Piazza Scala News - Pasqua 2012

 

 

  un breve racconto autobiografico di Lorenzo Milanesi 

 

 

PASQUETTA  1930 (‘u pascuni)

 

 

L’eccitazione precedeva di molti giorni l’arrivo della Pasqua. Aspettavamo la pasquetta non tanto per la festa in sé, quanto per il giorno successivo (dalle nostre parti – nei primi contrafforti dell’Aspromonte che guardano verso il tirreno – si chiama ‘u pascuni). Parlo, forse s’è capito, di un’ottantina di anni fa. Doveva trascorrere, prima, il triste periodo che vedeva per le strade del mio piccolo paese la celebrazione della ‘Passione’ di Cristo del venerdì santo, con la rappresentazione dei vari episodi (“Stazioni”) del martirio, l’incontro con la Madre (‘a ffruntata) trafitta nel cuore da uno stiletto. Poi il successivo ‘fermo’ delle campane per il lutto conseguente alla morte in croce. Uno spettacolo coinvolgente e partecipato nei suoi momenti più significativi da tutti i paesani. Al mattino della domenica però l’atmosfera, da cupa che era, si trasformava completamente in un frastuono generale, avviato dallo stormire a festa delle campane – ora sciolte - che annunciava la Resurrezione. Tutti erano allegri e manifestavano questo nuovo stato d’animo  con ogni forma di rumore che, per la felicità, sembrava irrefrenabile. Le chiese esponevano le statue, usate per i riti delle rappresentazioni, che ora si offrivano alla preghiera dei fedeli addobbate di nastri e palme residue della domenica precedente. Poi veniva il pranzo, per il quale si sacrificavano dozzine e dozzine di capretti e agnellini e si consumavano i dolci tradizionali della ricorrenza. Ah, che delizie!. Ma tutto veniva fruito da noi piccoli con la massima celerità perché proiettati mentalmente al giorno dopo, alla pasquetta. Il lunedì era un giorno del tutto particolare. La notte precedente s’era dormito poco per l’ansia del domani. Al mattino eravamo alzati dal letto molto presto. La mamma, preveggente come tutte le mamme, aveva preparato la colazione tradizionale da portar via. Consisteva di pagnotte a corolla, nelle quali, prima d’essere infornate, era stato inserito un certo numero di uova (quattro o cinque ciascuna). A questa tipica pagnotta venivano aggiunte poi le prelibate salsicce che aveva ottenuto, con le sue mani sapienti, mio padre dal maiale di nostra proprietà, macellato nell’imminenza del Natale precedente (le faceva maturare penzoloni dal soffitto, in ambiente ventilato, insieme ai capicollo e alle soppressate). Quanto alle bevande, si prendevano in loco perché dove andavamo c’era la sorgente naturale dell’acqua e questa bastava. Il ritrovo per la partenza era davanti a casa mia dove convergevano i cugini e gli amici, tutti della medesima età o pressappoco. Eravamo una decina, ognuno col proprio sacchetto di provviste. La consegna da parte dei genitori era univoca: come luogo erano suggeriti i Piani della corona, nessuno doveva separarsi dal gruppo, il rientro a casa doveva avvenire col chiaro, prima del tramonto. Dopo i saluti e le raccomandazioni aggiuntive, partivamo a piedi, felici come non mai, su per la collina che mena ai Piani. La raggiungevamo, passando però da una masseria a comprare, per pochi centesimi, qualche ricottina calda di fascella, dopo circa mezz’ora abbondante di strada, percorsa canticchiando. Qui sceglievamo il posto più comodo, naturalmente nelle vicinanze della sorgente e depositavamo i bagagli. Davanti, un largo spiazzo erboso ci avrebbe consentito di giocare a lungo.

Poco più in là potevamo godere della vista in lontananza dell’imboccatura nord dello Stretto di Messina e, se si fosse alzato un po’ di vento, delle isole Eolie, almeno delle prime. Insomma, un posto per noi incantevole. In genere, la prima cosa che correvamo a fare era di abbeverarci alla sorgente che ci portava l’acqua limpida dell’Aspromonte. Poi, ficcati quattro paletti nel terreno che somigliassero alle due ‘porte’ dei campi di calcio, cominciavamo, felici oltre ogni dire, a giocare dividendoci in due squadre. La palla, l’unica che circolasse fra tutti noi, era di un ragazzo ‘benestante’ che avevamo aggregato proprio allo scopo. La partita non aveva un termine preciso se non quello dettato dall’appetito o dalla stanchezza. Di tanto in tanto qualche contadino che passava nelle vicinanze a cavalcioni dell’asinello ci salutava con la mano e poi, accostatele entrambe davanti alla bocca a mo’ di imbuto, ci gridava di non fare danni alle colture dei vicini e di rientrare col chiaro “..così” aggiungeva “mi hanno incaricato di dirvi i vostri genitori” e spariva fra i cespugli. Quando l’appetito prendeva il sopravvento, cessavamo di giocare, stendevamo i tovaglioli sull’erba (gli stessi che contenevano la colazione) vicino alla sorgente e dividevamo con gli altri tutto ciò che ognuno aveva portato con sé. Era il momento delle uova infornate, che staccavamo dalle pagnotte, delle salcicce e soppressate e delle ricotte comprate nella masseria. Non era un mangiare normale, ma un divorare, fino a quando non avessimo consumato l’intera provvista. Poi, sazi e rinfrancati, riprendevamo i giochi, che ora alternavamo anche con i nascondigli o con la lippa, Ma si capiva che ormai la spinta si andava esaurendo, sicchè bastava che vedessimo rientrare i primi contadini verso il paese, perché qualcuno di noi (in genere i più piccoli) proponesse di tornare a casa. Il viaggio di rientro era tutto in discesa e dunque molto meno faticoso del mattino. Ma la stanchezza era egualmente enorme. Ci accoglievano a casa i nostri genitori con sguardi e sorrisi che liberavano forse l’apprensione per la lunga assenza e la mancanza di notizie per l’intero arco della giornata. Noi però eravamo sfiniti e, seppure contentissimi della bellissima giornata trascorsa in piena libertà, non avevamo che il desiderio di buttarci sul letto dove – appunto – ci rifugiavamo stremati.

                                                                                                                                  Lorenzo Milanesi - Pasqua 2012

 

 

 

 

 

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