Semilibertà
Vi presentiamo un racconto di Fortuna Della Porta (apprezzata poetessa e scrittrice: Fortuna
è la moglie di Catello Califano, ex Comit).
Il pezzo è tratto dalla raccolta "Labirinti", che abbiamo già portato alla
vostra attenzione nelle precedenti puntate delle News.
settembre 2009
Spezia segnò sul calendario una croce sulla data e si infilò la matita nel taschino della camicia con un sospiro di sollievo. Era giovedì ed era in pace con se stesso. Aveva scontato un terzo della pena e oggi finalmente poteva prendere l'iniziativa di chiedere i benefici di legge per buona condotta: dieci anni precisi di rigoroso comportamento, mai un litigio, mai una disobbedienza. Perfino un rosario tra le dita quasi onnipresente, dal primo giorno di internamento, esclusivamente in funzione della semilibertà. Per prima cosa, prima dei giornali, aveva domandato un Vangelo. Non aveva mai reagito, neppure quando secondini e compagni iniziarono a canzonarlo o a umiliarlo. Là dentro bisognava aggregarsi al gruppo dei facinorosi e degli scalmanati, che imponeva proprie regole, per avere vita facile o mostrarsi duri e violenti a propria volta tanto da incutere timore. Questo pensava Spezia. Aveva scelto, all'opposto, il ruolo del mentecatto e del miserabile e gli era andata bene. Tirò un bel respiro compiaciuto quella mattina Spezia, radendosi. Una volta una guardia aveva domandato al collega, riferendosi a lui: -Stai parlando dell'asceta? ma l'altro non aveva raccolto. Un detenuto che aveva seguito la conversazione aveva provato a ripetere, battendo le mani, come un'eco asceta asceta, ma nessun altro si era unito a lui. Allora era restato Spezia. Spezia e basta, per tutti. Si gettò sul letto, guardando il soffitto e, sulla parete, le cianfrusaglie ammonticchiate per ricordare l'altra vita, appunto il calendario per segnare il tempo e le foto di alcuni campioni di calcio. Ma anche l'armamentario iconografico serviva al suo disegno, indifferente com'era a ogni tipo di sport, distaccato rispetto a tutto ciò che definiva vita al di là dei cancelli. Più di un recluso in tanti anni aveva provato ad attaccare briga con lui, anzi, nei primi mesi qualche volta le aveva prese. Nei primi tempi si era guardato sovente alle spalle e avevano dovuto proteggerlo a causa del delitto commesso. Le leggi della violenza vigenti nelle carceri sono implacabili rispetto a certi reati. Spezia si era accorto che i detenuti si costruiscono armi improprie con qualsiasi pezzo di metallo, uno spazzolino da denti sormontato da una lametta, addirittura un osso di pollo, ma oramai, dopo dieci anni, non c'era ragione che le adoperassero contro di lui. In ogni modo aveva collezionato solo ferite superficiali e contusioni, sebbene il carcere di solito non sia tenero con chi se la prende con i bambini. Spezia se lo diceva spesso. Aveva evitato il peggio, abbassando la testa e sottomettendosi. Quasi sempre aveva implorato: -Perdonatemi e gli altri a chiedere: -Come dici? Non si è capito! Una sola volta aveva davvero temuto che lo facessero fuori e allora si era messo a tremare. Un fluido vischioso gli uscì dalla bocca ma non un fiato contro di loro. Poi i tre se ne erano andati sputando a destra e a manca. Fece il conto che in tutto aveva trascorso meno di un mese di infermeria e dopo nuovo come prima. Si toccò la cicatrice sollevata a cordone che gli percorreva l'avambraccio sinistro. -Sono ancora vivo, disse Spezia ad alta voce, tastandosi in lungo e in largo come per costatarlo, ma soprattutto sono pronto a respirare per qualche ora del giorno l'aria di fuori. Dopo una lunga detenzione a qualcuno l'improvvisa libertà dava problemi, quasi fosse un pozzo in cui cadere. Non a Spezia. Chiamava se stesso col cognome, come facevano tutti, come avevano fatto i giornali, come i cronisti di radio e televisione. Aveva sperato che in dieci anni l'opinione pubblica si dimenticasse di lui, ma non era accaduto. Spezia era l'orco, il mostro che aveva stretto le mani intorno alla gola di un bambino e sapeva che certi delitti si imprimono nella società come traumi comuni. -A morte! Merita la pena di morte! avevano urlato in tanti davanti alla questura. Una folla si era assiepata anche intorno alla macchina della polizia e gli agenti faticavano a contenerla, in un tentativo di linciaggio, il giorno del suo arresto. Le forze dell'ordine ad un tratto parvero addirittura soccombere all'impeto di un paio di energumeni che appunto gridavano agitando un pugno chiuso: -E adesso, via con la pena di morte! Era uscito senza abbassare la testa o coprirsi la faccia, neanche il solito impermeabile intorno ai polsi per mimetizzare le manette. Non aveva alcuna intenzione di sfuggire a quello che si era meritato. Una signora anziana, con un foulard rosso fuoco da cui fuggivano ciocche di capelli bianchi, gli gridò mentre passava: -Che tu sia maledetto! Qualcun'altra piangeva sonoramente, ma anche uomini saldi si asciugavano gli occhi, turbati. Una volta dentro, aveva deciso che avrebbero cambiato opinione su di lui. Fu un lavoro meticoloso che riguardava persino la sua espressione, l'andatura. Cominciò a camminare rasentando i muri, con una spalla che toccava le pareti, la testa piegata di lato, gli occhi sempre bassi, snocciolando il rosario. Se gli si rivolgeva la parola, per prima cosa congiungeva le mani come se pregasse. Ad un tratto nessuno sembrò più badare a lui, come fosse diventato trasparente o un insetto innocuo. Spezia continuò a mostrarsi servile fino alla mortificazione e l'opinione più comune fu che gli avesse proprio dato di volta il cervello, forse per il rimorso. Il giovane Bartolomeo, due celle più avanti, un violento dalle mani solide, prese quasi a proteggerlo. Fu a quel punto che smise di avere paura e si sentì al sicuro. Ad un cero punto, insomma, fu lasciato in pace. Spezia smise di guardarsi intorno e si concentrò sui suoi veri pensieri: doveva riprovarci. Almeno un'altra volta, a qualsiasi costo. Era questo il vero tormento e la vera intenzione di Spezia. Poi, gettassero pure la chiave della sua cella. Non pensava mai alla cronologia dei dettagli che si erano confusi nel culmine dell'eccitazione, quando la piccola vittima si era afflosciata ai suoi piedi. L'ossessione riguardava ancora a dieci anni di distanza il brivido di piacere non premeditato che aveva provato dopo, quando aveva allungato la mano sulla pelle soffice e arresa, percependo il calore che ancora impregnava la carne in quella sorta di accondiscendenza involontaria e disanimata appena prima della morte. Guardare i bambini gli aveva dato il suo svago, toccarli lo aveva esaltato, averne tra le mani uno senza respiro lo aveva travolto. Il ricordo di quel pomeriggio in un capannone abbandonato sulla riva del fiume gli aveva tenuto compagnia ogni sera, gli aveva riempito i sogni. Aveva intuito subito che il turbamento indicibile, da cui per ore non riuscì a riprendersi, sarebbe diventato la vera tortura. Doveva risentire la formidabile scossa almeno un'altra volta e la condotta esemplare, ma se fosse servito si sarebbe tagliato la lingua, era predeterminata al solo scopo di rimettere il capo fuori prima possibile. Conosceva tutte le scuole della sua zona, tutti gli angoli da cui spiare con gli occhi rossi. -Miei piccoli fiori…aveva mormorato anche quella mattina mordendosi la nocca, adocchiando il bimbo che si era lasciato convincere a seguirlo. Aveva tenuto un accurato diario mentale, zeppo di memorie ma anche di progetti e desideri. In verità di tanto in tanto Spezia aveva cercato l'aiuto del cappellano, di rappresentanti di enti e istituzioni, quando erano venuti a visitarlo, del direttore dell'istituto, del medico, dell'infermiere perché si accorgessero delle sue idee assillanti, delle sue pulsioni per niente controllabili e spesso terrorizzato chiedeva direttamente a Dio di guarirlo, perché lo aveva creato così, cioè con un buco dentro la testa, nel quale trovavano rifugio solo i bambini. Una volta aveva chiesto un colloquio al direttore, che non gli aveva neppure badato. Continuava a rispondere al telefono e a scarabocchiare impaziente su un foglio di carta e quindi Spezia si mise a parlare di tutt'altro. Finì col chiedere una visita di controllo, per un mal di schiena che non aveva. -Direttore, si occupi di me. Rispondendo ancora a una telefonata, aveva fatto un gesto indicandogli la porta, mentre assentiva con la testa. Spezia, disteso sulla branda, si mise a riflettere, tirando vigorose boccate dalla sigaretta, la testa immersa nella nebbia, che non era affatto scontato che il giudice si pronunciasse in suo favore. Si erano già messi in moto diverse associazioni affinché l'istanza di semilibertà fosse rigettata, prima ancora che Spezia avesse il diritto di presentarla. La famiglia della piccola vittima si era già rivolta alla stampa e alla televisione per esprimere la propria contrarietà tentando di sollevare l'opinione pubblica dalla propria parte. Una catena di messaggi virtuali, no alla libertà per il mostro, avevano sommerso i computer della procura. Lo immaginava perfettamente anche Spezia. Un secondino gli disse con ironia, all'inizio del turno non appena cominciò ad riaffiorare oltre il cancello del carcere l'ostilità contro di lui: -Spezia, beato te! Sei sempre famoso. Spezia si strinse ancora una volta nelle spalle e intanto continuava a pensare che la legge era dalla sua parte e, soprattutto, che aveva lavorato bene per dieci anni e non aveva nulla da recriminare: di quei dieci immacolati anni il giudice doveva tenere conto, qualunque fosse la sua opinione personale. Non vedeva da molto tempo il suo avvocato, ma ormai era abbastanza informato sulla procedura da sapere che poteva fare da solo. Si alzò per muovere alcuni passi da un lato all'altro della cella, con le tempie che gli pulsavano. Infilò le mani sotto le ascelle per fermarle. Continuava a pensare che fra poco il giudice, esaminato il suo fascicolo, non avrebbe trovato nulla, a parte gli appelli delle famiglie, per negargli quello che in virtù delle leggi vigenti gli spettava. Si rimise sul letto con le braccia sotto il cuscino e automaticamente tornò la visione che cercava. Uguale e confortante come le altre volte, essa gli permise di sprofondare in una specie di torpore. Per un po' credette che fosse notte. L'incidente, come seguitava a chiamarlo, in realtà accadde per caso. Aveva stretto una mano intorno alla gola, perché il bambino non gridasse e ad un tratto lui si era come sgonfiato. A quel punto aveva avvertito una scarica e non era più riuscito ad allentare la morsa. Stringeva e basta. Un piacere immenso e sconosciuto gli annebbiò la vista. In tanti anni la fantasia morbosa non lo aveva abbandonato in nessun giorno ed era dentro di lui quando si sedette e cominciò a scrivere al giudice. D'improvviso si alzò dal letto e raggiunse il tavolino. Accarezzò i fogli e scrisse di getto. Corresse e riscrisse. Poi ricopiò. Mise il tutto in una busta gialla e chiamò perché venissero a prenderla. Il secondino raccolse la lettera sorridendo. Sapeva benissimo cosa conteneva. -In bocca al lupo, Spezia, disse. Ti sei comportato bene. Faccio il tifo per te. Si avviò verso l'ufficio del direttore mentre il detenuto modello Spezia, di nuovo sul letto, intrecciava le mani dietro la testa.