Genova Nervi - passeggiata  
 

Va', mia canzone, ad Arezzo, in Toscana
a lei ch'aucide e sana
lo meo core sovente
(Guittone d'Arezzo)

 

Quando iniziai a lavorare per la Banca Commerciale Italiana fui assunto dalla filiale di Genova, dove frequentai il corso per neoassunti. Assieme ad altri due neo-colleghi e compagni di corso si condivideva allora un appartamento a Nervi, alla fine di corso Europa, con vista (e udito, soprattutto notturno) sulla trafficata linea ferroviaria, dove dopo il tramonto transitavano rumorosi treni merci. Ogni mattina, per recarci in piazza Banchi, sede del corso, impiegavamo all'incirca tre quarti d'ora buoni di autobus (il 15). Praticamente da un capolinea all'altro. Si faceva colazione con focaccia alle cipolle e cappuccino, mentre alla sera, al rientro dal lavoro, ci attendeva la bottiglia del Martini bianco, che il nostro temporaneo coinquilino trevigiano, gaudente viveur, conservava in frigorifero. Durante le pause caffè mattutine curiosavo fra le bancarelle di varia mercanzia che affollavano la zona, finendo inevitabilmente attratto da quelle che esponevano dei libri a poco prezzo. Remainders, diremmo oggi. Un giorno iniziai a sfogliare due piccoli tomi dalla copertina color mattone, istigato dal titolo: “Poeti del Duecento – Poesia cortese toscana e settentrionale”, Einaudi Editore. Ancora oggi, i più superficiali fra i colleghi di lavoro che di volta in volta mi toccano in sorte, non perdono occasione per canzonare amabilmente le mie preferenze letterarie e stigmatizzare il modo in cui trascorro le mie serate e il tempo libero, ai loro occhi incomprensibile. Li perdono, perché non si rendono conto di quel che si perdono. Ma dicevo di quei due volumetti che acquistai, spinto, oltre che dall'argomento e dall'editore (i più maligni sostengono soprattutto dal prezzo), dal titolo della collana: Classici Ricciardi. Conoscevo vagamente la raffinatezza erudita di quella casa editrice, ma non riuscivo a capire cosa c'entrasse l'editore torinese. Scoprii poi che Einaudi aveva rilevato il loro catalogo. Quel che non sapevo, e che appresi soltanto diversi anni più tardi, è che la proprietà di quello storico marchio passò nel 1938 a Raffaele Mattioli, deus ex machina della COMIT, banchiere umanista, illuminata figura di mecenate, antifascista laico e sagace visionario, a cui la banca in cui mi sono formato professionalmente e dove sono umanamente cresciuto deve la propria grandezza. Mattioli rese la Ricciardi parte integrante della crescita culturale del nostro Paese, dando vita nel 1950 a una collana che ha dato prestigio e immortalità ai testi più importanti della nostra cultura: “La letteratura italiana. Storia e testi”. Nel gesto inconsapevole di un giovane curioso, già fiero del proprio nuovo lavoro, di cui appena intuiva un prestigio che il corso degli eventi e l'evoluzione dei tempi disperderà, la fondamentale funzione sociale di cui oggi rimane soltanto il ricordo, in quel gesto, dicevo, dovuto a pura coincidenza (o sarà forse destino?), quanta ricchezza di significati! Quante suggestioni, quanta premonizione! Da quel tempo non sono più tornato a Genova, cui mi legano cari ricordi e profonde amicizie, l'amore per la lingua di Gilberto Govi, le cui sagaci battute hanno accompagnato la mia adolescenza, l'inizio di un'avventura professionale privilegiata. Dove il privilegio, mi pare opportuno precisare, non è costituito dal “posto in banca”, ma dalla Banca in cui sono cresciuto.

 

Aurelio Barzan (Cordenons)

 

 

 

 

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Piazza Scala - novembre 2014