Pubblicato il 24 settembre 2010 su "Libertà" di Piacenza

 

 

Abbiamo tutti assistito, in questi giorni, alla cruenta battaglia svoltasi al vertice della più grande banca italiana in campo internazionale, l’Unicredit Banca, risoltasi in modo poco comprensibile per il grande pubblico dei risparmiatori e dei milioni di clienti dell’istituto, presente con decine di migliaia di filiali in mezza Europa e in tutte le principali piazze finanziarie del mondo.

Si tratta di un gruppo bancario costruito in poco più di un decennio dalla confluenza di alcune fra le principali banche italiane a diffusione nazionale, come il vecchio Credito Italiano e Capitalia (a sua volta sorta da varie acquisizioni del Banco di Roma, il Banco di Sicilia, la Cassa di Risparmio di Roma eccetera), di numerose banche locali e di banche estere fra le quali un’importante banca tedesca.

La costruzione di questo colosso del credito, uno dei primi in Europa, è sicuramente da attribuire alla tenacia ed alle capacità manageriali di un uomo, Alessandro Profumo, e della squadra di persone di cui ha saputo circondarsi. Ciò è riconosciuto da tutti, anche dai nemici che gradualmente ha allevato nel suo seno e fuori, un po’ a causa del suo autoritarismo, un po’ perché ha sempre disdegnato l’abbraccio di certi ambienti della politica e dei poteri finanziari e industriali locali dominanti non solo nell’Italia del Nord.

L’affare dell’azionariato libico, da lui gestito in prima persona, che in fin dei conti non ha modificato affatto  l’assetto di controllo del gruppo, è stato chiaramente un pretesto per un’azione di potere che covava da tempo e che nasconde (poi nemmeno tanto) la volontà di ricondurre il gruppo stesso sotto l’ala pesante di forze in parte politiche e in parte finanziarie (la Lega da una parte attraverso le Fondazioni ex bancarie piemontesi e venete e i poteri forti espressi da Mediobanca e dalle Generali, di cui si progetta una prossima fusione, impersonate dal risorto Cesare Geronzi).

Profumo se ne va a casa (ma credo per poco, data l’appetibilità del suo nome) con una liquidazione di decine di milioni maturata in soli quindici anni di anzianità e non è scandaloso, perché questo è l’andazzo in tutto il mondo occidentale, anche in Italia, dove si sono viste liquidazioni milionarie per top manager le cui aziende erano in forte difficoltà. E’ il mercato, si afferma, ma a mio parere è un mercato ristretto creato dagli stessi interessati. E’ un mercato corporativo dove non c’è concorrenza o, quando c’è,è autoregolamentata. 

L’affare Profumo mi porta a riflettere su qualcosa di simile avvenuto negli anni ’90 alla Banca Commerciale Italiana, poco dopo il mio pensionamento. Allora, dopo la privatizzazione e la costruzione di un nocciolo duro di nuovi azionisti legati a determinati settori della finanza e dell’industria vi fu un attacco al management che si era battuto per una soluzione tipo “public company” con azionariato diffuso e i vertici della banca furono fatti fuori dalla sera alla mattina, a partire dallo stimatissimo Sergio Siglienti. La Comit era una banca tradizionalmente laica, distante dai partiti e dalla politica, gelosa perfino nel ventennio fascista della sua indipendenza, grazie a banchieri della stoffa di Mattioli, Cingano, Monti, Beneduce.

Alla testa di Unicredito verrà messo qualcuno che, pur capace, dovrà fare i conti con i poteri vincenti, finanziari e politici. Nell’Italia degli affari poco puliti e della politica arraffona non c’è posto per i Profumo e per i Siglienti.

 

Giacomo Morandi - settembre 2010


 

 

 

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27 settembre 2010 - Caro Giacomo, innanzitutto complimenti per la competenza e l'equilibrio del tuo articolo. Tuttavia non posso fare a meno di dissentire almeno in parte e di osservare che Profumo ha avuto un'unica grande intuizione (subito dopo ripresa dai nostri Aldo Civaschi e Luigi Crippa): l'importanza dei ricavi da risparmio gestito in presenza dell'affievolimento dello scarto tassi quale fonte di reddito. Per il resto ha dovuto registrare parecchie sconfitte:

- la mancata acquisizione della Comit, passata a Intesa;

- il continuo (e dispendioso) rimescolamento di carte nella struttura del gruppo;

- un'infelice affermazione di piena autonomia finanziaria di Unicredit, seguita alcuni giorni dopo, dalla
  richiesta agli azionisti di 6/mld di Euro (con il rifiuto della Fondazione Cariverona);

- l'acquisizione di HVB (e B. Austria) che non si sono rivelate grandi affari;
- l'acquisizione di Capitalia e di un'altra company di cui ora mi sfugge il nome (idem come sopra);

- l'appoggio eccessivo ai soci arabi, fino a farli diventare azionisti di riferimenti;

- i deludenti risultati economici.
Viene da pensare che se un suo responsabile di filiale o di area avesse accumulato tanti errori sarebbe stato rimosso e sostituito. Vorrei anche far presente che un CEO del suo calibro non si è presentato in Consiglio per battersi, ma ha preferito attendere la (lauta: 38/mln. di Euro) sfiducia asserragliato in uno studio legale (ma di che aveva paura?).
Quindi il fatto di aver trasformato Unicredit in una delle più importanti (come dimensioni) banche europee non è bastato in quanto il titolo ha perso valore e gli utili non sono mai stati pari alle aspettative: non mi si parli della crisi mondiale in quanto un CEO che si rispetti deve affrontarla e non subirla, pronto a dimettersi se ciò non avviene (è proprio vero che "il potere logora chi non l'ha"). Secondo me questi sono i veri motivi che hanno portato alla sua sfiducia da parte del board.

Alfredo Izeta

27 settembre 2010 - Posso condividere in buona parte l'elenco di errori da parte dell'amico Alfredo (non quello della mancata acquisizione della Comit e il rimescolamento di carte avvenuto in maggior misura da altri, anche da Intesa). Non sono stati questi, peraltro, i motivi della cacciata improvvisa. Non lo dico solo io.
Giacomo Morandi

27 settembre 2010 - Condivido in toto. Non so quali potranno essere i risvolti dell'operazione, ma mi par di poter dire da persona non certamente alla tua altezza,che il nuovo assetto di Unioncredit presenta delle sfaccettature di natura imponderabile, specie in funzione della politica di adesso.
Arnaldo De Porti