Pasqua anni '30
 

   Racconto breve di Lorenzo Milanesi   
 
Parlo di una festa per modo di dire. Il paesino, 2000 anime in tutto, si abbarbica alle costole di una collina ai piedi dell’Aspromonte e domina, pressoché per intero, la cosiddetta Piana di Gioia Tauro che protende i suoi confini dalle pendici, appunto, della montagna, sfiora il Monte Crocco e si distende, placida e rilassata,, in una vasta baia marina delimitata dall’arenile di Nicotera a nord e da quello di Palmi verso sud. Tutti i paesi che vi gravitano sono letteralmente presi d’assedio dalla fitta vegetazione di ulivi secolari di alto fusto che rappresentano un unicum in tutto il bacino mediterraneo e forse nel mondo intero. Dal mio paese si gode una vista straordinariamente fascinosa su tutto questo mare formato dalle chiome degli ulivi che assumono l’aspetto di immense onde argentate quando si cullano placide per un po’ di vento.
I giorni che precedevano la domenica di Pasqua erano quelli della Passione, dunque di massima compostezza. Le due confraternite, del Rosario con il mozzetto azzurro e di Loreto col mozzetto rosso, preparavano la solennità dell’affrontata (incontro) di venerdì santo, nel corso della quale portavano in processione, l’una la statua della Madonna Addolorata, avvolta in un sontuoso mantello azzurro e trafitta in petto da uno stiletto insanguinato, l’altra la statua di Gesù con la corona di spine e la croce in ispalla. Entrambe le statue venivano condotte davanti alla chiesa dello Spirito Santo dove si radunava molta gente in attesa del momento solenne dell’incontro (affrontata) fra la Madre trafitta dall’immenso dolore e il Figlio diretto al sacrificio supremo. Era il culmine della solennità e la gente vi partecipava con preghiere ad alta voce e, non pochi, con pianti dirotti. Una volta che la processione era terminata e le statue venivano riposte nelle rispettive chiese, le corde delle campane erano legate in maniera che, in segno di lutto, non si potessero suonare fino alla Resurrezione. Che arrivava, puntuale come sempre, alla domenica successiva quando, sciolte le corde, le campane suonavano a distesa per annunciare, appunto, l’avvenuta Resurrezione. In ogni casa si partecipava al festoso scampanio battendo coi bastoni sui pavimenti di legno o alle pareti. Le chiese si riempivano di gente allegra per la messa principale ma l’attenzione era rivolta verso quanti portavano, per essere benedetti dal prete, i cosiddetti “paparotti” che altro non erano che le foglie tenere e gialle delle palme sapientemente intrecciate fino a “costruire” degli oggetti devozionali, ornati poi di nastri rossi che li rendevano ancora più festosi. La festa si concludeva con un lauto pranzo per il quale era stato sacrificato un numero inverosimile di agnellini. Di questi agnellini v’erano anche le copie minuscole fatte di pasta di mandorle – marzapane – che costituivano l’unico dolce che circolava durante la Pasqua. Li ricordo adagiati per terra con una bandierina bianca rossocrociata trattenuta fra le zampette. Ma la festa per noi bambini avveniva il giorno dopo, di Pasquetta (per noi Pascuni) I genitori preparavano il pane fatto in casa a forma si corolle, nelle quali venivano conficcate 4 o 5 uova e infornate così. Il pane che ne scaturiva non era diverso da quello che si mangiava normalmente. Aveva, tuttavia, il sapore della festa e, soprattutto, della scampagnata. Noi piccoli scalpitavamo dal desiderio di trascorrere una giornata fra di noi, da soli. Così, non essendoci pericoli d’alcun genere, i nostri genitori ci lasciavano andare con il nostro pane a corolla con le uova sporgenti e con 50 centesimi in monetine di rame da 10 cent. per l’acquisto delle ricotte. Formavamo un gruppo di sei/sette ragazzi, fra i quali doveva essere presente uno più grandicello degli altri con funzioni di capo responsabile. In genere era un mio cugino. La meta era la cima della collina dalla quale, oltre a quanto già detto, si poteva godere anche la vista lontana del mare e della Sicilia. Una buona mezz’ora di cammino ci consentiva di raggiungerla e di scegliere il posto, che già peraltro conoscevamo, vicino ad una sorgente di acqua purissima. E’ qui che trascorrevamo spensierati la nostra giornata dopo aver fatto una capatina ad una mandra di pecore per acquistarvi le ricotte a 10 centesimi l’una. Poi cominciavano i giochi che, con l’intervallo per il pasto, fatto di pane, uova sode e ricotte, si protraevano in loco e per i boschi circostanti fino quasi all’imbrunire quando, distrutti dalla stanchezza, facevamo ritorno a casa. Vicende di circa 80 anni fa quando non c’erano giocattoli né dolci, ma tantissima felicità.

LORENZO MILANESI
Pasqua 2010

 

 

 

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