VIRUS
prima parte
Da LABIRINTI di
Fortuna Della Porta
Intorno alle
sette era calato il buio e il vento infuriava intorno al
giubbotto e ai pantaloni. Entrava dalle maniche,
risaliva fino alla
coscia. Un berretto a costine di lana bordeaux gli
preservava la testa e la fronte. Sotto la tramontana, il
Tevere si era risollevato dalla cappa di fumo che lo
aveva ingoiato da alcuni giorni e brillava di luce
impropria. Da quasi una settimana affondato sotto un
panno sudicio, si offriva adesso alla luna. Sembrava
farlo con orgoglio.
Passando accanto a ponte Milvio, i tanti semafori a
dondolare sulle strade e sulle numerose intersezioni non
avevano da disciplinare neanche una macchina, come in
quelle brevissime ore di tregua notturna che s'insinuano
tra il rientro a casa dei ritardatari e l'uscita dei più
mattinieri. Né gente né auto, ovunque si girasse.
La congestione era però nei pensieri di Fabio, roteava
tra i neuroni procurandogli il medesimo stato d'ansia di
quando guidava in quel punto esatto dietro una colonna
di altre macchine che non si spostavano di un palmo. In
quelle circostanza gli batteva il cuore e trasaliva di
tanto in tanto se un clacson lo prendeva a tradimento
alla propria irritazione.
-Sto bene, disse ad alta voce.
Guardò l'orologio. Segnava qualche minuto dopo le sette
e sua moglie lo stava aspettando da un po'.
Era in piedi da quindici ore e aveva lavorato sodo: un
sacco, un altro sacco, l'acqua, il sale, l'impastatrice,
alla fine il forno, senza i lavoranti, da solo ad
affrontare la fatica. Si sforzava di non pensare.
In un mese la panetteria, con l'assembramento di pani
dai cereali più vari, panciuti o piatti, dorati o
marrone, non era più la stessa, mancando il contatto
fisico nell'accavallarsi delle mansioni coi suoi cinque
dipendenti negli spazi contenuti e soprattutto la folla
dei clienti che si stipava ovunque e talvolta si
ribellava all'attesa o a qualche furbo che scalava a
tradimento la coda nonostante il numeretto per
disciplinarla. Ma il suo pane meritava il sacrificio.
Nella vetrina adiacente alla strada erano tuttora in
bella mostra i pani a forma di spiga, a ciambellone, a
fogge fantasiose, ormai disidratate: un cesto, una
cornucopia, la testa di un cane, accanto a mazzetti di
spighe vere e girasoli di plastica. In un auspicio di
normalità, ogni sera accendeva l'insegna sulla
congiunzione delle due strade: Granfornaio, pane di
farina e cereali maltati. Ancora un rigo più giù: pane
speciale.
Niente telefono.
I telefoni si erano zittiti la settimana passata. Quel
giorno, prima di togliersi il grembiule, come sempre
Fabio aveva provato a telefonare a Clara per annunciarle
il rientro imminente, ma la cornetta era muta.
Nessun segno di occupato o sfrigolii vari, sembrava una
linea tagliata.
Anche il telefonino tacque.
-Adesso è troppo. Come si fa?
Nel rincasare, quella notte trovò Clara, accovacciata
dietro la porta. Aveva pianto tutto il tempo. Le
palpebre erano lucide e spesse, gli occhi infiammati.
Era scalza e scarmigliata. Anche lei aveva provato a
telefonare e non aveva trovato nessuno dall'altra parte.
Si era spaventata e tremava.
Aveva fatto un discorso pacato a Clara, quasi fosse
tranquillo ma era a sua volta turbato:
-Stattene in casa, Clara. Mettiti in una stanza e non
aprire a nessuno.
La casa è sicura.
Le toccava nel frattempo con la falange dell'indice
sullo zigomo.
Quando la vide più calma le fece notare la porta
blindata larga quasi 20 centimetri, lo spessore spezzato
da tre cilindri pronti a entrare nel battente,
l'intelaiatura di ferro. La passava da una mano
all'altra senza che i cardini cigolassero. Una fortezza,
disse. A prova di irruzioni e poi aggiunse sperando che
ridesse: -Collaudata per trombe d'aria e terremoti.
Immaginava che sua moglie temesse innanzi tutto
l'intrusione dei tanti malintenzionati che scorazzavano
in città e che entravano, scardinando le serrature,
negli appartamenti. Se per disavventura ci trovavano i
proprietari, li sottoponevano a sevizie brutali, per
puro divertimento.
Aveva letto su uno degli ultimi numeri di metro di uno
stupro persino su una bimba di sette anni.
Con le braccia abbandonate e tirando su col naso per
impedire alle
lacrime di tagliarle la voce, Clara alzandosi con uno
scatto aveva
urlato che invece desiderava scappare dall'inferno come
erano scappati tutti.
-Me ne vado. Fa come vuoi.
Dopo un istante aveva ripreso:
-Ho paura. Lo capisci che ho paura?
Non si era più mossa.
Per non interromperla e permetterle di far decantare la
collera e l'inquietudine, Fabio si era concentrato sul
giorno dell'esodo. Erano già trascorse due settimane.
Uscendo dal laboratorio e svoltando poco dopo, aveva
notato in alto la sopraelevata di corso Francia
bloccata, probabilmente in entrambi i sensi di marcia,
le due strade alla sua destra intasate e all'altezza
dell'immissione, in un groviglio concentrico, una sorta
di rosa millepetali di lamiera.
Fortuna Della Porta
Continua
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