Un prete giovane

 

   Un racconto di Giacomo Morandi   
 

 

Aveva compiuto da poco i tredici anni quando entrò nel Seminario Vescovile della città nella cui provincia era nato e cresciuto. La madre lo aveva da tempo preparato a quel passo, aiutata in modo non del tutto convinto dal parroco del paese, un anziano prete tradizionalista ma non privo di buon senso ed intelligenza. Certo, con la scarsità di vocazioni, un ragazzino che potesse essere indirizzato al sacerdozio era ormai una rarità e meritava di essere coltivato.

La madre aveva sempre sognato di avere un prete in famiglia. Loro erano contadini che coltivavano con fatica un piccolo pezzo di terra di loro proprietà, in Val Tidone, e gli altri figli se n’erano andati a lavorare in città, chi faceva il muratore o l’apprendista, chi imparava il mestiere da operaio. Una figlia stava studiando da ragioniera.

Il ragazzino si chiamava Evaristo ed aveva sin dalle elementari dimostrato molta voglia di studiare. Faceva volentieri il chierichetto e si prestava ai piccoli lavori e alle commissioni della parrocchia, che frequentava assiduamente.

A tredici anni compiuti non guardava le ragazzine, alcune delle quali gli facevano gli occhi dolci perché era un bel ragazzo, più alto dei suoi coetanei, e lui faceva lo scontroso e non si fermava mai a parlare con loro. A mala pena rispondeva al saluto. E pensare che aveva un carattere molto aperto, gioviale, ma con le ragazze si bloccava.

Quando la mamma lo vide per la prima volta vestito da pretino dopo l’ingresso in seminario si commosse fino alle lacrime. Era un sogno che si avverava.

Gli anni passarono in fretta. Il seminarista era disciplinato, devoto, bravo negli studi e non ascoltava alcuni colleghi che gli parlavano del mondo, dei soldi, delle ragazze. Lui pensava a quella che gli veniva ogni giorno descritta come la sua missione nella vita, una missione spirituale alla quale era stato chiamato ed alla quale non poteva sottrarsi, anche se lo avesse voluto. Ma non lo voleva.

Era anche felice per sua madre, che era orgogliosa del suo pretino, era contento del prestigio che aveva in paese, degli studi che gli erano offerti, del fatto di esser parte di un’élite sempre più ristretta.

Arrivò il giorno dell’ordinazione sacerdotale. Alla cerimonia c’era mezzo paese. La mamma scoppiava di felicità. Tutti si congratulavano con lei e le altre donne del paese la guardavano con invidia. S’era messo il tailleur nero che aveva per l’occasione comprato a Piacenza. Era il suo primo tailleur. Guardava suo figlio, che ormai da qualche mese lei chiamava Don Evaristo, inginocchiato davanti al vescovo con uno sguardo felice ed orgoglioso, e di tanto in tanto il suo sguardo si girava verso le donne del paese.

Fu assegnato come curato ad una parrocchia piuttosto importante dell’alto Appennino parmense ed insieme con un altro curato si occupava dei ragazzi. Organizzava giochi, gite in montagna, giocava con loro al calcio. L’altro curato, Don Pietro, era un po’ più anziano di lui e non era ancora diventato parroco perché, glielo disse lui stesso, era un po’ in odore d’eresia, almeno così sosteneva il titolare della parrocchia, un anziano prete molto tradizionalista. Per quest’ultimo, bastava il fatto che il curato indossasse il clergyman solo nelle occasioni e di solito se n’andava in giro praticamente in borghese, mentre lui era ancora affezionato all’abito talare e, la domenica, predicava con passione e retorica.

I due curati andarono subito d’accordo. Anche il nuovo venuto entrò subito nelle simpatie dei ragazzi della parrocchia che invece non potevano soffrire il parroco, da loro soprannominato “il barbogio”.

Una volta, ad un dibattito organizzato per i ragazzi dai due curati, arrivò il parroco, che volle intromettersi nella discussione. Ne scaturì quasi una lite. Due ragazze di 16 anni, insoddisfatte della risposta ad una loro domanda, gli dissero senza mezzi termini che le sue idee erano superate e che il Medio Evo era finito da un pezzo. Dopo la riunione, i due curati furono convocati nello studio del parroco che li redarguì aspramente, non tanto per le idee espresse dalle due fanciulle, quanto per il fatto stesso di organizzare questi dibattiti. Disse: “In queste discussioni è presente il diavolo e spesso ha la meglio”. La fede non va discussa. Va inculcata e basta. La Chiesa è la sola che può discutere in tema di fede.

Don Evaristo rimase zitto, annuendo. Nel suo intimo pensava che il parroco non avesse tutti i torti ad arrabbiarsi così. L’altro invece volle dire la sua. Disse che i giovani oggi vanno a scuola, studiano, hanno accesso alle idee più varie e non accettano più il magistero a scatola chiusa. Vogliono capire. Se non li si fa discutere si allontanano semplicemente dalla religione.

Don Evaristo pensò che, d’altra parte, se li si fa discutere, presto o tardi se n’allontanano ugualmente. Forse la religione e la fede sono solo per coloro che non pensano, che non discutono, che accettano il “Verbo” così com’è? Decise di scacciare questi pensieri molesti e di limitarsi a fare il suo dovere di prete.

Il parroco li congedò fra mille raccomandazioni, ma non riuscì a convincerli.

Passò qualche mese e Don Pietro fu trasferito ad altra parrocchia. Prima della partenza, una sera, parlarono a lungo e Don Evaristo si rese conto che, tutto sommato, l’altro aveva più fede di lui. Non fu rimpiazzato perché anche quella parrocchia non poteva più permettersi due curati e Don Evaristo dovette caricarsi da solo di tutto il lavoro.

Un giorno fu chiamato dal parroco che gli comunicò la decisione di trasferirlo, almeno per un certo periodo, ad una parrocchia della provincia di Piacenza come curato, dato che il parroco era ammalato ed avrebbe dovuto sottoporsi ad interventi chirurgici.

Si trovò subito a suo agio anche lì. Fu accolto bene dai parrocchiani,. Soprattutto dai giovani. Era uno di loro e si scoperse ad invidiare la loro libertà, il benessere di cui godevano, le loro passioni. Si divertiva con loro e non riusciva più a nascondere a se stesso che ammirava le belle ragazze e quando si accorgeva che qualcuna di loro lo guardava come una ragazza guarda un uomo e non un prete, univa al suo turbamento una buona dose di compiacimento. Oddio, perché i preti devono vergognarsi a guardare una ragazza con desiderio?. La natura li ha fatti uomini come gli altri. Si trovò a pensare sempre più spesso che il celibato imposto ai preti cattolici, libera scelta solo in teoria perché effettuata troppo presto e nella sostanziale ignoranza del mondo, fosse una cosa ingiusta e controproducente per la stessa chiesa. Non era un insegnamento fondamentale che la famiglia fosse la base della società? Perché impedire ai pastori della chiesa di formare essi stessi una famiglia?

Questi pensieri non lo distolsero, peraltro, dal suo dovere, dal suo lavoro di curato, ma quando si ritrovava solo nella sua stanzetta, la sera dopo le preghiere, si soffermava a meditare sulla sua vita, sul futuro, sullo scopo della missione che si era scelto, e sempre più spesso arrivava alla conclusione che quella missione non l’aveva in effetti scelta lui, ma altri per lui. Sua madre soprattutto, i fratelli e le sorelle, il parroco del paese, la maestra. Tutti davano per scontato che lui fosse destinato a quella missione.

Una sera aprì il suo animo al parroco, Don Alberto, un prete di mezza età anche lui d’origini umili, molto amato dai parrocchiani per il suo buon senso, l’apertura mentale, la semplicità di modi, la tolleranza. Don Alberto lo osservava da tempo e non si stupì quando il curato gli confessò le sue ansie, i suoi dubbi, l’attrazione che provava per le ragazze e allo stesso tempo la voglia di fare qualcosa per gli altri, di svolgere bene la sua missione spirituale. Non fu l’unico colloquio fra i due. Spesso Don Evaristo si confidava, ne sentiva il bisogno. Don Alberto un giorno gli disse che forse era stato uno sbaglio per lui farsi prete. Man mano che il tempo passava i dubbi sembravano aumentare, la pace dell’animo si allontanava sempre più. Il parroco faceva questi discorsi con grande onestà, parlando come un padre saggio, anche se gli spiaceva veder scivolare via quel ragazzo che nella parrocchia faceva un così buon lavoro e che nei lunghi mesi della sua assenza per malattia si era guadagnato la stima e l’affetto di tanti parrocchiani.

Il giovane tornava spesso a casa di sua madre, ma non le disse mai nulla. Durante queste corse a casa andava a cercare i vecchi amici e compagni di scuola e di giochi. A casa di uno di questi rivide una ragazza della sua età conosciuta nella prima parrocchia del parmense e scoperse che la sua compagnia gli dava serenità e piacere. La ragazza non era bella, ma aveva una certa cultura. Conversare a lungo con lei lo interessava molto. Cominciò a frequentare quella casa con regolarità. Anzi, non appena trovava un’ora libera, soprattutto la sera, correva da lei. Cominciarono quindi gli appuntamenti fuori casa.

Fra loro non successe nulla per oltre un anno, Parlavano e basta. La ragazza all’inizio aveva un fidanzato, ma lo lasciò. Una sera si baciarono. Fu lei a farlo.

Nella parrocchia la gente cominciava a mormorare. Dove correva Don Evaristo la sera? Lo vedevano, subito dopo cena, partire con la sua utilitaria. Non tornava prima di mezzanotte o più tardi. Il parroco scuoteva la testa ed era molto rattristato per le voci che correvano, ma capiva che qualcosa di vero doveva esserci, anche se il comportamento di Don Evaristo nello svolgimento dei suoi compiti era quello di sempre. Anzi, il curato si dedicava al suo lavoro con maggior impegno, se qualcuno chiamava lui correva ed i vecchietti della Casa di Riposo erano sempre più entusiasti di lui.

Una sera, dopo la messa delle cinque, il curato chiese a Don Alberto di potergli parlare e lo seguì nel suo studio. Il parroco capì che il giovane desiderava sputare il rospo e ne fu sollevato, ma il rospo era un grosso rospo e dall’espressione di Don Evaristo si capiva che la sua sofferenza era grande, anche perché si accingeva ad infliggere un grosso dispiacere al suo superiore, al quale era molto affezionato e che si era sempre dimostrato così comprensivo ed aperto con lui.

Disse che si era innamorato di una donna, che la frequentava da oltre un anno, che desiderava un giorno sposarsi ed avere dei figli “come tutti gli altri”. Disse che si rendeva conto che il suo desiderio era incompatibile con il suo ufficio al quale si sentiva d’altra parte molto portato, ma comprendeva che, se avesse rinunciato a quella donna, se avesse rinunciato a fare una famiglia, sarebbe diventato un cattivo prete, sempre in lotta con la sua coscienza, con l’animo pieno di rimpianti e di rancore. Questi sentimenti forse lo rendevano già un cattivo prete, non si sentiva un eroe, non si considerava un santo. Si sentiva un uomo come gli altri e non era in grado di lottare per tutta la vita contro la sua condizione naturale di uomo, com’era stato creato.

A Don Alberto venne sulle labbra, naturalmente, una domanda: “Che cosa farai fuori di qui? Tu sai fare solo il prete. Come vivrai?”. Dallo sguardo del giovane capì che non avrebbe dovuto fargli questa domanda. La sua era una questione di coscienza e prescindeva, per ora, dal “dopo”. Quanti preti avrebbero voluto fare quel passo e non ne avevano il coraggio, proprio per paura di ciò che li attendeva “fuori”? Il giovane non rispose ed abbassò gli occhi, pensoso.

Qualche giorno dopo Don Alberto si recò in città e chiese di parlare al Vescovo. Non è sempre facile parlare direttamente al Vescovo per un parroco di campagna. Ci sono diaframmi da superare, monsignori di Curia un po’ gelosi delle loro prerogative, ma il nuovo Vescovo, arrivato un paio d’anni prima, incoraggiava questi colloqui diretti e quando seppe che Don Alberto aveva un motivo grave per vederlo subito, lo ricevette immediatamente.

Disse che, stando così le cose, forse non c’era niente da fare. Volle tuttavia avere un colloquio lui stesso con il curato che si presentò la mattina dopo. Don Evaristo si aperse completamente ed il Vescovo alla fine gli disse: “Meglio un buon padre di famiglia che un cattivo prete”. Fece presente che l’eventuale futuro matrimonio poteva essere soltanto civile e ciò, per un cristiano, già rappresentava un grave peccato, perché lui sarebbe rimasto prete per tutta la vita, secondo le leggi della Chiesa. Questo fatto avrebbe pesato sulla sua famiglia, sui futuri figli e la società forse lo avrebbe discriminato o guardato con sospetto. In passato la Chiesa perseguitava gli spretati, avvalendosi anche del “braccio secolare” degli stati e cercava di rendere loro la vita difficile, se non impossibile. Ora la persecuzione era soltanto morale, ma c’era ancora. Forse non era giusto, ma era così. E a sua madre aveva pensato? Il Vescovo sapeva che la madre aveva avuto una parte importante nella vocazione del ragazzo. Don Evaristo guardò il Vescovo con tristezza e rispose che sapeva bene di darle un grande, grandissimo, dispiacere, che forse lei non avrebbe compreso il suo conflitto di coscienza, il suo tormento. Avrebbe cercato di esserle più vicino di prima.

Il Vescovo lo congedò benedicendolo e sulla porta lo abbracciò.

Il curato lasciò la parrocchia la domenica successiva e non volle dir messa per l’ultima volta, ma assistette all’Ufficio celebrato da Don Alberto che menzionò il suo nome nelle preghiere, poi si congedò dai ragazzi. Alcuni piansero.

Andò a vivere in un paese non lontano dalla città, in una modesta stanzetta ed accettò un umile lavoro da meccanico.

Sua madre, quando lui le disse di aver lasciato il sacerdozio, diede in escandescenze e lo buttò fuori di casa, gridandogli di non farsi più vedere.

Si sposò civilmente qualche mese dopo, trovò un lavoro migliore ed ai vecchi amici che incontra dice di essere sereno ed in pace con se stesso

 

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