Ad un non impossibile fatto tragico immaginato e
narrato con grande delicatezza e commozione nel
numero scorso, MARGHERITA DI MATTIA SANTOCONO fa
seguire questo mese un suo interessante saggio su
un’opera di Sofocle, il Filottete, non molto nota e
raramente rappresentata, forse perché l’essenza
risultava di non agevole lettura e spiegazione.
Il difficile tema è trattato con notevole
approfondimento e grande competenza, qualità
dell’Autrice che tutti hanno imparato a conoscere.
Carmelo Profeta
I
MESSAGGI DELLA TRAGEDIA PIÙ ENIGMATICA DI SOFOCLE
NOSTALGIA D' EROE
Da DUEMILA E PIU'
n.ro 60, anno 7, 20 ottobre 2010
Un vivo ringraziamento a Carmelo
Profeta (Ex Comit)
Scrivendo il
" Filottete" forse il tragediografo di Colono voleva
alludere ad Alcibiade, l’aristocratico e corrotto
condottiero fuggito da Atene indignato contro il governo
democratico. Un’opera, la sua, di difficile
interpretazione per l'originalità progettuale e per i
probabili agganci politici con la società a lui
contemporanea.
Tra le tragedie sofoclee il Filottete è la meno amata e
celebrata, ma non la meno studiata. Anzi la discussione
sull’opera, scritta dal tragico ateniese alla soglia dei
novant’anni, è sempre viva e pone appassionati
interrogativi.
Priva di personaggi femminili in senso assoluto, essa
racconta la storia di Filottete, uno dei mitici re
dell’impresa troiana il quale era stato abbandonato dai
compagni su un’isola deserta perché durante il viaggio
alla volta di Troia era stato morso da un serpente e la
ferita, anziché rimarginarsi, perdeva sangue male
odorante e gli procurava atroci spasimi; le sue grida di
dolore, e più il fetore aveva indotto gli Atridi al
brutale abbandono dell’eroe in un luogo solitario e
selvaggio, col solo conforto dell’arco e delle frecce
che Eracle
aveva donato a Filottete come ricompensa quando, cedendo
alle sue suppliche, quest’ultimo aveva appiccato il
fuoco alla pira che doveva consumare il corpo mortale
dell’eroe e permettergli di assurgere in cielo tra gli
dei.
Filottete soffriva e si torturava per l' ingiustizia
subita già da dieci anni quando, essendo i greci nei
loro accampamenti sotto le mura di Troia molto
scoraggiati, gli Atridi chiesero un responso
all’indovino Eleno e questi predisse loro che la città
non sarebbe stata espugnata senza Filottete e il suo
prestigioso arco divino. I capi consapevoli che l’eroe
non avrebbe dimenticato l’onta subita, decisero di
condurlo a Troia con uno stratagemma e fu incaricato
Odisseo (nell’epica è Diomede) di portare a termine l'
impresa; questi, abilissimo in stratagemmi, giunse
nell’isola, dove languiva l’eroe, in compagnia del
giovane figlio di Achille, Neottolemo, affinché
Filottete non sospettasse nuovi inganni e credesse alla
promessa del giovane di riportarlo in patria. Tutto si
svolse come Odisseo aveva immaginato, ma a un certo
punto Neottolemo si rifiutò di ingannare il fiducioso
eroe e gli rivelò ogni cosa, destando la collera di
questi.
Alla fine sarà Eracle a indurre Filottete a seguire il
giovane fino a Troia, dove gli Asclepiadi lo avrebbero
guarito dal suo male e avrebbe conquistato gloria
immortale.
Questa, in sintesi, la trama. Purtroppo abbiamo solo
brevi notizie delle tragedie omonime di Eschilo e di
Euripide da un’orazione di Dione di Prusa. Pare che in
ambedue l’isola di Lemno non fosse deserta, e questo
potrebbe dimostrare che Sofocle insisteva volutamente
sulla solitudine, sulle emarginazioni del protagonista
dal contesto sociale. Certamente un confronto fra le tre
opere ci avrebbe illuminato sull’uso che la tragedia
greca faceva del mito di Filottete. Se cerchiamo di
interpretare il fenomeno tragico con l’apporto della
sociologia e della psicologia, potremmo imbatterci in
problemi di cui i filologi e gli storici si sono
occupati solo indirettamente. E’ fuor di dubbio che ogni
tragedia è in se stessa che può essere recepita da noi
moderni, solo se la si pone in un contesto sociale
localizzato nel tempo e nello spazio. Ogni dramma del V
secolo esprimeva certamente il mondo religioso greco con
i suoi riti e i suoi miti, ma contemporaneamente anche
un sistema di istituzioni sociali che sono giuridiche e
politiche insieme, forse in contrasto con le antiche
forme di pensiero religioso.
Nei personaggi si avverte questo conflitto tra i valori
della morale antica e quelli propri della città e ogni
protagonista è ritratto mentre si interroga
angosciosamente, e interroga gli dei sulle giuste
decisioni da prendere. Questa ambiguità e il simbolismo
che da esso nasce erano certamente trasparenti per lo
spettatore greco del V secolo, che era fruitore del
messaggio insito nella tragedia. A quale culto si
riferiva l’autore? Cosa ricordava ai cittadini della
polys, chi condannava, ammoniva, esaltava? Nel caso del
Filottete una consistente corrente esegetica si
pronunzia per una funzione educativa in risposta ai
problemi suscitati dai Sofisti a questo riguardo;
Easterling sostiene che Sofocle esalta nel Filottete il
potere della persuasione e della “filìa” (la pietas
latina).
Contemporaneamente egli propone una lettura in chiave
simbolica. La ferita di Filottete sarebbe associata alla
morte (morte civile), come l’isola deserta
(l’emarginazione) e il suo odio per i nemici suscitati
dall’ingiustizia e dall’inganno. La promessa dì
guarigione da parte di Eracle sarebbe una guarigione
dell’anima e del corpo, con conseguente reintegrazione
nella società. Già Untersteiner analizzando le notizie
fornite da Dione di Prusa aveva tentato spiegazioni del
mito antichissimo dì Filottete collegato spesso dalla
religione ctonia ad Apollo tramite il simbolismo
dell’arco e del serpente.
Nel momento storico dell’indo europeismo Filottete, dio
in origine, avrebbe perso la sua divinità divenendo
“parola divina”, cioè uomo, eroe. Egli sarebbe stato
punito perché si era opposto alla divinità femminile,
Era (Artemide o Demedra), dea della vita mortale, dando
fuoco alla pira che avrebbe consumato il corpo di Eracle
permettendogli di divenire un dio senza essere soggetto
al destino di tutti i mortali.
Di conseguenza, esaminando la teoria accettata da
Untersteiner riguardo a Filottete, punito da una dea,
questo potrebbe diventare il punto di partenza per una
seducente ipotesi: nel Filottete si potrebbe ravvisare
l’intenzione di Sofocle di affrontare il problema
dell’omosessualità.
Ad esempio, l'assenza dì personaggi femminili anche nel
coro; la ferita di Filottete, che col puzzo ammorba i
compagni, sarebbe un segno della sua sessualità;
l’abbandono su un isola deserta la necessità di
impedirgli di corrompere i giovani guerrieri; questo
spiegherebbe il fatto che l'eroe non si sente in colpa e
accusa i greci di inganno e tradimento. Allora la
presenza di Neottolemo per opera di Odisseo sarebbe come
un tentativo di assecondare almeno in apparenza le sue
tendenze; ma nonostante la sua “diversità” Filottete può
essere utile alla società, così, per volere degli dei
(anche Zeus amava Ganimede) egli viene recuperato e
accolto al campo greco, sotto le mura di Troia. Unica
obiezione a questa ipotesi potrebbe essere il fatto che
nel mondo greco l’omosessualità era spesso tollerata.
Una corrente esegetica moderna che in parte fa capo a
Louis Gernent, propone dì studiare il messaggio della
tragedia in chiave socio-politica. Gernent, infatti,
considera l'opera letteraria greca lo specchio in cui si
riflettono le tensioni della Polys del V secolo, tra le
nuove istituzioni proprie di questa e i modelli
culturali anteriori. Pier Vidal- Naquet inoltre in un
suo recente saggio ha tentato di stabilire un nesso
molto stretto tra il Filottete di Sofocle e l’efebia,
un’istituzione ateniese che, con un insieme di riti e di
varie procedure, preparava il giovane al passaggio dallo
stato di fanciullezza allo stato di adulto, cioè di
guerriero.
Ma si potrebbe vedere nel Filottete il riflesso di una
situazione politica ben definita; il tentativo di
restaurazione oligarchica in Atene dopo il disastro
della spedizione in Sicilia e il crollo del grande
impero ateniese che spinse varie città della lega a
rivolgersi a Sparta. L’eroe protagonista sarebbe
Alcibiade, l'uomo di parte aristocratica, affascinante,
ricco, abile in politica ma vizioso e corrotto nella
vita privata; era stato uno dei fautori della spedizione
in Sicilia e avrebbe voluto guidarla, ma la mutilazione
delle erme alla vigilia della partenza fatta da lui e
dai suoi fedelissimi buttò il discredito su di lui e
questi ultimi, spingendo gli Ateniesi a intentargli un
processo. Indignato contro il governo democratico che
egli aveva sempre disprezzato, Alcibiade si rifugiò
prima presso gli Spartani, poi presso i più grandi
nemici della sua patria, i Persiani.
Egli fremeva dal desiderio di vendicarsi dei suoi nemici
politici, non di Atene, e premeva per ritornare. Così
nella primavera del 409 Alcibiade e Trasillo ottennero
successi nell’Ellesponto, che fece sperare un futuro
meno tragico per Atene, spingendo gli Ateniesi a ridare
fiducia ad Alcibiade.
È a questo punto che Sofocle interviene con la sua
tragedia per richiamare l'esule in patria: Alcibiade è
da lui presentato agli Ateniesi nelle vesti dell’eroe
che ha subito ingiustizia dai compagni, e soffre esule
in luoghi deserti e inospitali. Ma Atene non può vincere
i suoi nemici senza di lui, come Troia non poteva essere
espugnata senza Filottete. Bisognava trovare il modo di
ottenere il suo ritorno in patria, nonostante le sue
colpe, che Sofocle descrive con la piaga maleodorante di
Filottete.
Forse il messaggio della tragedia era semplicemente
questo, e i suoi concittadini capivano che il Filottete
era essenzialmente una tragedia politica, e la capacità
che Sofocle vedeva nel suo eroe, di ispirare con le sue
sofferenze a Neottolemo le più alte virtù sociali
diveniva a sua volta un’affermazione della sua fede
politica ispirata ai valori aristocratici nei quali
credeva il tragediografo di Colono.