Dalla Sicilia il collega Peppe Russo ci parla del teatro greco di Segesta
Segesta ha goduto nel corso dei secoli di alterne fortune. Non si conosce
la sua data di fondazione ma sembra che già nel IV secolo a.c. fosse
abitata. I suoi fondatori furono, secondo la tradizione, i profughi della
distrutta Troia. Furono chiamati Elimi dal nome di Elimo, anch’egli, come
Enea, figlio di Anchise, ma nato non dalla stessa madre: Alceste, figlio
della nobile troiana Egesta e del dio del fiume Crimiso, ne fu il primo re.
Durante la dominazione romana, la città di Segesta fu esentata dal pagamento
dei tributi a Roma in considerazioni delle comuni origini. Enea, altro
troiano illustre, infatti, dopo lungo peregrinare e dopo essere approdato a
Erice dove seppellì il padre Anchise, creò una numerosa colonia di profughi
nel Lazio e dalla quale, secondo quanto tradizionalmente ricordato, ebbe
origine il popolo romano.
Il teatro fu costruito intorno alla fine del III secolo a.c., sul versante
nord dell’acropoli di Segesta, sulla cima più alta del monte Barbaro.
Orientato a Nord, il teatro ha una magnifica scenografia naturale,
rappresentata dal monte Inici, dalle verdi colline circostanti e dal mare di
Castellammare. Esso fu costruito secondo le regole dell’architettura greca
ma, al contrario di quella greca, la cavea non poggia direttamente sulle
rocce sottostanti ma su manufatti cementizi.
La cavea è il luogo riservato agli spettatori. La cavea di Segesta, il cui
diametro misura 63 metri, è divisa da un corridoio centrale in due sezioni:
una superiore e una inferiore. Recentemente sembra che sia stata scoperta, a
seguito di scavi ancora in corso, una terza sezione posta più in alto e che
porterebbe la capienza totale del teatro a circa 4.000 spettatori.
L’orchestra, la parte riservata al coro, è formata da un semicerchio di 18,4
metri ed è munita di corridoi sotterranei che permettevano agli attori di
raggiungere gli spogliatoi.
La scena è la parte di cui è rimasto poco o niente; dei due piani originari
restano solo pochi filari di blocchi. La meraviglia è che gli attori non
hanno bisogno di strumenti per far arrivare la loro voce agli spettatori, se
non in casi particolari.
E, infatti, durante l’estate, il teatro torna a vivere, grazie alle
rappresentazioni che sono programmate durante i mesi di luglio e agosto.
Inimmaginabile la bellezza delle rappresentazioni all’alba. Il cielo si
tinge di un rosa cangiante, man mano che il sole spunta all’orizzonte e va a
colpire, sia pure blandamente, gli occhi degli spettatori.
Si va da Plauto Ad Euripide, da Eschilo a Menandro, o da Pirandello a
Giuseppe Ayala (pezzo tratto da un libro dello stesso Ayala sulla sua
collaborazione con i giudici Falcone e Borsellino). Ricordo un meraviglioso
Modugno in Liolà di Pirandello (ma questo è uno spettacolo datato nel tempo)
ma anche Ficarra e Picone o, quest’anno, Vecchioni e Pino Daniele.
Devo confessare che gli spettacoli più belli, a mio parere, sono stati negli
anni 70/80 o quando il teatro era gestito dall’INDA (Istituto Nazionale del
Dramma Antico); gli spettacoli erano prima proposti al teatro greco di
Siracusa e quindi presentati a Segesta.
Una nota sulla scenografia; questa estate ho assistito a due soli spettacoli
ed ho potuto notare come la scenografia fosse limitata al massimo: a parte
il panorama naturale, poche suppellettili, come peraltro evidenziato dalle
fotografie che seguono, sia per la donna di Samo, di Menandro che per Le due
sorelle, liberamente - molto liberamente - ispirato a Stichus di Plauto.
Le ultime due foto sono del 1968 e, come si può benissimo verificare, la
scenografia era più ricca. Il bambino ripreso in una delle due foto,
all’epoca aveva solo tre anni; adesso – già da undici – mi ha reso nonno.
Peppe Russo - novembre 2010
Piazza Scala - novembre 2010