La SLA: mia madre, la malattia ed io    

 

Non eravamo mai stati d'accordo su nulla. Eppure ci legava un affetto sconfinato. Solo una madre ed un figlio maschio, unico per la verità anche un poco ribelle, potevano litigare furiosamente per poi ritrovarsi dopo un'ora come se non fosse accaduto nulla.Però ci cercavamo. Sempre. Soprattutto in età adulta.
Cominciò a camminare con difficoltà. Lei che non aveva mai bevuto se non a Natale o in alcune rare circostanze un bicchiere di spumante, lei che odiava l'odore delle sigarette, che si arrampicava in montagna, che passeggiava ore ed ore in città, da una vetrina all'altra, lei che aveva sempre mangiato cibi sani ed era golosissima di gelato, all'improvviso non riusciva più a far ciò che aveva sempre fatto. "Mamma sarà una storta". Come sempre, purtroppo, ed è l'unica cosa che la accomuna ai giocatori di calcio, non sopportava il dolore. Al minimo accenno prendeva ogni sorta di medicinali che potessero lenire anche un semplice mal di pancia. Antidolorifici per qualche colica, antidolorifici per un colpo subito sbattendo un braccio contro una porta, antidolorifici anche per quel fastidio che sotto la pianta delle estremità inferiori non le permetteva di indossare le solite bellissime scarpe che acquistava.
Andò da uno specialista. Le fece qualche infiltrazione. Parve migliorare ma la deambulazione cominciava ad essere sempre più difficile. Non all'improvviso, ma crescevano le difficoltà costantemente, senza alcuna apparente spiegazione. Il suo passo non era più spedito; la camminata si era fatta ardua; pian pianino oscillava spostando il peso da un piede all'altro. Intanto trascorrevano i mesi. Andò dall'ortopedico. Un altro. A Novara. Le consigliò delle scarpe speciali. Poi ancora altre visite: costose, in cliniche dai nomi prestigiosi. Cambiò le scarpe. Ma non migliorava. Anzi. Cominciava a far fatica. Persino in casa spostarsi dauna stanza all'altra era un piccolo dramma. Fino a quando non cominciò ad usare un bastone. Quello di sua madre. Poi dovette essere accompagnata da mio padre ovunque. Anche solo per raggiungere l'ascensore. Non provava un dolore particolare, ma il non poter più far ciò che fino a qualche mese prima le riusciva con estrema grazia ed eleganza, non le era possibile. Si fece ricoverare all'ospedale di Alessandria. Vi rimase una settimana. Ormai poteva camminare con grande fatica e solo se aiutata. Credo che i medici individuarono la malattia: non ne erano sicuri; dirò che sfiorarono la diagnosi. Le fu consigliato di recarsi a Milano. Al Besta, mentre la situazione non migliorava. Sembrava aver raggiunto una soglia di equilibrio. Non peggiorava, non andava meglio.
All'Istituto neurologico di Milano centrarono perfettamente la causa del suo problema. Le parlarono di Torino, del professor Chiò, della sua equipe e là ci recammo dopo alcune settimane, mentre diluviava.
Fu la prima visita. A me dissero quasi subito quanto fosse grave ciò che mia madre stava vivendo. Le fecero esami. Trascorremmo giornate, suddivise tra varie settimane, per sottoporsi a tutti gli esami possibili che gli ammalati di SLA ed i loro famigliari ben conoscono.
Mio padre fu tenuto all'oscuro: non era in grado, nonostante non fosse anziano di sopportare più di quanto non sopportasse una situazione che cominciava, in casa, ad  essere pesante. Loro vivevano soli: io con la mia famiglia, a pochi chilometri.
I mesi  trascorrevano; dal bastone ormai si era passati al sostegno in metallo con le rotelline: serviva soprattutto la notte, per andare in bagno. Quindi neppure più quell'attrezzo fu utile e venne adottata la carrozzella.
Ci fu un incontro drammatico: mia madre è sempre stata una donna molto intelligente; compagna di scuola di Umberto Eco, quadro direttivo all'Enel, in pensione coltivava mille interessi. S'iscrisse all'Università. Studiava. Scriveva ancora, anche se con sempre maggiore difficoltà. Parlava. Riempiva quaderni con la sua firma, con una parola, per esercitarsi. Per non perdere elasticità e controllo, almeno delle dita e con le mani.
La situazione psicologica non era delle migliori: il compagno della sua vita faceva ciò che poteva; e capiva ciò che era in grado di comprendere, non senza manifestare momenti di intolleranza. E così, una notte, scese dal letto: mamma tentò di raggiungere il bagno; cadde quasi subito e si ruppe il femore in due punti.
Vidi le lastre; le ossa erano osteoporotiche. Non si poteva ingessare. Così venne fasciata e la fasciatura era sorretta da una piccola e leggera impalcatura metallica, fissata in 4 punti alle gambe da piccole viti e sottili fili metallici. Due vicino all'anca; due, appena sopra il calcagno destro. Venne visitata per l'ultima volta da Chiò. A Torino, nello studio del professore, ella volle sapere che cosa le sarebbe accaduto. Io ero con lei. Mio padre attendeva seduto in corridoio. "Lo vuole proprio sapere?", fu la domanda. "Si" fu la pronta risposta. S'incrociarono gli sguardi. E così le venne spiegato tutto. Anche che le speranze di sopravvivenza non sarebbero state superiori ai 3-4 anni. Ci venne consegnata la prima confezione di Rilutek.
Mia madre continuava a respirare da sola. Con fatica, ma autonomamente. Rimase a letto 4 mesi. Poi venne il giorno in cui era necessario togliere la fasciatura. Mio padre entrò in ufficio da me con il volto strano. Disperato. Corsi in ospedale, ad Asti. Non saprei dire perchè ma passai prima dalla neurologia, dove lavorava da pochi mesi una delle assistenti di Chiò; venne fatta subito una richiesta urgente di ricovero in pneumologia, quindi andai in ortopedia. Su di una barella della Croce Verde, accanto da una amica, compagna di lavoro in pensione, vidi respirare una donna, il cui petto si alzava e si abbassava visibilmente con una immane fatica. Sembrava un mantice. Non persi tempo: inseguito da chi voleva impedirmi di portarla nello studio di pneumologia, infilai un ascensore. Giungemmo appena in tempo. Le venne immediatamente applicata la maschera con l'ossigeno; le fu tolto il sangue arterioso; le venne misurato il grado di ossigenazione del sangue. Il livello sfiorava il 90 per cento e scendeva ad una velocità impressionante. Venne convocato il primario della rianimazione. Là fu trasportata mentre i diagrammi continuavano a scendere paurosamente. Non era in coma, ma quasi. Il livello era sceso sotto quota 75.
Trascorsero due ore. Quindi venni chiamato dal Primario. "Abbiamo tentato di tutto. C'è una sola cosa da fare. La tracheotomia. Sei d'accordo?". Firmai. Mia madre fino a poche ore prima era lucidissima, parlava a stento ma con proprietà di linguaggio: non era giusto che morisse.
Non le venne praticata la Gastrostomia Endoscopica Percutanea, detta anche PEG.
Il giorno dopo, vestito con l'apposita attrezzatura entrai nel reparto. La vidi. Temevo che la mancanza di ossigeno avesse potuto procurare danni cerebrali. Mi vide. Alzò una mano. Era salva, per il momento. Ed era ancora lei.
Dopo pochi giorni fu ricoverata nel reparto di medicina intensiva. Ormai era tracheotomizzata, ma riuscii, in qualche modo a farle assaggiare uno yogurt. Piano piano, come si fa con i bambini. Un cucchiaino per volta, giorno dopo giorno, comincio' a mangiare da sola.
Le mani funzionavano. Respirava. Non parlava, ovviamente per via del palloncino. Furono giornate difficili. Il suo organismo stentava ad abituarsi in quella posizione che non avrebbe mai più abbandonato. Le conseguenze le potete immaginare.
Però dopo che fu ricoverata in una struttura che era dotata di una infermiera professionale notturna, io credo che tra lei e me, paradossalmente iniziarono i 19 mesi più belli, più intensi, più dolorosi, ma anche più fortemente sentimentali, della nostra vita.
Avevo imparato a far tutto; aspirare, darle le medicine, sederla perchè mangiasse non allettata, rimanevo con lei dalle 16 fino a quando non si sentiva di poter dormire con una certa relativa tranquillità e comodità.
Potrei raccontare molti episodi: delle sue macchine conoscevo ogni segreto; sapevo perfettamente come e dove si poteva prenderle il sangue arterioso; devo affermare senza nessun scrupolo che ho dovuto letteralmente insegnare ad altre professionali, in genere straniere, che cosa dovevano fare per farla respirare meglio; che necessitava di integratori, che non era necessario lavarla e cambiarla, quando lo pretendeva: non accorressero le aiutanti. Ci pensavo io. E lei scriveva su una lavagna tutte le sue esigenze. Le lamentele. Cosa aveva mangiato. In fondo, pare strano, abbiamo  "parlato" di tutto. E ovviamente anche litigato. Volevo reagisse quando si sentiva mancare: quando lucidamente ricordava che quel letto e quella camera sarebbe stata l'ultima dimora della sua vita.
Eppure due volte sole la vestii. Staccai la macchina dalla presa: inserii la batteria e le feci fare un giro in cortile sulla sedia a rotelle. Un modello super moderno che non le piaceva.
Curammo le piaghe da decubito, assistetti al cambiamento della valvola: stringendole la mano. In una di quelle occasioni, dopo. mi scrisse che quando fosse giunto il momento non voleva essere "attaccata alle macchine". Che la lasciassi andare. Pochi giorni prima, il medico della Casa in cui era ricoverata mi chiese di visitarla. L'auscultai; le misurai il livello di ossigenazione: gli chiesi di tentare ancora con una flebo di cortisone e di Ventolin. Mi chiese se avessimo cambiato idea. No. Fu la risposta. Tutto avvenga naturalmente, ma senza procurarle altre sofferenze.
Cercai una vena. Non riusciva più a "tenere" neppure la farfalla. La professionale le inserì la flebo. Mi guardò come per dirmi: "Ma come hai fatto?".
Non lo so. Due giorni dopo, si volse verso la finestra, si aggrappò ad una delle sbarre che erano state inserite affinchè non cadesse, ma utili anche a fissare i tubi, si girò e terminò la sua giornata terrena.
4 anni e mezzo dopo il primo problema alle estremità inferiori, 23 mesi dopo che era caduta e si era rotta il femore, diciannove  mesi dopo il ricovero nella casa di riposo RSA.
Ogni sera le mettevo vicino al letto, in una posizione per lei comoda affinchè li afferrasse, 10 bicchierini con del lLxotan.
Uscivo. Ero sempre in moto. Mi fermavo e volgevo lo sguardo verso la finestra della sua camera e pensavo. "E' lei che sta per morire. E' lei che se ne andrà. Tu sei fortunato. Adesso andrai a casa. Con il dolore nella mente e nell'anima, ma tu vivrai. Il problema è il suo. Purtroppo.".
Ero stanco. Si, dopo 19 mesi ero stanco, ma non l'avrei lasciata mai. Non l'avrei mai attaccata ad una macchina purchè vegetasse.
Era il 30 ottobre 2006. Anche la mia mamma, come un'altra persona a me molto cara, è nel mio DNA. Ogni tanto penso:" Caspita è accaduto questo. Adesso le telefono....".  Poi mi prende un groppo in gola. Scende qualche lacrima. No, non è possibile.
Eppure mia madre ha lottato come poteva, fino alla fine. Amava la vita, come tutti forse, ma lei la viveva. A modo suo. Ma lei la viveva. Non si lasciava scivolare addosso nulla.
Non so cosa mi abbia lasciato, non so  cosa abbia  dato io a lei; non lo so proprio. So che sembrava una Principessa in quel letto, sempre comunque pettinata. Si curava, fino a quando aveva potuto farlo, anche usando la crema per il viso e per le mani. Voleva un cuscino bianco di gigli. Solo quello. Bianchi come la sua vita: cristallina, bianchi come la sua anima.
So solo che quel cuscino me lo porto dentro.
Nonostante tutto, sono stati i nostri più bei 19 mesi mesi della mia vita; forse per lei e dentro il suo cuore, anche per lei.
Mi manca. Eravamo l'uno, lo specchio dell'altro. Non ce lo siamo mai detto, ma probabilmente lo sapevamo da sempre. 
Poi nacque Viola.      

Maurizio Dania - febbraio 2011    

 

 

 

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