L e m a g i e d e l l ’ o r c o
Si era ai
primi di dicembre, s’approssimava
Sant’Ambrogio, e fuori erano solo
caligine e brume del nord. Nuvole
compatte che non promettevano niente di
buono, appena intraviste dallo squarcio
del finestrone che affacciava su un
cortile interno. Ero da poco arrivato
nella metropoli operosa e stavo già
maturando un fastidioso sentimento in
sottofondo: era proprio questa Milano,
altro che Amalfi, e mi sarebbe toccato,
chissà per quanto ancora, di abbronzarmi
soltanto al sole artificiale del neon.
Mentre
aspettavo di sottopormi alle prove di
dattilo, provai a rifugiarmi nei
sentimenti positivi: sono su una barca,
respiro il profumo del legno, pesco a
traina mollemente rilassato e c’è una
bella guagliona in bikini sul cuscino di
prua. Ma il vocione roco del Galimba*)
mi riportò bruscamente alla realtà, in
quella immensa camerata. Bisognava
ammettere che l’unica cosa in legno che
si trovava nei paraggi erano le
scrivanie di noce scuro, e non sapevano
di mare.
Dal centro di un tavolo il tiranno fece
ribaltare, con una magia da
prestigiatore, una specie di basculla
dalla quale si materializzò per incanto
una mostruosa Olivetti. Inquietante
sentirsi dire, dopo appena qualche
giorno di lavoro, fammi vedere quello
che sai fare.
Percossi i tasti con frenesia, per
dimostrare che ero almeno veloce. Ma
sbagliai troppo spesso: ognuna di quelle
ics, di quelle stridenti ribattiture, mi
sembrò una sommessa ribellione, un
intervallo di luce di quella parte di me
che inseguiva la tentennante traccia del
sogno.
Mi insultò subito, il Galimba, per
quelle cromatiche invenzioni. Una
lettera contabile non è un cruciverba,
mi disse. E poi, a muso duro: non ti
pagheranno per fare solo finta di
martellare sulla tastiera. Eccolo,
pensai, se adesso dovesse darmi pure del
"brutt terun", corrugherò le
sopracciglia in un tale moto di
disgusto, da scuoterlo fin nelle
recondite, ingorde profondità.
Sorprendentemente, girò invece i tacchi:
la sua asciutta lezione per quella
mattinata era bastata. Nonostante mi
sentissi ancora addosso il suo sguardo
asimmetrico, la verità era che non mi
filava nemmeno di striscio. Addirittura
più mortificante: ero probabilmente per
lui un caso di ordinaria
amministrazione.
Mi misi allora a testa bassa sulla
Olivetti, le guance rosse, mandando
mentalmente un accidenti al capo ad ogni
foglietto compilato. Come per miracolo,
la vaschetta delle lettere in uscita si
riempì; mi sentivo però frantumato,
senza spessore alcuno. Con passo
incerto, mi diressi alla sua postazione
per consegnare i moduli: nel valutare il
compitino, assunse le fattezze di un
monarca.
Dopo una sbirciata obliqua, disse
abbassando la voce: dai che va bene, la
dattilografia non è il tuo forte, sei
comunque un bravo fioeu.
Fa minga il Vincenzo come ti chiami e
potrai migliorare, concluse l’orco con
quei denti neri che prendevano
inaspettata vita dall'azzurro fumo della
sigaretta.
Prima o poi, sarai anche tu dei nostri e
non andrai più via (chi volta el cü a
Milan, volta el cü al pan).
Un sintetico epitaffio, un’altra magia.
Guarda te, conosceva persino il mio nome
e, per ore, aveva fatto finta di niente.
Mi sentii appena euforico, come dopo
aver superato un esame all’Università.
Era ormai stabilito: da quella volta,
appartenevo finalmente alla medesima
famiglia del Galimba.
Vincenzino Barone
*)
Gli amici milanesi meno giovani non
possono certo aver dimenticato che le
prove di dattilografia e sulla divisumma,
alla fine degli anni sessanta, erano tra
le più temute per i neo-assunti, tenuto
conto anche di una certa ruvidezza
dell’esaminatore Giuseppe Galimberti,
peraltro ottimo nostro Funzionario.
Attorno alla metà degli anni settanta il
Galimba, com’era scherzosamente
chiamato, andò in pensione, credo col
grado di Procuratore.
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