La Santa Pasqua era quasi vicina, Pasqua
alta di aprile. Cielo grigio e io coricata a letto, nel letto grande di
mamma, col morbillo. Avevo cinque anni.
Come mi piaceva stare nel letto grande, c'era tanto spazio.
Attraverso i vetri della finestra, sollevando un po’ la testa dal
cuscino, riuscivo a vedere, oltre la cima della grande
palma, oltre il muro di cinta del giardino, oltre tutte le case del
quartiere distese laggiù nella pianura, le colline e la valle di San
Basile e in alto i monti lontani, ultime pendici dell'Aspromonte, come
colorati di un grigio-blu intenso.
- Perché siamo venuti via da San Basile mamma? Mi divertivo tanto. Si
stava bene in campagna. I tuoi coloni ti chiamavano cavalera! A
me cavaleredda. Bellissimo!
- Lo sfollamento era finito grazie a Dio – rispose mamma - niente più
bombardamenti. A fine settembre del ’43, ricordi?, tornammo a Reggio.
Con sguardo triste continuavo a guardare oltre i vetri.
Stupendo! Mai il mondo di fuori mi era sembrato così stupendo!
Ammalata, non potevo uscire, perciò, guardando fuori, tutto mi appariva
più bello. La consapevolezza di non poter fare certe cose te le fa
apparire più belle e desiderabili, anche le più banali. Non potevo
muovermi neanche dalla stanza, dovevo stare a letto. Prima medicina: il
letto. Seconda medicina: la purga. Per qualsiasi tipo di malattia questa
era la legge. Sia se avevo mal di stomaco, oppure l'influenza o le
tonsille gonfie, tanto non era determinante il tipo di malattia: letto e
purga. Stavo male? Basta così: letto e purga! Prima cosa dunque: evitare
infreddature; seconda cosa: mettere a posto lo stomaco. La purga poi era
anche obbligatoria d'estate quando si decideva di andare al mare per la
prima volta. Due giorni prima del primo bagno: la purga. Tutti metodi
empirici, di prevenzione o di cura, diffusi soprattutto fra i contadini.
A San Basile mamma aveva imparato tante cose dai coloni più anziani. La
maggior parte dei consigli di saggezza rurale comunque era esatta.
- Ma perché la purga?
- Perché si - mi rispondeva mamma - prima del primo bagno ci vuole la
purga, 'u rinnu l'antichi (lo dicono gli antichi).
La purga era una cosa terrificante per me, sia l'olio di ricino che il
sale inglese.
- Scusi, ma ho preso il sale inglese!
- Ah si! Pardon...
Ecco, a proposito del sale inglese, mia sorella cantava sempre una
canzoncina abbastanza lunga che finiva con i due versi di prima. Parlava
di un giovane che tutto preoccupato segue a Parigi, sul lungo Senna, una
ragazza perché poco prima aveva avuto l'impressione che lei si volesse
suicidare buttandosi nel fiume, la ragazza correva e si sporgeva a
guardare l’acqua, ricominciava a correre e di nuovo affacciata al
parapetto si sporgeva, si sporgeva. E più lui la seguiva e più lei, dopo
averlo guardato di sfuggita, correva col viso contratto, tenendosi una
mano sulla pancia, e lui sempre dietro, finché non sapendo dove
rifugiarsi la poveretta di corsa scende giù le scale verso il fiume.
Subito dopo lui la raggiunge sulla banchina della Senna, allora lei
disperata, naturalmente cantando, gli dice:
- Scusi sa! Ma ho preso il sale inglese!
- Ah si?! Pardon.
E tutti ridevano.
L'olio di ricino era più odioso del sale inglese, mi dava il vomito. E
comunque, se ero proprio restia ad ubbidire, papà mi inseguiva da una
parte e dall'altra del letto grande e quando mi afferrava mi ficcava un
cucchiaino in bocca per farmela tenere aperta e quindi mi cacciava in
gola quella maledetta purga. E poi arrivava Della Sala, l'infermiere del
nostro dottore, col camice bianco, un omone alto e grosso, i baffi neri
neri. Se non c'era il dottore arrivava lui. “Tanto - diceva mamma -
quasi quasi Della Sala è più bravo del dottore”.
- Se ha la febbre alta fatele degli impacchi freddi sulla fronte -
subito consigliava.
E mamma mi piazzava sulla fronte quelle pezze bagnate dalle quali,
benché naturalmente ben strizzate, a volte colava comunque un po’
d'acqua ai lati fra i capelli e sul collo. Oppure mi fasciava la fronte
(e questo era un metodo contadino e non dell'infermiere) con un grande
panno asciutto piegato a triangolo e ripiegato ancora tipo fascia, e poi
legato stretto dietro la nuca. Sotto, a diretto contatto con la fronte,
il panno tratteneva delle fette di patate.
- Dicono che mantengono la fronte fresca, abbassano la febbre, mandano
via il mal di testa e non portano umidità - affermava mamma.
- E chi lo dice? - chiedevo io.
- 'U rinnu l'antichi.
Le pezze bagnate o le patate però, anche se un po’ di conforto lo
davano, certamente non bastavano a farmi passare la febbre. A volte
addirittura la temperatura molto alta mi faceva sparlare, come diceva
mamma, insomma deliravo: - “...il mare... I pescatori pescano... Oh Dio,
sento caldo...Il cancello... Quello è il cancello...” - così una volta
cominciai a sparlare, mi riferì mamma perché io naturalmente non
ricordavo niente. E stranamente, per tanti anni, ritornarono a volte ad
apparirmi nella mente improvvisamente, anche se solo per qualche attimo,
certe immagini del delirio e soprattutto quella del cancello. Un giorno,
passando per la prima volta davanti a un cancello in una strada mai
fatta prima, ho avuto la sensazione di aver già visto quel cancello.
- Mamma, ma qui ci siamo già stati?
- Mai - mi rispose molto laconica.
La tipica sensazione del deja vu? Oppure era semplicemente il cancello
del delirio?
Da oltre i vetri guardava minacciosa me a letto malata, la cima della
palma alta, ben ritta lì a ridosso del muro di cinta con quegli strani
pendagli di datteri immangiabili, inflorescenze mostruose e inutili,
pesanti verso terra. Nel suo cuore in alto però schiudevano ventagli di
foglie giovani di un giallo tenero, pronti per essere intrecciati, in
forme varie, il giorno prima della Domenica delle Palme.
Seduta sul letto odio la febbre e intreccio foglie di palma tenere
(mamma mandò qualcuno a raccoglierle per me) per formare scalette e
fiori e cestini di palma a cinque punte, come la roccia a cinque punte
di Pentedattilo.
L'avevo vista un giorno la roccia a cinque punte di Pentedattilo scelta,
a riparo delle proprie case, dai coloni greci che così, con fantasia,
l'avevano chiamata: Pentedattilo, cinque dita. Si ergeva lontana a
ferire l'aurora con le cinque punte di pietra appena rosate dopo l’alba,
come le cinque dita rosate dell'aurora omerica, ma oscure e minacciose
fra le nuvole, neri trapani giganti puntati verso l'alto per bucare il
cielo.
- Maruzza Maruzzella
conza conza la buffettella,
chistu è lu pani
chistu è lu vinu
chistu è lu corpu
‘i Gesù Bambinu.
Mentre guarda fuori dai vetri della finestra, mamma canticchia annoiata
quella vecchia filastrocca tamburellando con le dita sul vetro bagnato
all'esterno dalla pioggia.
Maruzza Maruzzella
conza conza la buffettella...
Una strana filastrocca: che cos'era la buffettella? Era un altare con
pane e vino di Gesù? O una tavola da apparecchiare? - Conza 'a tavola
Mariella - mi diceva mamma quando bisognava apparecchiare per il pranzo.
E allora? Che cos'era la buffettella? Non l’ho mai saputo.
- Maruzza Maruzzella
conza conza la buffettella...
S'intristiva e si annoiava mamma quando era costretta a stare a casa per
esempio per la pioggia o quando io ero malata, e tanto più s'intristiva
a vedere dalla finestra soltanto il giardino. A lei sarebbe piaciuto
almeno poter guardare la strada e la gente e le macchine passare, come
dal balcone della nonna Saveria che dava sul Corso Garibaldi su cui
c'era sempre il passeggio. Per questo normalmente ogni pomeriggio voleva
uscire.
- Andiamo a fare una bella passeggiata sul Corso, così ci
svaghiamo a vedere i negozi, a vedere gente - diceva. E quando apriva la
porta di casa per uscire, immancabilmente sentenziava rivolta a papà:
- Noi usciamo a fare una bella passeggiata sul Corso – diceva.
E immancabilmente papà ribatteva:
- Ma che c'è di bello?
Per una cosa che in effetti non era poi straordinariamente bella, mamma
appunto aggiungeva quest'aggettivo per dare più valenza e solennità a
quella cosa. Allo stesso modo perciò, quando non sapeva cosa preparare
come «secondo» per il pranzo perché non c'era in casa niente di
sostanzioso tipo carne o pesce, allora diceva: - Oggi per «secondo» farò
una bella frittata - La semplice pietanza con le uova veniva così
nobilitata dall'aggettivo bella e qualche volta anche bellissima:
- Oggi per «secondo» farò una bellissima frittata!
Durante la bella passeggiata sul Corso si camminava lentamente,
ci si fermava a parlare con qualche conoscente, si guardavano le vetrine
dei negozi e se io rallentavo troppo il passo, mamma mi tirava per mano
con uno strattone. Poco dopo Piazza Italia, qualche volta svoltavamo a
destra per una di quelle salite, l'una parallela all'altra, che dal
Corso portano verso la parte alta della città. Poco prima dell'incrocio
con via D. Tripepi c'era il negozietto della cugina Nanna. Sulla
cinquantina, piccola, magra e brutterella, Nanna muoveva la bocca di
continuo come se masticasse sempre qualcosa. Forse aveva la dentiera.
- Poveretta - diceva di lei ogni tanto mamma - non è riuscita a trovare
nemmeno uno straccio di marito.
- Che fa Nanna? - mi domandava ridendo papà.
- "Mastica e fa buttuni! - rispondevo subito io.
Si, nel suo negozio Nanna aveva una macchinetta a pedale con una specie
di stantuffo di ferro che saliva e scendeva: si metteva il pezzettino di
tessuto (che doveva coprire l'anima del bottone) nel buchetto dello
stantuffo e questo scendendo lo attaccava all’anima del bottone. Ecco
fatto, così il vestito, o la giacca, o il cappotto delle clienti, poteva
avere i bottoni dello stesso tessuto.
E poi rammagliava anche le calze da donna, quelle velate.
- Oh, accidenti e accipicchia, partiu 'na maglia, ora da Nanna
devo portare la calza a rammagliare - esclamava ogni tanto con
disappunto mamma guardandosi dietro la gamba su cui ben si notava la
smagliatura nella calza, cioè si era formata una riga più chiara che dal
polpaccio saliva verso l'alto o scendeva verso il piede. Con il dito
bagnato di un po’ di saliva, per bloccare il cammino della smagliatura,
toccava quindi la calza nel punto dove quella riga si era fermata così
almeno non sarebbe andata più oltre.
- E va bbonu, dumani imu ‘nti Nanna.
Il negozio di Nanna era piccolissimo e in fondo a destra c'era un grande
buco nel pavimento, buio a guardarci dentro, attraverso il quale, giù
per una scala a chiocciola, si scendeva nel bagno. Beh bagno proprio no,
era solo un bugigattolo. Infatti Nanna lo chiamava semplicemente “il
gabinetto”. Quando scesi giù una volta per fare un bisognino, tremavo di
paura, c’era tanto buio.
Non sempre sul Corso si faceva la bella passeggiata, a volte
cambiavamo strada. O si andava alla Villa Comunale o si scendeva in Via
Marina. Alla Villa giocavo con le mie amiche Franca ed Enza che erano un
po’ più grandi e sapevano fare il teatrino. Cioè tutti i piccoli, come
spettatori, si sedevano sui gradini della terrazza con il bar e giù in
basso loro recitavano le favole. Qualche volta facevano recitare anche
me ma sempre in parti secondarie. A me sarebbe piaciuto fare la parte di
Biancaneve o di Cenerentola, ma niente da fare: o la parte di
Cucciolo o quella dello Specchio delle mie brame, toccava a
me.
- Voglio uscire mamma, il morbillo mi passerà e spero che almeno
domenica non sarò più malata. Oggi è martedì e domenica vedrai che potrò
uscire per la benedizione delle palme.
- Maruzza Maruzzella,
conza conza la buffettella
chistu è lu pani, chistu è lu vinu....
- Voglio far benedire i miei cestini di palma, hai capito mamma?
- Maruzzella maruzzella
conza conza la buffettella....
- ...e dopo ancora, giovedì, voglio andare a vedere i Sepolcri
nelle chiese, almeno tre chiese.
- Quando guarirai potrai uscire, guardati allo specchio!.
Una maschera rossa per il morbillo, e raffreddore e tosse.
- Vedrai che guarirò e potrò andare anche a vedere i Sepolcri. Vedrai!
Mi veniva da piangere, perché non sapevo se credere a quello che stavo
dicendo.
L'anno prima papà mi aveva portato con sé a vederli i Sepolcri delle
chiese di Reggio. Com'erano belli!
- Vediamo qual'è il sepolcro più ricco - aveva proposto - e dopo
facciamo la classifica.
Così eravamo andati in giro per la città entrando in ogni chiesa ad
ammirare, ben disposte nei vasi poggiati a terra su grandi tappeti stesi
davanti agli altari delle cappelle laterali, le belle composizioni
floreali alternate ad alti candelabri con le candele accese, la cui luce
tremula, fra l'andirivieni bisbigliante della gente, sfiorava in
chiaroscuri di mistero le immagini sacre delle pale in alto, e in basso
accarezzava le ciotole sparse sul pavimento piene di fili di grano verde
appena germogliato.
Si fece la classifica: per il Sepolcro del Duomo il voto fu nove e
mezzo, otto alla chiesa del Crocifisso, sei e mezzo alla chiesetta del
Carmine e un bel dieci a San Pietro, la più povera delle parrocchie al
cui addobbo però avevamo collaborato anche noi con i fiori del nostro
giardino. S. Pietro era la chiesetta più vicina a casa nostra, stava
proprio a sinistra lungo la strada che portava al Macello e alla
Fabbrica del ghiaccio, a ridosso quasi degli alti muraglioni che
circondavano il carcere, quelli con i camminamenti su cui passeggiavano
le sentinelle
- Maruzza Maruzzella...
conza conza....
- Voglio vedere i sepolcri e anche la processione del Venerdì Santo con
le Varette.
- Maruzza Maruzzella,
conza conza la buffettella....
Le Varette. Volevo vederle. L'anno precedente le avevo seguite
con stupore le Varette, quelle statue enormi così
grandi
e pesanti! Uscivano dalla chiesa di Gesù e Maria e dirigendosi verso il
Duomo ondeggiavano come in bilico su pedane di legno poggiate su due
lunghe travi che, fuoriuscendo per più di due metri avanti e dietro da
sotto le pedane, erano a spalla sostenute, per voto, da otto uomini
robusti e muscolosi. Trottavano faticosamente a passetti piccoli gli
omaccioni gravati dal gran peso, quattro sotto una trave, cioè due
davanti la pedana e due dietro, e quattro sotto l'altra nella
processione del Venerdì Santo. Mi affascinavano le statue per
quell'espressione negli occhi d'immobilità dolorante che contrastava con
il loro ondeggiamento un po’ ridicolo.
- S’annacunu, insomma si dondolano - diceva papà - come pupazzi
alla mercé degli uomini-portatori che sbuffano sotto le travi tutti
sudati, affaticati ma devotissimi. Però ‘a ‘Nnacata è
importante perché, seguendo quasi danzando il suono cadenzato della
marcia funebre e del tamburo della banda, le statue prendono vita.
Anche la folla, al seguito della processione che si snodava lungo il
Corso, cadenzava il passo, come i portatori, al suono di morte del
tamburo. Ad ogni sosta, o ad ogni “vutata” (o “attunniata”
come dicono a Trapani), grandi monete di carta venivano attaccate alle
vesti delle statue per devozione.
- Guarda mi disse papà, sta arrivando la più grande, la Varetta di «Gesù
nell'orto degli ulivi», Avanzava infatti ancor più lentamente delle
altre, così larga era quella pedana e così pesantemente affollata di
statue di apostoli e di piccoli alberi veri di ulivo sistemati in grossi
vasi di coccio. Sotto questa Varetta infatti i portatori erano dieci.
Subito dopo, tra il pianto e i sospiri delle pie donne, ecco, arrivava
la Varetta di Gesù, piagato e sanguinante sotto il peso della croce. Per
ultima l'Addolorata tutta vestita di nero: nel viso di marmo lucido
devastato dall'angoscia, la bocca aperta in una smorfia di dolore, la
Madre di Gesù rivelava straziata al mondo intero la sua disperazione.
- "Figlio, figlio, adorato giglio... - cominciava sempre a declamare
papà un po’ sottovoce e piuttosto commosso. Lui si commuoveva
facilmente, anche i film tristi con Amedeo Nazzari come “Catene”, lo
facevano commuovere e piangeva veramente… --
- Però le Varette di Trapani – aggiungeva sempre - sono più belle
di queste e le chiamano Misteri, perché è un mistero tutto ciò
che l’uomo non riesce a spiegarsi. Sai Mariella, già tanti secoli fa in
Spagna facevano questa processione che chiamavano “Teatro de los
misteros” che poi durante la dominazione spagnola in Italia si è
affermata soprattutto in Sicilia e Calabria. I Misteri, sono più
numerosi e più belli delle Varette! Ogni Gruppo Sacro è impreziosito con
manufatti d’argento così le aureole delle statue, la corona di spine, la
balaustra che cinge la pedana su cui poggia l’Ecce Homo, gli elmi e le
spade dei soldati romani, tutte opere di artigiani orafi e argentieri. A
intervalli pressoché uguali fanno sosta davanti a determinati palazzi,
soste d’obbligo comandate dal Caporale, il capo dei massari ( portatori)
con la ciaccula (tre pezzi di legno che agitati dal Caporale danno un
caratteristico suono simile alle “troccole” o alle “castanuelas”
spagnole.forse perché quelli che abitano in quei palazzi hanno già
offerto prima tanti soldi per dimostrare così devozione e prestigio.
Cantavano le donne seguendo la processione e due voci alquanto stridule,
di soprano mancate, si alzavano di un paio di toni sulle altre, in buona
esibizione. E urla e pianti accorati, accompagnavano la Mater dolorosa,
anche delle donne che affollavano terrazzi e balconi, vestiti a festa
con drappi damascati, come ambiti palchi o loggioni d'affaccio, per
assistere avidamente al dramma sacro di stagione.
- Maruzza Maruzzella
conza conza la buffettella.....
Continua a canticchiare annoiata mamma, sempre dietro i vetri e poi:
- Sai che questa canzoncina la cantava mia suocera a Ragusa? - disse -
Si, 'a 'gna Carmela, tua nonna, quella dal proverbio facile.
- Io voglio uscire, non m'interessa Ragusa, non voglio sentire più
niente, il morbillo mi sta passando, voglio andare a vedere i sepolcri e
le varette, e voglio venire stasera a teatro con voi.
- Voglio voglio...l'erba voglio non cresce neanche nel giardino del re.
Stai buona, stasera non puoi venire con noi.
Mi lasciarono a casa quella sera con la vicina dirimpettaia, che era
sempre incinta. E piansi tanto.
L'anno prima però ero stata a teatro a vedere la Boheme. Avevo pianto
tanto ma così tanto che mamma mi accontentò e mi portò a teatro e
ricordo che mi piacque moltissimo quell'aria così bella:
Mi chiamano Mimiii,
il percheèee non so...
Mamma la suonava anche al pianoforte e pure «Amami Alfredo» della
Traviata, e mia sorella cantava. Il preludio del terzo atto della
Traviata lo suonava bene mamma, e mi piaceva tanto ascoltare, ma mi
metteva tanta tristezza.
- Su, non piangere, verrai un'altra volta a teatro te lo prometto -
cercò di distrarmi mamma prima di uscire - Non è che nella vita si può
fare tutto quello che si vuole.
- E però io mi voglio alzare, sto bene, non ho più febbre.
- Stai buona, ancora non puoi alzarti, resto ancora un po’ con te a
farti compagnia e ti racconto qualcosa.
- Evviva! – gridai proprio la mattina della Domenica delle Palme.
Mi era stato dato il permesso di lasciare il letto. Ormai ero guarita
dal morbillo.
Giravo per le stanze e mi guardavo intorno, mi sembrava come fossero
cambiate tante cose: la casa mi sembrava come diversa, la disposizione
dei mobili diversa, bastava che una cosa avesse cambiato posto e io
vedevo tutto nuovo. Fuori gli alberi mi apparivano più alti, le panchine
più bianche, il giardino più bello. Ma soprattutto io mi sentivo
diversa, come più cresciuta, più alta, forse perché la nonna, quando
avevo la febbre, diceva sempre:
- Chista è febbri 'i criscenza, comu proverbia 'a 'gna Carmela –
(secondo la saggezza contadina, pare che dopo la febbre i bambini
crescessero in altezza!!!).
In chiesa, alla benedizione delle palme, orgogliosa alzai in alto i miei
cestini di palma per farli benedire. Per tutto l’anno poi
sarebbero rimasti dentro un vaso a riempirsi di polvere e solo alla
prossima Domenica delle palme sarebbero stati rinnovati.
- Davvero li hai fatti tu? – mi chiese una mia compagna di scuola
incontrata in chiesa – belli veramente, io ho soltanto questi rametti di
ulivo da far benedire..
La domenica di Pasqua quell’anno andammo a festeggiarla, presso dei
parenti, a Rombiolo, vicino Vibo Valentia così abbiamo assistito all’
Affruntata (l’incontro). La piazza davanti alla chiesa era
piena di gente che si arrampicava sui muretti per vedere meglio “lo
spettacolo”, possiamo dire così perché in effetti abbiamo assistito
veramente a un meraviglioso dramma sacro. Dopo la messa dalla chiesa
cominciano a uscire le statue poste su delle pedane portate dai
portatori: la grande statua del Cristo sanguinante (sei portatori), la
grande statua della Madonna addolorata molto imponente tutta coperta da
un mantello di nero che le copre anche la testa (sei portatori) e la
statua di San Giovanni però più piccola, più leggera, coperto da un
manticello rosso, solo quattro i portatori. La banda comincia a suonare,
colpi cadenzati e lugubri del tamburo mentre passa la statua del Cristo
che lentamente, a passo cadenzato, si avvia giù verso una discesa a
sinistra della piazza e dopo la curva scompare. Anche la statua della
Madonna addolorata, sempre molto lentamente, colpi lugubri del tamburo,
si avvia giù per un’altra discesa a destra della piazza e poi non si
vede più. Quando esce dalla chiesa la statua di San Giovanni i colpi sul
tamburo diventano invece più veloci, assillanti, perché San Giovanni
deve correre, con grande fatica dei suoi portatori, e va giù per la
discesa a sinistra come se andasse a parlare con Gesù, quindi risale e
ora giù per la discesa a destra come se andasse a parlare con Maria. E
risale e ritorna a scendere verso Gesù e risale e scende verso Maria, il
manticello rosso svolazza continuamente, risale e scende ancora, risale
e scende, sempre al suono crescente dei tamburi. Finalmente, ecco, si
cominciano a intravedere le due grandi statue che ritornano lentamente
verso la piazza. San Giovanni va sempre avanti e indietro dall’una
all’altra statua, si capisce che ha avvisato Gesù dell’arrivo della
Madonna e ha avvisato Maria dell’arrivo di Gesù, cioè adesso Maria sa
che Gesù è risuscitato. Infatti, quando nella piazza le due grandi
statue finalmente s’incontrano, cade improvvisamente giù per terra il
lungo mantello nero di Maria, che adesso appare gioiosa, splendente,
vestita di bianco e celeste con ricami dorati. Il tamburo finalmente
tace.
Grande commozione e tripudio di tutta la gente mentre gli ottoni della
banda, con forza possente, suonavano adesso un inno alla gioia, alla
vita. Un inno all’amore.
Mariella Di Pasquale
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