Janet Frame candidata alla morte fu
liberata dalla poesia
C’ era una volta una donna, Janet Frame,
che aveva avuto dei trascorsi nell’ infanzia, a dire poco
modesti: “nacque a Dunedin il 28 agosto 1924,da una famiglia
povera e trascorse la sua infanzia e la prima giovinezza tra
numerosi fratelli e sorelle in un clima di indigenza
materiale ma intellettualmente stimolante: il padre
ferroviere, fintamente rigido, la madre animata da singolari
slanci poetici, due sorelle, una delle quali muore
tragicamente, annegando, un fratello che ha problemi
mentali. Per il lavoro del padre la famiglia è costretta a
continui spostamenti, da qui il profondo senso di non
appartenenza e di instabilità della piccola ragazzina
grassoccia, con la pelle bianchissima ed un cespuglio di
ricci rossi che le incornicia il volto. Lei si muove
goffamente tra i suoi e corre, libera, sui prati verdissimi
della sua terra. Fin da piccola mostrò un’estrema timidezza
e sensibilità che la fecero apparire diversa dagli altri
bambini. Riuscì a diplomarsi poi come insegnante ma
successivamente non fu considerata “normale” e idonea
all’insegnamento…
Lei, Janet, è riuscita a sottrarsi alla lobotomia,
dopo dieci anni passati in ospedale psichiatrico con la
diagnosi, sbagliata, di schizofrenia. «I miei anni tra i
venti e i trenta, — dichiara in un’intervista, — sono
scappati via senza lasciare tracce, come se io non
esistessi». Subì una diagnosi di schizofrenia e fu internata
per otto anni in manicomio dove fu sottoposta a circa 200
trattamenti di elettro-shock. I medici dell’Istituto per
Malattie Mentali nel quale fu rinchiusa volevano
lobotomizzarla.”
Ma ecco che arriva il miracolo liberatorio, usare la sua
capacità creativa di scrittrice: “fu liberata da questa
situazione grazie alla pubblicazione di alcuni suoi libri e
dai riconoscimenti che il mondo letterario cominciò a
tributare alla sua creatività di scrittrice e poetessa.”
“…La scrittura diventa la zattera su cui Janet depone e a
cui affida i suoi ricordi più vivi pieni di dolore, i suoi
sentimenti, le paure che le tolgono il respiro e
indeboliscono le gambe, le sue forti e violente emozioni che
così arrivano a noi con l’intensità emotiva che li ha fatti
uscire da lei, nel corso degli anni.“Scriverò della stagione
del pericolo. Mi rinchiusero in ospedale perché si era
aperto un grande squarcio nel banco di ghiaccio fra me e gli
altri che guardavo allontanarsi alla deriva, insieme al loro
mondo, su un mare color malva dove pesci martello dal
languore tropicale nuotavano fianco a fianco con le foche e
gli orsi polari. Ero sola sulla banchisa. Si era levato un
vento gelido di tormenta e io mi sentivo intorpidita e mi
venne voglia di stendermi a dormire e lo avrei fatto, se non
fossero arrivati gli sconosciuti con forbici e borse di tela
piene di pidocchi e flaconi di veleno con etichette rosse, e
altri pericoli di cui non mi ero mai resa conto prima –
specchi, camici, corridoi, mobili, metri quadrati, pezze
intere di silenzio – in tinta unita e a quadri, campioni
gratuiti di voci. E gli sconosciuti, senza parlare,
innalzarono tende di calicò e si accamparono insieme a me “.
Per lei scrivere è al pari di una qualsiasi faccenda
domestica, un’occupazione quotidiana, come spolverare,
cucinare, lavorare all’uncinetto, lavare i piatti, solo che
lo scrivere viene messo al primo posto e sempre la scrittura
per lei sarà passione, precisione e immaginazione. “Scrivo
le mie parole in modo che siano perfette. Il tono, la forma
e la consistenza delle parole devono essere il massimo della
perfezione… narrativa e autobiografia non sono modalità così
diverse fra loro; entrambe richiedono la grande abilità di
forgiare, selezionare e comporre una serie di motivi e
modelli che rappresentano, o danno l’illusione di
rappresentare, la completezza. Non c’è superiorità di una
forma rispetto all’altra; la superiorità o non superiorità
dipende dalla passione e dall’immaginazione”.
Come è finita? È stata candidata due volte al premio Nobel
per la letteratura, l’ultima nel 2003.È morta nel 2004 di
leucemia sempre nella sua cittadina natale. Il film Un
angelo alla mia tavola, che ripropone il titolo da uno dei
suoi tre romanzi autobiografici, è stato tratto dalle sue
autobiografie e diretto da Jane Campion, vincitrice del
premio speciale della giuria alla Mostra Internazionale
d’Arte Cinematografica di Venezia nel 1990. Morì a Dunedin,
dove era nata, il 29 gennaio del 2004: «E’ la mia ultima
storia. Metto tre puntini di sospensione con la macchina da
scrivere, solennemente, così…”.
Doriana Goracci
“ D’ora in ora più selvatica. Lo so.
Da tanti anni divorata,
tagliata, ritagliata,i rami costretti a destra e a manca,
mi slanciai, fiorendo, minuti fiori bianchi
sopra gli steccati fisso in viso le persone
Mi guardano le api, mi ha preso in manto il vento
Forte e aspro è il mio gusto, rigogliose le mie fronde.
Si acciglia la gente, se vede che metto ancora una radice “