In questi ultimi mesi e in particolare nei giorni scorsi si è molto parlato, sui giornali e in televisione, di certe pagelle che vengono assegnate a grandi aziende, enti pubblici, stati sovrani da alcune grandi agenzie internazionali, un po’ come fanno a scuola gli insegnanti nei confronti dei loro studenti, nel corso dell’anno scolastico o in sede di scrutinio finale. Come per i voti scolastici, anche queste pagelle partono dal voto pieno (ai miei tempi era il numero dieci, raramente dispensato) per arrivare, altrettanto raramente, allo zero, con giudizi intermedi, sei per una promozione risicata, cinque o meno per la bocciatura o la ripetizione a ottobre. Ora si chiamano, se non sbaglio, crediti e debiti, prendendo a prestito il linguaggio dell’economia e della finanza.

Si dirà: chi da il diritto a queste organizzazioni di giudicare le società, gli enti pubblici, gli stati, conferendo diplomi e voti che di fatto condizionano la finanza e spesso la vita stessa di queste società, di questi enti? La risposta è semplice: il mercato, e poi gli stessi soggetti che si fanno assegnare  le pagelle, disposti a pagare profumatamente questo servizio. I rating assegnati sono di varia natura, contraddistinti da lettere dell’alfabeto, dalla tripla A (cioè AAA) in giù, dove solo le prime quattro categorie, fino al BBB di Standard & Poor e al Baa di Moody’s, sono consigliate per investimenti prudenziali (Investment Grade), mentre le altre sono ritenute speculative, cioè a rischio più elevato.

Le maggiori società (o agenzie) di rating sono americane (Moodys, Standard and Poor, Fitsch, alle quali sta cercando di aggiungersi l’agenzia cinese Dagong) e si sono affermate in pratica negli ultimi trenta-quarant’anni, rispondendo all’esigenza degli investitori, delle banche, dei grossi fornitori, dei governi, di avere sottomano analisi possibilmente indipendenti dell’andamento e della situazione patrimoniale e finanziaria dei loro debitori e clienti.

Ovviamente, queste agenzie hanno dovuto conquistarsi la fiducia dei mercati, limitando al minimo i loro errori di valutazione che peraltro non sono mancati nella loro storia (vedi Enron, Worldcom, Parmalat e lo stesso stato greco), incidenti di percorso che tuttavia non bastano ad inficiare il prestigio che le agenzie sono riuscite ad accumulare. Gli errori sono possibili, ripeto, come in ogni attività e nella maggioranza dei casi sono dovuti ad azioni fraudolente da parte delle dirigenze degli enti esaminati, come è avvenuto in tutti i casi sopra menzionati. Quando sbagliano, tuttavia, è quasi sempre per essere state larghe di manica e non per eccessiva severità.

Durante la mia vita di lavoro ho avuto modo quasi quotidianamente di utilizzare i rating per giudicare della solvibilità di molte aziende multinazionali. Naturalmente, non era l’unica fonte, l’unico parametro di giudizio, l’unico fattore decisionale, ma il fatto che un organismo specializzato avesse analizzato in dettaglio i conti di quell’ente o di quell’azienda, fornendone commenti e motivazioni, aiutava il nostro lavoro.

Dovevamo tuttavia tenere sempre presente un certo conflitto d’interessi che l’agenzia si portava in corpo: il fatto di essere pagata dalla stessa azienda esaminata, senza parlare degli stati e dei governi, in grado di fare pressioni politiche spesso irresistibili.

Ho anche toccato spesso con mano le modalità con cui queste agenzie lavorano presso le aziende che le hanno ingaggiate, desiderose di ottenere il rating indispensabile per affacciarsi sui mercati e ottenere finanziamenti dagli investitori, molti dei quali (ad esempio i Fondi Pensione, le Compagnie di Assicurazioni, la maggior parte degli enti pubblici, le Fondazioni eccetera) hanno vincoli nei loro Statuti, cioè possono investire solo o in massima parte in titoli dotati di buoni rating.  Arriva in azienda una squadra di analisti, spesso giovani ma esperti del loro lavoro che operano sotto la responsabilità di un dirigente “senior” e chiedono di esaminare in dettaglio i conti, i regolamenti interni, valutano le attività una per una, interpellano clienti e fornitori, interrogano i dirigenti ai vari livelli, il collegio dei sindaci, gli auditor, e se ne vanno dopo giorni o settimane senza proferir parola. La pagella, una volta pronta per la pubblicazione, viene discussa con il Management ai più alti livelli e può essere rifiutata dall’azienda o ente committente, ma in tal caso addio mercati.  

Per i motivi suesposti il nostro Paese non può permettersi di ignorare i segnali negativi provenienti da S&P e da Moodys, le cui pagelle determinano anche l’entità dei tassi d’interesse che i mercati pretendono per investire nei nostri titoli, i quali già ora sono costretti a pagare uno spread (margine) che proprio nel momento in cui scrivo ha superato di botto i due punti percentuali (208 punti base***) sopra ai rendimenti dei titoli decennali tedeschi. Sono soldi che dobbiamo sottrarre ai bisogni quotidiani della nostra società, i disoccupati, le pensioni, la sanità, le infrastrutture. Il fenomeno deriva appunto dai rating più bassi assegnati al nostro paese a causa dell’elevatissimo debito pubblico, della difficoltà e scarsa propensione a ridurlo, e della stagnazione della nostra economia.

 

Giacomo Morandi

 

*** attualmente lo spread è salito oltre i 300 basis points

 

                                  

                                                                                                     

 

 

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