Allo specchio
un racconto di Fortuna Della Porta
 

Vi presentiamo un racconto di Fortuna Della Porta (apprezzata poetessa e scrittrice, Fortuna

è la moglie di Catello Califano, ex Comit).
Il pezzo è tratto dalla raccolta "Labirinti", che abbiamo già portato alla vostra attenzione nelle precedenti puntate delle News.
ottobre 2009

 

 

Mi sposto da una città all'altra con tale rapidità che spesso non faccio in tempo a fissarne il nome. Se pure chiedessi agli abitanti o mi attenessi ai cartelli di benvenuto sulla linea perimetrale, il giorno dopo, già in viaggio per un altro posto, è improbabile che ne serberei il ricordo. Pertanto è inutile.
Eppure ogni rilievo architettonico e ogni ciottolo in cui mi sono imbattuto sono sempre rimasti in me perché i paesaggi, ai quali non mi sembra di badare, sono sempre tornati di notte nei sogni. In una confusione di tempi e di spazi, sbucano per riportarmi angoli e persone intraviste, con la sensazione del dejà vu, ma negli ultimi tempii miei sogni sono diventati insopportabili.
Non è questione di sfondi.
Immagini sgradevoli mi opprimono durante la notte da qualche mese e persistono senza decantare durante il giorno. In esse mi vedo tanto vecchio da fare ribrezzo, con una barba pendula e incolta con briciole di pane impigliate dai peli, che il tremito delle mani non riesce a scuotere.
Ecco perché non mi fermo quasi più. Aspetto solo di crollare per la stanchezza di modo che gli incubi si tengano lontani da me.
Camminare mi impedisce di pensare e quando sono sufficientemente spossato, mi butto da qualche parte -un campo, una panchina- e appena sveglio chiedo di nuovo un passaggio a un automobilista o mi avvio a piedi in una direzione qualsiasi, di solito verso l'est. Vado ancora più lontano. Da un paio di anni faccio così e mi va alla grande.
Dovrei spostarmi quindi anche da questa città, prima che tornino gli incubi, ma non posso. Sono arrivato da alcuni giorni. Non so dove sono. Forse in una regione meridionale perché il clima è tiepido e asciutto. Ho notato un gruppo di case ordinate in due bande dalla strada principale, sotto una collina brulla, e in fondo la ciminiera di alcune fabbriche. Lavorano conserve vegetali, mi sembra. Sulla destra,
esile, ornato da una croce che di sera s'illumina, il campanile della cattedrale.
Questa volta non riesco a risolvermi, sono confuso anche di giorno più del solito. In questo paese mi sto ammalando perché non riesco a lasciarlo. Come si chiama?
Non so cosa mi trattiene, ma ogni volta che afferro lo zaino e faccio pochi passi mi sento a pezzi. Forse è vero che mi sono ammalato.
Ecco, sì, mi ha preso un virus. Forse dovrei cercare un medico.
In questa contrada scentrata, d'un tratto sto guardando in diagonale alle sue strade rettilinee. Ha una geometria simmetrica, a reticolato.
Donne, geneticamente di struttura tarchiata e di pelle brunastra, in abiti comodi, portano i bimbi al parco, sospingono i carrelli del supermercato, di rado accanto ai padri, ai mariti che di mattina presto si dirigono verso gli stabilimenti per le puzzolenti conserve di pesce.
L'aria ne straripa.
Mancano però volti o eventi familiari, un amico, un parente, un episodio della mia infanzia, che mi possa trattenere qui. Suppongo che a molti piacerebbe fermarsi in questa tregua, che purtroppo non riesce a sedurmi.
Alberi giovani, che non ho visto piantare, partono dalla piazza principale e seguono la strada che dovrebbe portarmi altrove come al solito e che non imbocco. Un tale senso di vuoto, quasi di abbandono, non l'ho mai provato prima. Sono disabituato a guardarmi intorno con tale puntiglio.
Mi accorgo di dare troppo spazio ai pensieri, mi accorgo di fare valutazioni, di aprirmi ai ricordi. Sono sorpreso.
La generazione Keruack non era la mia, ma essa non è mai cominciata e mai finita. Alcuni custodiscono uno spirito nomade. Se qualcuno volesse inquadrarmi insomma faccio parte della brigata dei giramondo, non di quella che ama tenere la mente impegnata. Uno con la neve in tasca e il cervello sempre in un altro posto, diceva mia madre. Mi guardava coi suoi presagi dalla soglia della camera con il volto pallidissimo senza tentare di fermarmi, ma, lo valuto adesso, diceva nonostante sorridesse: -Resta, figliolo. Mi mancherai.
Non sapevo che era l'ultima volta che la vedevo quando partii alcuni giorni dopo, con solo un jeans di ricambio e la mia chitarra. Si pose sulla porta di casa con la mano davanti agli occhi come per ripararsi dal sole e con l'altra in aria, ma immobile.
Quando telefonai alcuni mesi dopo non fu lei a rispondermi. Venne mio padre alla cornetta con un'accusa per niente sottaciuta nella voce strozzata:
-Sei contento? Non c'è più.
Smisi di telefonare. Di quel periodo ricordo vagamente i miei ricoveri di fortuna: case inagibili, capannoni abbandonati, pagliai, panchine del parco su cui ho dormito perché mi andava così.
Questo è il genere di sogni e di ricordi che mi cade tra capo e collo. Si tratta di sensi di colpa. Perciò devo decidermi a rimettermi lo zaino in spalla perché da fermo, me ne sto accorgendo, sono morto. Sto regredendo a uno stadio penoso, dal quale pensavo di essermi liberato in gioventù. Lo stato dei rimpianti, dei consuntivi a proposito dello schifo che chiamiamo vita.
Ci sono quelli, me compreso, che cominciano precocemente a cercare un punto di arrivo alla propria umanità, come una religione. C'è un che di mistico nel percorrere le periferie della terra, inseguendo la propria pace, chiamiamola così. Mi pareva di avercela fatta, fino ad ora.
Ho interpretato la libertà a modo mio. Un giorno mi sono messo in marcia, a piedi, con l'autostop, con mezzi adeguati o antidiluviani, e finora sembrava che mi andasse bene. Le piante dei miei piedi sono state incalzate dal fuoco del mio carattere. Non mi si poteva fermare.
Lo stanno facendo i sogni di notte e l'angoscia di giorno, però.
Non appena chiudo gli occhi, mi compare davanti quel vecchio -come dire?- slabbrato.
Comincia a gridare.
Radi ciuffi bianchi gli cingono le orecchie e le gote lucide sono cosparse di macchie brunastre. Un viso spigoloso e disseccato si allunga sotto una fronte smisurata e l'espressione è attonita, quasi guardasse angosciato il suo tracollo.
Non parla bene, scandisce alcune sillabe incomprensibili, si accalora esasperato su ciascuna di esse per renderla ad una ad una riconoscibile, ma neanche una parola di senso compiuto emerge dal balbettio.
Una goccia di sudore si arrotola nella piega delle sopracciglia, quasi congiunte dallo sforzo, e la disperazione degli occhi induce a credere che, dietro il fallimento dell'articolazione delle parole, lui capisca tutto. Sa che è troppo tardi. La vita è andata.
Agita a mezz'aria, fin dove lo conduce il braccio, un bastone contro il destino.
È mio padre spiccicato. Non mi ha perdonato e mi vuole colpire.
Mi metto a pensare, infatti, che quel bastone scrollato a malapena per mancanza di forze sia levato contro di me. La sua vecchiaia deve contenere anche il rancore contro un figlio che appena adolescente ha chiuso ogni porta col passato, anche se, mi hanno riferito, ha continuato a chiamarmi con affetto il suo randagio che resuscitava dalla geografia del mondo in occasione del Natale. Mia zia, toccandosi la gola, disse proprio così, senza guardarmi:
-Ti ha amato. Oh, sì. Ti amava.
Quell'ultimo Natale non lo avevo trovato. Ero giunto avventurosamente da temperature amene e mi era trovato coi miei
stracci a resistere alla tramontana che mulinava la neve come farina.
Bussai al portone, mi venne ad aprire uno sconosciuto. Alla fine quelli che occupavano la mia casa sembrava non sapessero di me e degli accidenti di mio padre.
Avevo capito subito.
Strani scherzi ci apparecchiano le nostre emozioni. Poco dopo mi trovavo a piangere, come non avevo pianto nel sapere della morte di mia madre, come non avevo pianto mai. Seduto sul gradino di una chiesa non appena mi resi conto che non c'era più, mi misi a
singhiozzare. Un cane mi venne a mettere il muso sulla faccia.
Quell'uomo insignificante mi mancava e non capivo.
Ce l'avevo con mio padre dall'infanzia, in pratica. Avevo detestato il suo modo convenzionale di vivere, da piccolo ragioniere appresso a piccoli progetti -una gita alla fine della settimana, una serata in pizzeria da incardinare nel bilancio del mese- le sue regole ossessive, quell'agenda su cui meticolosamente annotava entrate e uscite, chiedendo il rendiconto a mia madre del parrucchiere. Ero in fuga probabilmente dalla sua banalità e dalla sua miseria. Ma adesso che era morto mi sembravano difetti senza senso. Alle spalle sentivo il vuoto e non ero preparato a fronteggiarlo.
Zia Emma mi dedicò per tutto il tempo che restai il peso della sua disapprovazione:
-Non sapevo dove raggiungerti. Ti ha implorato fino all'ultimo.
Asciugandosi gli occhi col dorso della mano, poco dopo, a nome di mio padre mi consegnò un libretto al portatore con una somma che non avevo mai immaginato possedesse.
-Ha venduto la casa, disse. Poi, così parsimonioso….
Eravamo seduti su un sofà macchiato dalle battaglie degli anni, su cui mi ero spesso arrampicato da bimbo con le mie gambette dondolanti.
Me lo stava raccontando, ma quasi lo ricordavo. Il tanfo dei parati, ormai opachi, e degli arredi smorzati conteneva tutto il tempo della mia lontananza.
Non si era salvato un colore, solo il filo di perle intorno a quel collo seghettato era lo stesso della sua giovinezza, avvizzita dietro un amore impossibile e caparbio, che mai si era interessato a lei.
Mi raggiunse in quel momento il colore cangiante degli occhi dal grigio all'acquamarina, ancor più folgoranti e inquieti sulle occhiaie a reticolo e la pelle spenta. Anche il suo abbigliamento, se pur convenzionale, gonna e camicia bianca, avevano un che di antiquato.
Si era asciugata. Mi accorsi che le dita lunghe e affilate che avevano sorvolato come farfalle i tasti del suo pianoforte, che vedevo chiuso al posto solito, erano diventate nodose e macchiate con le vene sollevate.
Intatto era rimasto su di lei e nella stanza l'antico ordine meticoloso di riviste di moda millimetricamente allineate, come pure di capelli imprigionati in una treccia raccolta. Ricordai che solo a me lei aveva permesso di mettere tutto a soqquadro.
Seguendo il corso dei pensieri non allungai le mani per prendere il documento, ma non lo volevo.
-No, urlai quasi, non mi serve.
Cercò inutilmente di convincermi a prendere i soldi e a restare.
-Ci siamo solo io e te, ormai…Ora siamo soli, insistette. Io e te… ma da quella stanza e dal mio disagio me ne andavo appena possibile, cioè subito. Lei era perplessa, forse irritata.
Ho continuato a girare, l'ho fatto per anni, senza tornare una sola volta coi ricordi su quella circostanza, fino a che non sono cominciati i sogni, che non mi lasciano. Al centro oltre mio padre, mia zia che non ho più rivisto.
Non sono compatibile con l'astrazione. Il ragionamento astratto non mi è congeniale perché io vado e basta, eppure, eccomi rinchiuso all'improvviso in questa sorta di bilancio.
All'improvviso spalanco gli occhi e sono lucido. La mente ha ripreso a mulinare come una banderuola. Esamino il sogno appena concluso che mi ha lasciato zuppo di sudore. Ammetto sbigottito che quello che mi veniva incontro e mi malediceva attraverso il sogno non era mio padre, era il mio volto che ormai solo raramente butto in qualche
superficie che mi riflette.
È inutile che tenti d'ingannarmi e di appiccicare a quel rudere un'altra identità. Nelle cento rughe a raggiera intorno alle orbite leggo i miei sconclusionati andirivieni, donne prese e lasciate in una sera, una bottiglia di gin consumata in una congiunzione di angoli stradali, con compagni occasionali, la difficoltà che mi è toccata dopo che ho dovuto fare i conti con un ginocchio che ha ceduto, il cuore che non va e ora col mio cervello bloccato nell'afasia, qui nel fondo di un vicolo,
dove sono caduto di schianto, con gli occhi sbarrati, in una città anonima.

 

Fortuna Della Porta Califano