da DUEMILA E PIU'del
marzo 2012, notiziario a cura del collega Carmelo Profeta
Dopo
alcuni mesi di pausa, MARGHERITA DI MATTIA SANTOCONO
riprende i suoi interventi su DUEMILA E PIU’. In
questo saggio l’Autrice, con una prosa soffusa di
lirismo, trae spunto dalla mitologia e trasporta il
protagonista ENEA ai tempi di oggi per fargli
esprimere le sue considerazioni - negative - su
quanto è adesso costretto a vedere nel mondo che lo
circonda. Il termine greco usato per il sottotitolo,
Nékuia, letteralmente vuol dire Viaggio al termine
della notte, e si trova nell’Odissea (X e XI libro)
per indicare la discesa agli Inferi di Ulisse. In
seguito esso è adoperato genericamente per indicare
tali discese (inclusa quella di Enea), altrimenti
chiamate Catàbasi (kata=giù e banein = andare).
Carmelo Profeta
ENEA AGLI INFERI
Nékuia
Enea avanza tra le vuote dimore di Dite, nel
regno del silenzio delle tenebre. Ancora una volta nel
vestibolo dell'Orco gli si parano dinanzi tutti i terribili
mali che affliggono l'umanità; c'è qualche cambiamento, gli
sembra di scorgere, rispetto allo stesso spettacolo di
duemila anni fa. Allora lo avevano atterrito i Pianti, i
Rimorsi, le Malattie, la triste Vecchiaia, la Fame cattiva
consigliera, la Morte, la Miseria, la Fatica e la Guerra
sterminatrice, la folle Discordia con la chioma di serpi
aggrovigliate. Ora sono scomparsi i Rimorsi, la Fame è solo
nel Terzo Mondo e non può trovarsi quindi agli Inferi; la
Miseria ha una sorella più laida, la Miseria morale, la
fatica è tutt’uno con il Lavoro, considerato il nemico più
terribile dell’uomo. La Guerra ha partorito Guerriglie,
Scioperi selvaggi e Missili atomici; e infine, più orrida a
vedersi della Discordia, la Droga giganteggia tra la folla
di Incubi e Deliri. L’albero che cresce in mezzo al
vestibolo regge a fatica, sui suoi rami spogli, i vani Sogni
degli uomini, cresciuti di numero a dismisura in duemila
anni. La mano di Enea si porta all’elsa, istintivamente, ma
non estrae il ferro poiché sa bene che non può colpire ombre
vane. Egli si avvicina al fiume Acheronte e già intravede
l’accorrere confuso delle anime dei morti verso la nera
barca di Caronte. Ma come è aumentato il numero di quelle
che, mai avendo sepoltura, sono costrette a vagare per cento
anni al di qua del fiume infernale: sono vittime
dell’atomica, di tutti i disastri aerei, delle navicelle
spaziali perse nello spazio, i Kamikaze di Komeini e tante,
tante altre ancora.
Non pregano più Caronte di avere pietà di loro, non sperano
più in nessuna pietà né divina né umana. Enea è riconosciuto
e può traghettare sull’altra sponda: cerca la via già
percorsa
ansiosamente e si dirige verso i campi Elisi.
Lo spinge solo un desiderio: rivedere suo padre Anchise. A
poco a poco l’oscurità si dirada e una luce dolcissima
avvolge le plaghe fiorite di asfodeli. Il Lete scorre
silenzioso verso chissà quali spiagge, e lungo il suo corso
volteggiano leggere le anime di coloro che si preparano a
reincarnarsi bevendo l’oblio con le acque del fiume sacro.
Poco distante dal fiume, Enea scorge il padre e il cuore
sembra fermarglisi nel petto: Anchise lo riconoscerà o ha
bevuto anche lui le acque del Lete, come lui stesso già una
volta?
Lo osserva con amore, non visto, e lo vede muoversi agile,
sicuro; è più giovane o è lui Enea, molto più vecchio e
stanco dopo tanto tempo?
Gli va incontro trepidante, Anchise si volta e lo scorge: lo
riconosce, il volto gli si illumina di gioia e apre le
braccia per abbracciarlo.
“Finalmente figlio, finalmente: sapevo, sì, sapevo che gli
dei commossi dal tuo amore filiale ti avrebbero permesso di
ridiscendere nel mondo senza luce per rivedermi! Ti ho tanto
atteso figlio… tu non tenti di stringermi al cuore, ricordi
bene che qui siamo tutte ombre vane… ma dimmi di te,
parlami”.
La commozione dell’anziano padre è così grande che non
riesce a parlare: lagrime di tenerezza gli rigano le guance
“Padre mio, siamo di nuovo insieme, dopo tanto tempo e la
mia gioia è tale che non trovo parole atte a descriverla. Ho
desiderato tanto rivederti: mi sembrava d’aver dimenticato
il tuo volto e mi sentivo perduto senza di te”. “Dimmi,
figlio, cosa vieni a chiedermi, questa volta.
Di quali nipoti vuoi che ti parli?” “No, padre, i tempi si
sono compiuti; le tue parole profetiche hanno in parte
trovato conferma nel corso della storia. Troia è realmente
risorta a nuova vita, più bella e più potente che mai; Roma
si chiama, ed è stata signora delle genti per lunghi secoli.
I nostri nipoti sono stati illustri e ancora a scuola si
studiano le loro gesta. Ci sono stati, è vero, tanti
cambiamenti, la monarchia e la repubblica, i consoli e gli
imperatori. Le strade consolari e le mura papaline: secoli
di gloria e di splendori si sono alternati a secoli bui, ai
Fasti dei Pontefici si sono sostituiti i Fasti di Via
Veneto, alle glorie guerriere le glorie di Cinecittà. Roma,
però, è sempre la luce dei popoli. Ma vedi, io non mi
riconosco più nei miei nipoti. Sono strani, incomprensibili,
non capisco ancora se sono orgogliosi di me o se ne
vergognino. Si accaniscono a discutere se io sono pio o
crudele e guerrafondaio; cominciano a chiedersi se non sia
opportuno
intentarmi un processo per aver sconvolto, con la mia venuta
nel Lazio, l’equilibrio della penisola italica. E
addirittura m’incolpano di gravi danni ecologici, per tutte
le foreste abbattute per erigere roghi e pire, per l’ecatombi
di animali offerti al sacrificio agli dei. Veramente, padre,
non mi riconosco per niente in alcuno di loro.
Non amano i loro vecchi, dicono che al mio posto, invece di
portarti sulle spalle attraverso Troia in fiamme, ti
avrebbero comodamente sistemato in una casa di riposo, con
grande vantaggio per tutti. Nessuno chiede i miei consigli,
nessuno si preoccupa della mia solitudine. Ed io ho
nostalgia di te, che consideravo mio capo e mia guida fino
all’ultimo; tutta la famiglia ti onorava, padre,
ricordi? Ti ho tanto amato fin da bambino, ti ammiravo e mi
ripromettevo sempre di imitarti; tu eri per me maestro di
vita, baluardo contro le avversità. Tra le tante
vicissitudini della mia esistenza che cosa meravigliosa è
stata avere te alle mie spalle. Forse tu non ti sei reso
conto appieno di quanto mi fosse dolce prendermi cura di te:
fare le stesse cose, godere e soffrire insieme, camminare
nel sole con il tuo braccio appoggiato al mio, che si faceva
ahimè, sempre più pesante
adattando il mio passo al tuo sempre più lento. Ma mentre
perdevi a poco a poco le forze, il tuo aspetto ne guadagnava
in serenità e saggezza, splendeva nel tuo volto la coscienza
di una vita vissuta nel rispetto degli dei e della patria e
cercavi di infondermi fino all’ultimo la fiducia nei miei
destini.
Ecco, padre, il motivo della mia venuta agli Inferi in cerca
di te: vorrei riportarti con me alla luce, perché tu forse
potresti insegnare alle nuove generazioni il valore delle
virtù dei padri e la fede negli dei che essi hanno perduta”.
Anchise guarda il figlio sorridendo: “La mia vita si è
compiuta. Non si torna indietro, lo sai…”. Enea tende la
mano per afferrare quella del padre, ma egli si allontana e
scuote la testa e sorride. “La mano, tendimi la mano,
padre…” Anchise è già un’immagine sfocata che svanisce tra
gli asfodeli, al di là del sacro Lete.