Il collega Vincenzo Ferrara ricorda il bisnonno Ignazio
Sanfilippo
Trascrivo qui di seguito un articolo a firma Mario
Genco tratto da "La Repubblica"- Palermo del 28 settembre u.s.
Riguarda l'avventurosa vita di Ignazio Sanfilippo, mio bisnonno ed oggetto
del mio libro "Ignazio Sanfilippo - Un Gattopardo nel Deserto".
Vincenzo Ferrara - ottobre 2011
Il cercatore di zolfo dimenticato in Libia
LA SERA del 29 settembre
del 1911, un secolo esatto fa, l' Italia dichiarò guerra all' Impero
Ottomano. Obiettivo: impadronirsi della Libia. Fra ultimatum e dichiarazione
di guerra passarono poche ore: il governo "dimenticò" un siciliano che aveva
mandato laggiù a capo di una spedizione scientifica, per cercare zolfo. Quel
siciliano si chiamava Ignazio Sanfilippo, aveva cinquantaquattro anni, ed
era uno dei massimi esperti di miniere di zolfo della Sicilia. Di nobile e
facoltosa famiglia di Casteltermini (Agrigento), proprietario di solfare,
Sanfilippo aveva lasciato gli studi di ingegneria per dedicarsi alle miniere
della famiglia ed era diventato un tecnico preparatissimo e innovatore: per
le sue riconosciute capacità manageriali e tecniche era stato chiamato da
Ignazio Florio jr. a dirigere la Societè Generale des Soufres. Una storia
poco nota e piena di avventure, che un bisnipote ha raccontato in un libro -
"Ignazio Sanfilippo - Un Gattopardo nel deserto" - che è anche un
preciso compendio sulle solfare della Sicilia: si chiama Vincenzo Ferrara
e mentre lavorava in mezzo mondo come dirigente della Banca Commerciale,
trovava il tempo di cercare e studiare documenti nell' archivio di famiglia
e in quelli di istituzioni, banche e ministeri. Quella sera del 29
settembre, nel grosso villaggio di Socna, capoluogo dell' oasi di Giofra, a
sud est di Tripoli, Sanfilippo si preparava alla partenza della carovana: l'
indomani mattina si doveva muovere verso la Sirtica, per affrontare la parte
più impegnativa della missione. Nonostante che da quando era partita da
Tripoli verso l' interno dell' immenso e ancora quasi sconosciuto paese, la
missione fosse stata costantemente, rifornita di materiali, viveri e
informazioni, nessuno aveva avvisato dell' imminente apertura delle
ostilità il cavalier Sanfilippo e il vice capo missione conte Ascanio
Michele Sforza. Un mistero che forse celava un cinico espediente di "ragion
di Stato": uno specioso pretesto di "casus belli" da sfruttare al momento
opportuno, anche a rischio di "sacrificare" la vita di un gruppetto di
concittadini. Non era la prima volta che Sanfilippo guidava una spedizione
in Libia. C' era già stato l' anno prima. Era stata un' incursione segreta,
voluta e finanziata in gran parte dal Banco di Roma. Ideatore e stratega ne
era stato il direttore della succursale di Tripoli, Enrico Bresciani, più
agente segreto che uomo di banca, con la complicità di qualche capo arabo,
per nascondere ai Turchi i reali scopi: cioè individuare un giacimento di
zolfo di cui allora si favoleggiava. Sanfilippo aveva compiuto una veloce ma
sagace esplorazione e ne aveva ricavato l' impressione che ricerche più
approfondite, avrebbero fatto trovare lo zolfo; ma aveva anche scoperto che
il giacimento non era altro che un laghetto di acque sulfuree, dove gli
arabi si tuffavano per curarsi. Il primo contatto con la Libia aveva
insinuato in Sanfilippo il germe del "mal d' Africa", perciò era stato
prontissimo a dare la sua adesione alla seconda missione. Ancora una volta
con la regia organizzativa e strategica del direttore - agente segreto
Bresciani, la missione era sbarcata a Tripoli ai primi di aprile del 1911.
Stavolta era ufficiale e aspettò per quasi due mesi che le autorità turche
concedessero i permessi di ricerca: limitatissimi. Divieto di scavare più di
venti centimetri (dopo le proteste di Sanfilippo, portati a un metro),
spostamenti a non più di mezza giornata di cammino dal campo base, nessun
rapporto con le popolazioni locali. In più, alla carovana era stata
assegnata una scorta comandata da un ufficiale con un sottufficiale e nove
soldati. L' ufficiale era sospettosissimo: non credeva che raccogliessero
solo pietre e fossili, era convinto che stessero trovando oro e argento.
Sanfilippo protestò, minacciò di rinunciare alla missione se l' ufficiale
non fosse stato rimosso. Ottenne quel che chiedeva ma dovette subire l'
aumento dei soldati di scorta, che diventarono trenta,e rinunciare alla
collaborazione di un influente sceicco. La prima mattina di guerra, la
carovana - settanta uomini, compresi i trenta militari turchi e centocinque
fra cavalli e cammelli - si mise in marcia. La condizione di semilibertà
apparente durò poche ore: l' ufficiale capo scorta diede presto
l'ordine di tornare a Socna. Cominciò la prigionia: tredici mesi durissimi,
con numerosi cambiamenti di prigioni, faticosi trasferimenti di centinaia di
chilometri su e giù, dalla costa all' estrema regione del Fezzan e ritorno.
Cibo di pessima qualità , celle infocate e infestate da parassiti.
Nonostante tutto, Sanfilippo era riuscito a mettere al sicuro le casse con i
materiali e i suoi appunti; salvò anche macchine fotografiche e pellicole,
facendole passare per attrezzature sanitarie. Gli era stato proibito di
prendere appunti ma in miniera aveva imparato a scrivere al buio: ne prese
molti, che poi trascriveva su carta da sigarette, per nasconderli meglio.
Per difendersi dalla rigide temperature notturne, indossava una specie di
poncho - una coperta con un buco al centro - e sotto quel mantello riusciva
a scrivere senza farsi scoprire. Finalmente, gli italiani ottennero lo
status di prigionieri di guerra: non migliorò il rigore della prigionia ma
almeno gli consentì di ricevere, tramite la Croce Rossa tedesca, pacchi di
viveri e indumenti, corrispondenza, notizie sull' andamento della guerra. La
diplomazia italiana, dopo il sospetto silenzio iniziale, aveva lavorato per
ottenere la liberazione: lunghe trattative, tramite l' ambasciata tedesca a
Costantinopoli, complicate dal fatto che la missione era sostanzialmente in
mano agli Arabi, che non volevano lasciarsi sfuggire quegli ostaggi preziosi
e pensavano di ricavarne cospicui vantaggi politici - chiedevano che l'
Italia abbandonasse la Tripolitania - ed economici. Infine, all' alba dell'
11 novembre 1912 i prigionieri furono accompagnati davanti alle trincee
italiane. In Italia, i giornali pubblicarono ampi articoli sull' avvenimento
e Achille Beltrame gli dedicò una delle sue tavole a colori sulla Domenica
del Corriere. Dopo la liberazione, si seppe che il governo turco aveva
pagato agli Arabi 13 mila lire a prigioniero (circa 43760 euro). Tornato
libero, Sanfilippo doveva recuperare tutti gli appunti e i materiali: dopo
la pace, fece la spola fra Roma e Costantinopoli e solo nel luglio del 1913
recuperò quasi tutto ciò che gli serviva per scrivere il resoconto della
missione. Ci lavorò per un anno e nel 1914 presentò al Banco di Roma un
imponente "Rapporto riservato" in cinque volumi, e altrettanti album con più
di seicento fotografie. Era un quadro molto attendibile delle
caratteristiche geologiche, con precisi riferimenti sulla circolazione delle
acque sotterranee, le caratteristiche atmosferiche, le altitudini e perfino
le distanze, spesso misurate «sulla velocità media dei cammelli in
carovana». In trecento sacchetti c' erano i fossili di echinoidi e di
molluschi fossili, importanti per la lo studio dei terreni: molti non erano
mai stati studiati prima. Neanche quella volta, tuttavia, s' era potuto
rilevare con certezza l' esistenza di vasti giacimenti di zolfo. Bisognava
tornarci, ma lo scoppio della guerra bloccò tutto. Sanfilippo ebbe onori e
riconoscimenti dalle comunità scientifiche. Il re lo decorò personalmente
con la croce di Cavaliere dell' Ordine Coloniale della Stella d' Italia: lo
aveva chiamato «ingegnere» e lui, con la sua asciuttezza di carattere, gli
disse che non lo era. Non lo era neppure Marconi, concluse Vittorio
Emanuele. Ignazio Sanfilippo morì a ottantasei anni il 26 marzo del 1943,
Tripoli era stata presa dagli Inglesi due mesi prima. Il suo paese non gli
ha dedicato una strada, il sito web del Comune non cita il suo nome nel
breve elenco dei suoi "figli celebri"; c' è il regista televisivo Michele
Guardì.
MARIO GENCO
Vincenzo Ferrara è nato a Palermo il 3 agosto del 1948.
Ha frequentato il liceo classico Gonzaga (gesuiti) e successivamente l'Università di Palermo, ove si è laureato in Giurisprudenza (1971).
Dopo aver assolto il Servizio militare presso il Tribunale Militare Palermo, ha iniziato il praticantato di notariato e di procuratore legale.
E' stato assunto dalla Comit di Palermo il 3 dicembre del 1973. Dopo gli usuali corsi Comit (estero merci e crediti in particolare), nel 1986 ha frequentato il corso EBIC a Londra, Bruxelles, Vienna, Amsterdam, Francoforte, Parigi e Milano.
Nel 1987 è stato assegnato a BCI of Canada.
Nel 1989 viene trasferito a Londra (responsabile Italian desk) e nel 1991 in Direzione Centrale a Milano (responsabile UAG paesi nord Europa,Spagna, Portogallo, Grecia);
Nel 1996 è nominato Rappresentante ad Amsterdam, ove ha anche ricoperto la carica di Vicepresidente della Camera di Commercio Italiana per l'Olanda e di Vice Chairman della Foreign Banks Association.
Nel 2002 la Rappresentanza di Amsterdam viene chiusa e Vincenzo è trasferito a Milano. Nel 2003 trasferimento a Palermo e infine nel 2004 sceglie l'esodo volontario.
Terza generazione Banca Commerciale Italiana, dopo il prozio ed il padre.
Sposato (moglie britannica) con due figlie.
Attualmente si dedica alla sua campagna di Casteltermini dove produce vino rosso e olio d'oliva.
Piazza Scala - ottobre 2011