Silvia Vegetti Finzi

 

Tra le figure femminili dell’antichità spicca Penelope, la mitica moglie di Ulisse, la regina di Itaca, rimasta ad attendere il marito per dieci lunghi anni, dopo la fine della guerra di Troia.

Penelope, accerchiata dai Proci, i giovani principi impazienti di sposarla per prendere il posto del Re, riesce a difendersi dal loro assalto stabilendo un patto: si deciderà a indicare il prescelto soltanto quando avrà terminato di tessere la tela.

Quale tela? Il lenzuolo funebre del suocero Laerte che Penelope fila di giorno e disfa di notte, un tessuto interminabile quindi che, come ogni attesa, connette il prima e il poi, l’oggi e il domani, il sempre e il mai.

Penelope, come le Ore, le Parche, le Moire, è un simbolo del tempo ma, al contrario delle dee ferali, sospende l’esito, ferma l’attimo nella ripetizione e fa della morte (l’azione di disfare) la possibilità stessa della vita.

Nelle sue mani sapienti scorre il filo che annoda e riannoda l’alleanza coniugale, riafferma la fedeltà, conferma la speranza.

La sua attesa è nello stesso tempo immobile e mobilissima. La immaginiamo seduta tra le ancelle mentre scruta il mare che le riporterà il suo sposo ma, allo sguardo fisso all’orizzonte, corrisponde il movimento ritmico delle mani intente all’opera che non conosce fine.

Non sappiamo che cosa rappresentasse quella mitica tela. Il poema celebra il fare, non il prodotto, il processo non l’opera, l’astuzia, non la creatività.

E’ il destino riservato per secoli al lavoro femminile, ritenuto utile, contingente, ripetitivo, escluso per definizione dall’estetica del bello.

Solo recentemente, le donne, non una eccezione come Artemisia Gentileschi, ma tante donne, diverse tra di loro per storia, condizione, personalità, hanno avuto il coraggio di iscriversi sotto le insegne dell’arte e di proporre all’attenzione del mondo il loro lavoro. Anna Santinello è una di queste: esile come una bambina, forte come un guerriero, umile come un santo, piega matasse di duro filo metallico alle esigenze della sua immaginazione. Con un travolgente corpo a corpo tra materia e forma, corpo vivo e simulacro, soggetto e oggetto crea dal nulla presenze inquietanti, parvenze impositive eppure inconcluse, incerte se procedere o arretrare, esserci o scomparire dalla scena del mondo.

Le sue opere sono nello spazio ma non vi appartengono, sono nel tempo ma non mutano perché il fare e il disfare coabitano qui e ora, immobili come le mani tronche che suonano una tastiera invisibile producendo una musica inudibile.

Osservatela mentre realizza l’opera il “nido”: catturata dalla ragnatela del suo lavoro, Anna si colloca tra il dentro e il fuori. Da una parte si immedesima con la madre che crea il figlio, dall’altra col figlio che cresce in virtù della gestazione materna.

Dalle sue fragili mani nasce un mondo mitico, fatto di corpi inconclusi, frammentati, sbriciolati, di membra che si cercano senza congiungersi, giganti solitari collocati in una dimensione intermedia tra l’inizio e la fine. Talora si sdoppiano e, specchiandosi, riflettono una immagine simile e diversa, mai complementare, come se l’alterità che ci divide da noi stessi e dall’altro fosse irriducibile a una sintesi. Anche nell’incontro più ravvicinato ognuno resta solo, incapace di pronunciare quel verbo che potrebbe spalancargli le porte della comunicazione, di farlo sentire “insieme”. La testa di bronzo vetrificato non ha bocca per parlare, solo occhi sgranati per guardare, non il vuoto che rinvia sempre a un pieno, ma il nulla che pietrifica.

Infine, da una croce invisibi lesi protende un corpo di uomo odi donna indifferentemente, un corpo dolente che chiede aiuto e al tempo stesso esorta e si arrende, condanna e perdona.

Coerentemente con l’afasia delle figure, le opere di Anna Santinello non hanno titolo perché nel suo mondo i discorsi sono rappresentati dal filo che lo connette, dalla rete che lo tiene insieme. Il suo annodare è simile ai lavori di maglia e uncinetto con i quali le donne hanno da sempre incrociato fili e parole, tessuto corredi e affetti per accompagnare la nascita, le nozze, la vita e la morte.

I fili che Anna intreccia in una trama fittissima provengono da una fornace e, in quanto tali, sono prodotti inferi come quelli fabbricati da Efesto, il dio metallurgico, ma nelle sue mani divengono malleabili e luminosi come fili di seta, docili come steli d’erba.

C’è forza nella sua creatività ma anche dolore, resistenza e cedimento, potenza e impotenza.

II  tema della potenza femminile, contrapposta al potere maschile, si evidenzia qui in modo esemplare.

Mentre il potere è esplicito, simbolizzato, avallato socialmente e genealogicamente trasmissibile, la potenza è implicita, oscura, inquietante, personale. Una differenza incarnata, nelle società arcaiche, dalle figure del Re e dello sciamano.

Anna non ha potere ma potenza, come rivelano i corpi materni intenti a un parto senza fine, di cui la donna non godrà i frutti perché dimidiata, abbandonata alla dispersione del tempo naturale, che non conosce cronologia, né accumulo.

Spesso i materiali che Anna usa sono di recupero, strappati alla discarica di una storia senza storiografia, di un accadere senza memoria.

Eppure, nel suo insieme, l’opera parla di noi, ci rappresenta, dice ciò che, a parole, non sapremmo dire. Anna mette in scena, attraverso le sue creazioni, il passato più remoto e il futuro più incombente, esprime la nostra debolezza e la nostra forza, ciò che siamo e ciò che potremmo essere: creature e dee.

Ancora una volta si conferma qui l’osservazione di Freud: “sulla via della verità gli artisti ci precedono sempre”.

 

 

 

Piazza Scala - aprile 2013