII Canto introdotto dai versi "Papé Satan, Papé Satan Aleppe/queste parole dai concetti bui/per seicent’anni niun spiegare seppe" L’invocazione di "Pluto" (la parola deriva dal greco e significa ricco) ha un significato ancora dibattuto (una minaccia? un’espressione di dolore o di meraviglia? Fermiamoci qui) e ha dato la stura nei secoli a discussioni erudite tra gli studiosi danteschi. Martina se la cava sbrigativamente, innanzitutto identificando il demone - per omonimia - nel disneyano cane Pluto e rinviando alla seconda vignetta la spiegazione delle misteriose parole d’accoglienza: "Solo Dante lo può/ragion per cui/Chi vuol saper che cosa voglia dire/Vada all’Inferno e lo domandi a lui".

 Nel quarto cerchio troviamo assieme avari e prodighi. Gli avari "quaggiuso son ridotti al miserere/e sono consumati dalla fiamma/di tutti quegli inutili denari…Tale è la punizione degli avari/e presso loro stanno gli sciuponi/che si macchian di crimini contrari". Ricordiamo che nel Poema vero è in quel contesto che Virgilio spiega al discepolo cosa sia la fortuna e come regoli le vicende umane, con i notissimi versi "Vostro saver non ha contrasto a lei/questa provede, giudica e persegue suo regno come il loro li altri dèi ". Dopo di ciò, i protagonisti si avviano verso la palude Stigia, Siamo arrivati così al Canto VIII, nel regno dei litigiosi. I due entrano in un burchiello attraversare la morta gora ("Guidata da Flegias alzò le vele/la navicella carca del mio peso/solcando un’acqua dal color del fiele/ed io, che di mirare stavo inteso/vidi genti fangose nel pantano/ignude tutte e con sembiante offeso"). Le due terzine configurano quasi un’autentica parafrasi dantesca e, per una volta, il tono goliardico pare abbandonato. Ma, subito dopo, nel costatare che i dannati si sbranano con estrema ferocia tra di loro, il commento di Topolino diventa nuovamente beffardo. Con un ardito parallelo col clima di zuffa che si viveva a quei tempi negli stadi, il poeta osserva: "Sembra di assistere a una partita di calcio!".

 

 

 

Scesi dalla barca, giungono alle porte di Dite, la città del fuoco, protetta da alte mura. Il passaggio è impedito "perché le porte sono custodite da diavoli stizzosi che, alla vista, mi fan venire la colite".

Interviene Dumbo l’elefantino volante, che riesce a portarli a destinazione. Eccoci così al Canto IX: Topolino e Pippo sorvolano un'area arroventata nella quale, invece che gli eretici e gli epicurei, per una licenza di Martina sono puniti piuttosto gli iracondi che "prendevano fuoco troppo facilmente". Topolino: "Or discendemmo dentro un infocato/cerchio di mura afose e puzzolenti/quale un cinematografo affollato/Quivi giacevan le perdute genti/supine dentro a scoperchiati avelli/da fiamme eterne resi incandescenti". Da notare che la vignetta in b/n (pag.102 del n. 8 di novembre 1949) è riproposta a colori a pag. 203 del successivo n. 9 di dicembre, con due terzine modificate.

Siamo al Canto X, quello dei seguaci di Epicuro, nel quale il Sommo Poeta è interpellato da un condannato con i versi che tutti conosciamo: "O Tosco che per la città del foco/vivo ten vai così parlando onesto/piacciati di restare in questo loco". Se nell’opera vera l’incontro è con Farinata degli Uberti, a Topolino tocca invece un battagliero Gambadilegno che lo sfida a un match di lotta. La parodia si spinge sino a far diventare la zuffa una specie di evento sportivo, con Cucciolo nella parte dello speaker. Come nella tradizione disneyana e nonostante le diverse stazze, il vilain ha la peggio (E piovver calci in faccia e pugni in testa/sì che per il furor Gambadilegno/mugghiava come fa mar per tempesta!/Infine gli affibbiai un colpo a segno/esattamente in mezzo alle mascelle/e tutto rimbombò il dolente regno!).

Dopo di ciò, mentre Pippo e Topolino si prendono una meritata pausa dopo tante emozioni, da un'arca spunta un Paperino irascibile che vorrebbe fuggire evadere in qualche maniera dal luogo di pena, ma è rinchiuso a forza nel suo avello.

Simpatica la soluzione trovata da Martina per accorciare la storia: mentre fuggono, i nostri eroi convengono di saltare a piè pari nel Canto XII, quello del Minotauro e dei Centauri che testimoniano al Divino Poeta le amare sorti dei tiranni. La versione disneyana appare qui un po’ fiacca e sembra quasi elaborata solo per tirare la volata al settimo film della casa, il sequel di "Saludos Amigos" dal titolo "I tre Caballeros", uscito in America a dicembre del 1944, ma in Italia solo pochi mesi prima, nel giugno 1949. Paperino era affiancato dal pappagallo brasiliano José Carioca e dal gallinaccio messicano Panchito Pistoles. Per chi non ricordasse i personaggi, a destra mostriamo un’immagine del lungometraggio animato, con i tre protagonisti che sorvolano Bahia.

Veniamo quindi al Canto XIII:

Come Dante e Virgilio ("ci mettemmo per un bosco/che da nessun sentiero era segnato/non fronda verde, ma di colore fosco/non rami schietti, ma nodosi e ‘nvolti/non pomi v’eran, ma stecchi con tosco"), gli eroi di Papà Walt immaginano di trovarsi in un irriconoscibile Parco di Milano ("alberi secchi e tronchi scortecciati/bucce d’arancia e pelli di salame/fra l’erbe e i fior di polverosi prati/qui il cittadin cammina nel letame…). In questo caso, e pur tenuto conto delle rovine causate dalla guerra, ci sembra che lo sceneggiatore torinese Martina sia stato per lo meno ingeneroso nei confronti della città che lo ospitava con tanta stima e considerazione. A fianco recuperiamo la tavola successiva, a colori (Topolino n. 10 - gennaio 1950), che è quasi una zoomata della scena precedente. I due protagonisti s’inoltrano nella selva che nel vero poema ospita i suicidi; gli sterpi non sono che le rinsecchite anime dei dannati (è l’episodio di Pier delle Vigne, "..tenni ambo le chiavi/del cor di Federigo, e che le volsi/serrando e disserrando, sì soavi/che dal secreto suo quasi ogn’uom tolsi), tanto che basta staccare un ramicel da un gran pruno per vederlo fatto poi di sangue bruno, Ovvio che su un periodico dedicato ai ragazzi le colpe degli iscritti a quel girone non possono essere le medesime dei personaggi di padre Dante. Qui Martina colloca più semplicemente gli allievi somari che facevano disperare i maestri nelle scuole. Per arrivare all’aula dove le birbe sono state tramutate in asinelli, in quattro vignette consecutive si consuma un simpatico siparietto circa lo stato della rete ferroviaria dell’epoca. Infatti, Topolino e Pippo salgono a volo su un treno espresso (che andava a cento all’ora ed anche più). Per prenderlo, devono spiccare un salto "al modo stesso/che usava ai tempi dello sfollamento/e che purtroppo s’usa ancora adesso…viaggiando in questo modo comodissimo/noi ci addentrammo nella selva oscura/per un sentier tortuoso e ripidissimo/e concludemmo infine l’avventura/ai piè del tronco di una pianta antica/ah quanto è triste a dir com’era dura" .

Nella selva Topolino stacca un ramoscello e si ode la voce accorata di Cosimo, personaggio minore, cugino di Clarabella (vedi la copertina del tascabile che cita questo personaggio minore, risalente al 1948).

Cosimo spiega che "da vivo…io fui monello/ed altri come me stanno nei fianchi/di queste piante, di dolore ostello/c’è chi lordava i muri e chi con franchi/disegni di coltello e punteruoli/scolpiva fregi sui ripian dei banchi). Ecco la rappresentazione di un’aula col maestro Dotto che incespica sulle parole (notare sulla lavagna un W l’Inter…), il parossismo dei discoli e la punizione dei diavoli ghignanti. In sequenza, i monelli prima sono alberi, poi diventano banchi che sono distrutti da altri monelli. I diavoli raccolgono i pezzi di legno che, riportati nella selva, ridiventano nuovamente alberi per riavviare sempre daccapo il ciclo punitivo.

Ma questa condanna appare allo sceneggiatore troppo severa e compare una dolce Biancaneve nei panni della Fata Turchina, a redimere i ragazzi e salvarli dall’inferno. La terzina finale della fatina recita "Da questo luogo vi farò fuggire/a patto che giuriate a capo chino/d’essere buoni e studiosi in avvenire!". Compaiono per un ultimo tentativo di traviamento il Gatto e la Volpe che predicano la religione dell’ozio che "è un dolce godimento/che intender non può chi non lo prova/ed è segno di senno e d’ardimento!". Il grillo saggio, chiamato in causa da Topolino, riesce però a convincere le birbe che essere studiosi e ubbidienti paga sempre e i due compari si allontanano scornati mentre i bimbi si preparano a essere in futuro buoni e diligenti scolari.

Il Canto XIV viene saltato da Martina. E’ quello della "landa sabbiosa", con citazioni mitologiche, dove Dante colloca i violenti contro Dio e contro l’arte. Passiamo perciò al XV: Topolino si trova in un deserto su cui cadono copiose lingue di fuoco. Nel Poema, è il capitolo dei violenti contro natura e dell’incontro con Brunetto Latini. Topolino incontra per analogia un antico maestro di scuola condannato genericamente per aver "predicato bene" e "razzolato male".

Quanto al successivo Canto, nei balloons Pippo chiede "ehi, perché non ci fermiamo nel XVI? E Topolino spiega che non ne vale la pena, visto che "contiene gli stessi peccatori del XV, sappiamo già di cosa si tratta!". Comoda, la tecnica del Martina! Sorvoliamo pure il XVII ed eccoci al XVIII nel girone dei ruffiani, adulatori e seduttori ("Luogo è in inferno detto Malebolge/tutto di pietra di color ferrigno/come la cerchia che d’intorno il volge"). La punizione riservata a questa categoria è molto severa (e quindi giù nel fosso/vidi gente attuffata in uno sterco"). Il canto chiude con i versi di Taidé che tutti i liceali conoscevano una volta. Gli eroi disneyani hanno a che fare piuttosto con i frodatori, quelli che carpiscono la buona fede della gente. Difatti, dalla melma che Pippo crede sia cioccolata emerge Fratel Coniglietto "un orecchiuto e scaltro frodatore"che - come nel gioco dei quattro cantoni - tenta di far prendere a un altro il suo posto per potersi liberare del castigo. Topolino riesce, però, a salvare dalla trappola l’ingenuo amico. Non può però impedire al credulone Compare Orso di cadere nell’inganno del malizioso Coniglietto che riesce così a sottrarsi alla sua pena.

Del Canto decimonono, quello delle invettive feroci contro il mercimonio dei beni spirituali e degli uffici ecclesiastici (O Simon mago, o miseri seguaci/che le cose di Dio, che di bontate/deon esse spose, e voi rapaci/per oro e argento avolterate/or convien che per voi suoni la tromba/però che nella terza bolgia state), in Topolino non v’è alcuna traccia. Nel Divino Poema i condannati sono infilati in un pozzo a testa in giù mentre lingue di fuoco bruciano i piedi che fuoriescono dall’avello. Mancando i bei fumetti di Bioletto, per una citazione "colta" del castigo accontentiamoci (si fa per dire!) di un’illustrazione di Gustavo Doré.

Andiamo quindi alla ricerca del XX Canto, ov’è descritta la pena dei profeti, dei maghi, degli astrologi. Per la legge del contrappasso, quanti avevano la pretesa di leggere il futuro vanno in lenta processione costretti a mantenere il viso eternamente rivolto all’indietro. Partendo dai mitici Tiresia e Aronta, Dante trova lo spazio per una citazione delle belle località geografiche dell’Italia centrosettentrionale (Mantova, Peschiera, Brescia, il Mincio e quant’altro). Lo sceneggiatore disneyano coglie l’occasione per fare un accenno alla passionaccia degli italiani per i concorsi a premi. Nel 1946 era stata inventata la schedina legata ai risultati delle partite domenicali. Si vinceva col 12 e poi con 13. I meno giovani ricordano ancora con quanto zelo si radunavano nei bar i teorici del pallone per discettare sui pronostici, nella speranza di arricchire senza fatica. Proprio mentre "Topolino" pubblicava la storia sceneggiata da Martina, la "Sisalle", com’era chiamata popolarmente, aveva mutato il suo nome in Totocalcio. La vignetta raffigura con ironia quanti si illudono di diventare milionari e cambiare la loro vita con il gioco e le scommesse. Come il Poeta, Topolino e Pippo incontrano in tal modo gli indovini costretti a girare come trottole con un sacco sulla testa. Tenuto conto però dei destinatari del fumetto, Eta Beta mostra tra i dannati del girone i "suggeritori", cioè quelli che a scuola suggerivano le risposte ai compagni impreparati, commettendo un duplice peccato: favorire i più ignoranti e ingannare i maestri. Mentre vediamo quei diavoloni verde clorofilla che fustigano quanti millantavano di poter prevedere il futuro (facoltà ch’è riservata solo a Dio) rammentiamo che Dante elenca i nomi dei démoni: Barbariccia,Alichino,Calca-brina,Cagnazzo,Libococco,Graf-fiacane,Farfarello,Rubicante,Ciri-atto,Draghignatto e Malacoda.

Con un nuovo salto, passiamo al Canto XXIII: Dante descrive il castigo degli ipocriti, mentre Topolino e Pippo assistono a quelli degli alunni che marinavano la scuola fingendo di essere malati. Sempre di bugiardi si tratta, anche se le pene sono ovviamente diverse.

 

 

Dobbiamo essere grati al nostro fumetto se, esplorando sommariamente l’autentico Canto XXIV - quello dove sono contemplate le pene dei ladri - possiamo rileggere le parole d’esortazione di Virgilio a Dante che recitano "ché, seggendo in piuma/in fama non si vien, né sotto coltre/sanza la qual chi sua vita consuma/cotal vestigio in terra di sé lascia/quali fummo in aere e in acqua la schiuma". Insomma, non adagiamoci, se vogliamo compiere le grandi opere! E il Sommo, spronato, dichiara "Va, ch’i son forte e ardito". Ah, che bella espressione di fiducia in se stessi! Ai ladri è pure dedicato il Canto XXV, a dimostrazione che questa categoria era ben rappresentata nel nostro Paese anche settecento anni fa. Più modestamente, invece che del pistoiese Vanni Fucci e del mitologico centauro Caco (mazziato a morte da Ercole per avergli sottratto buoi e giovenche), Topolino e Pippo si imbattono in un ladro di polli, qual’è Ezechiele, alle prese con i tre porcellini. Com’è nella tradizione, il Lupo Cattivo con un soffio devastante sfonda la porta e agguanta il più grassoccio dei fratellini ("La porta cadde con un tonfo cupo/e il ladro protendea la zampa unghiuta/sul più rotondo del tremante strupo./Il mio verso di continuar rifiuta/e gli occhi non ardiscono guardare/ e la lingua divien,tremando,muta!") A proposito, la parola strupo è una metatesi di " stupro ". Si registra effettivamente in Inferno VII 12, in rima : Non è sanza cagion l'andare al cupo: / vuolsi ne l'alto, là dove Michele / fé la vendetta del superbo strupo. (citazione dotta da Treccani.it; Consoli: Enciclopedia Dantesca). Insomma, lo sceneggiatore Martina non era uno sprovveduto!

Ma il Canto XXV (tra quelli di più difficile decrittazione del Poema) è pure quello delle metamorfosi dei dannati, che si fondono con rettili mostruosi, per poi sdoppiarsi nuovamente dopo lo strazio dei corpi. Ezechiele è invece aggredito da un branco di galline (e cento e mille polli indemoniati/sul ladro si lanciarono all’attacco/eran tutti volatili rubati/e ora, come vuol lo contrappasso/nel morso del rimorso eran mutati!). Impiumato alla perfezione, viene scambiato per un grosso uccello e impallinato dalla cacciatrice di frodo Comare Volpe. Passiamo al Canto XXVI, quello dei bugiardi. Qui Martina la fa un po’ grossa, perché, ripetendo un luogo comune che è purtroppo duro a morire, immagina che i suoi protagonisti entrino in una redazione e accusa senza mezzi termini i giornalisti del peccato di mendacio. Insomma, l’autore non va troppo per il sottile: addirittura taccia i "gazzettieri" di lesa verità. Aleggiava nella cultura del 1949 ancora lo spiritello degli anni trenta, quando qualcuno aveva proclamato "qui non si fanno chiacchiere inutili!" Ma procediamo. Sappiamo che questo è il luogo nel quale il Sommo incontra Ulisse, che pronuncia i famosissimi versi "Considerate la vostra semenza/fatti non foste a viver come bruti/ma per seguir virtute e canoscenza". Per costringere alla sincerità i cronisti, Martina si serve astutamente dei poteri straordinari di Flip, il "gangarone" di Eta Beta, vicino al quale è impossibile negare le verità.

Nel Poema Ulisse è avvolto in una fiamma a due punte assieme a Diomede. Muovendo dall’assunto che il bugiardo afferma il vero e il suo contrario, pure nella storia disneyana compare la fiammella contenente Paperino che, nella dissociazione delle personalità, si sdoppia in due parti, quella soave e quella nevrastenica. E mentre la metà cattiva insulta e l’altra buona blandisce (nei due fumetti appaiono le scritte "Maledetto Topolino, Ti voglio bruciare vivo" e l’altra "Carissimo Topolino, lascia che ti baci!" ), il pentimento sollecitato dalle parole convincenti di Topolino nasce nel cuore del papero, che si redime e prende per mano il visitatore per accompagnarlo al Cocito, il lago gelato, dove scontano la loro pena i traditori ("eran l’ombre dolenti nella ghiaccia/…ognuna in giù tenea volta la faccia") . Abbiamo saltato a piè pari i Canti dal XXVII al XXXI per approdare col Canto XXXII nella Caina, lasciandoci alle spalle scismatici, eretici, sobillatori, alchimisti, falsificatori di ogni genere e specie. Ovviamente, la parodia trasforma il terribile luogo di pena in una "gelateria" dove i tre compari immaginano di gustare coni deliziosi. La realtà però è diversa. Altro che gelateria! Un infreddolito Paperino si chiede se non sono arrivati al polo! Il Canto trentesimoterzo è quello famosissimo del Conte Ugolino, coi versi che tutti abbiamo imparato a scuola e con l’invettiva finale alla città del condannato ("Ahi Pisa, vituperio delle genti/del bel paese là dov’il sì sona). Pure Martina non si sottrae e inizia una terzina col medesimo incipit (La bocca sollevò dal fiero pasto/Quel peccator, poi disse Topolino/Ora tu tocchi un doloroso tasto). Invece che il cranio del vescovo Ruggieri qui c’è un Ugolino arbitro di calcio che si era fatto tentare, vendendosi una partita. E quindi dovrà azzannare un pallone che gli scoppia continuamente sul viso e così per l’eternità. Ai più piccini ricordo che tanti anni fa il pallone era formato da una camera d’aria interna e da un involucro rotondo esterno di cuoio duro disegnato a spicchi, con una fessura dalla quale si accedeva alla valvola, che veniva gonfiata con una pompa dotata di una lunga siringa. La fessura era rinchiusa con una stringa che si annodava strettamente attraverso appositi buchini. Che dolore quando, effettuando un colpo di testa, si colpiva dal lato della cucitura! Il disegno di Bioletto mostra benissimo questo particolare, probabilmente ignoto ai ragazzi d’oggi. I denti acuminati dell’arbitro corrotto fanno esplodere il pallone come una bomba e i nostri protagonisti si trovano proiettati nel più profondo Inferno tenebroso. Attraverso un foro nel ghiaccio si ritrovano alla fine del sogno. Nel Poema il Canto XXXIV inizia con "Vexilla regis prodeunt inferni/verso di noi; però dinanzi mira/disse ‘l maestro mio, se tu ‘l discerni". Siamo nel buio della Giudecca, dove sono puniti coloro che tradirono i loro benefattori, interamente sepolti sotto il ghiaccio. La vita è spenta del tutto, le ombre "trasperian come festuca in vetro". Lucifero si erge a mezza persona dalla superficie gelata e nelle sue tre facce si ritrovano le tre bocche che divorano in perpetuo Giuda Iscariota, Bruto e Cassio, insomma i più deplorevoli traditori che il mondo antico conoscesse. Topolino vede infatti l’Alighieri intento a castigare i due autori, Martina e Bioletto, in quanto "traditori massimi", avendo osato profanare con la scherzosa parodia la più importante opera poetica della nostra letteratura. Eccoli al cospetto del Sommo Poeta, punzecchiati dalla punta di una stilografica a pompetta.

Ma, proprio mentre Dante si prepara a punire severamente gli irriverenti autori, spunta Topolino che implora il perdono, perché la parodia aveva il solo scopo di divertire gli innocenti lettori del giornalino.

Eccoci giunti alla meta. Lo sceneggiatore, memore delle vicissitudini appena passate (la guerra devastante è terminata da poco più di quattro anni) attribuisce a Dante l’auspicio che l’Italia possa "sollevare il capo affranto" e che, asciugato il pianto, "il ciel s’accenda di fiammelle/splendenti a rischiararti ancor la via/sì che tu possa riveder le stelle" .

 

Per il piacere di chi ha letto, termino mostrando le copertine, verso e recto, del tascabile n. 12 del marzo 1950 che pubblicò l’ultima puntata di questa divertente parodia.

 

 

 

Qui sotto l’immagine dello scriba pentito che chiede venia a Dante, a Topolino e agli amici che si sono sobbarcati la lettura di questa…pseudoversione critica di una vecchia storia del giornalino prediletto!

 

 

 

 

Enzo Barone - dicembre 2013

 

 

 

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Piazza Scala - dicembre 2013